MARIO Il compositore Giuseppe D’Amico è nato a Sassari. Svolge parallelamente attività nel campo della musicologia e delle arti figurative (grafica e pittura). Si è laureato in musicologia al D.A.M.S. di Bologna nel 2005 con Maurizio Giani. Per quanto riguarda la composizione si è formato esclusivamente da autodidatta. Solo recentemente, da qualche anno, dopo un ricercato e volontario isolamento, ha iniziato a far conoscere i suoi lavori, ricevendo anche un certo numero di commissioni ed esecuzioni. Il suo catalogo è piuttosto nutrito e comprende, oltre a molta musica pianistica e per vari organici, dodici sinfonie per grande orchestra. Ha pubblicato alcune sue opere con Da Vinci Publishing. Alcuni suoi brani sono stati interpretati da Daniele Giorgi, Luca Ciammarughi, Tommaso Lonquich, Francesco Pasqualotto, Roberto Piana e Claudio Sanna. Recentemente il suo Quarto Concerto da camera è stato eseguito con successo alla Scala dall’ensemble “Giorgio Bernasconi” diretto da Renato Rivolta.
La prima domanda è d’obbligo: come è nata la tua passione per la musica e la decisione di dedicarti ad un’attività come quella del compositore?
GIUSEPPE La mia infanzia è stata soprattutto monopolizzata dal gioco e dal disegno. Ovviamente ascoltavo canzoni e sigle di telefilm e cartoni animati (che a posteriori mi hanno influenzato), ma a parte ciò si può dire che a quell’epoca la musica non avesse alcun ruolo nella mia vita. Qualche disco di musica “classica” in casa c’era (li ho ritrovati in parte distrutti e graffiati, dicono da me, ma cosa questo voglia dire non saprei spiegarlo). Comunque, nessuno strumento musicale. La “rivelazione” credo avvenne in terza media, forse con un pezzo di Beethoven; l’approccio pratico venne più tardi, verso i quindici anni. Inizialmente mi iscrissi al Conservatorio nella classe di violino, ma essendo un adolescente un po’ irrequieto “durai” per poco. Tuttavia, grazie a quest’esperienza arrivò a casa un pianoforte verticale bellissimo con un suono terribile. Quello strumento mi aprì le porte per la lettura e l’improvvisazione, tutto da autodidatta a parte qualche lezione privata di pianoforte da una brava pianista della mia città. Non posso dire che ci sia stato un momento in cui decisi di fare il compositore ma dall’improvvisazione alla scrittura il passo è stato breve, e così mi son ritrovato a comporre senza sapere di star componendo. Ho una certa predisposizione naturale per il pianoforte e la familiarità con questo strumento fu fondamentale, anche se capii subito che la mia carriera non sarebbe mai stata quella dell’esecutore. Poi arrivarono gli studi di armonia e contrappunto, sempre da autodidatta.
MARIO Quali ritieni siano le caratteristiche della tua musica?
GIUSEPPE La mia musica usa (recupera è un verbo inadatto) la tonalità come centro tecnico-linguistico del linguaggio, centro attorno al quale si collocano la modalità, nelle sue molteplici accezioni, e svariate tecniche legate a questa dimensione estetica. Spesso da essa traspare anche il mio interesse per la musica antica e per la musica etnica. Le forme che utilizzo sono varie, dalla sinfonia, al concerto a pezzi di dimensioni aforistiche. Il mio principale obiettivo è quello di estirpare, prima di tutto da me stesso, alcuni tabù che hanno attanagliato la mia generazione e quelle precedenti. Scrivendo sinfonie, ad esempio, mi son trovato più volte di fronte al problema di cosa sia e cosa non sia attuale. L’aspetto interessante è che solo la musica si fustiga con questi problemi. Il romanzo, o la narrativa in genere, continuano felicemente ad esistere senza assillarsi con queste problematiche e siccome la sinfonia è la forma narrativa della musica assoluta, non vedo perché dovrebbe apparire un’espressione obsoleta. Altrimenti, si dovrebbe accusare uno scrittore contemporaneo di non essere adeguato ai tempi perché i romanzi li scriveva Balzac centocinquant’anni fa: sono tutte aberrazioni prive di logica. “sonata”, “sinfonia” sono termini come “romanzo, racconto, quadro, poesia, dipinto, affresco, opera”: tutte espressioni generiche che hanno acquisito atemporalità. Naturalmente declino a mio modo gli aspetti formali. Per esempio, sono molto legato a Beethoven e a Sibelius nella costruzione, non nel senso che li imito ma che rappresentano dei modelli metodologici. Ad esempio le categorie di esposizione, sviluppo e ripresa generalmente non le esprimo in vere e proprie sezioni rimarcate, ma nella storia di un singolo tema che può avere la sua esposizione, il suo sviluppo e la sua ripresa in momenti e posizioni (o addirittura sezioni) completamente diverse da quelle di un altro tema. È un percorso basato sul disvelamento progressivo di relazioni che inizialmente vengono lasciate nascoste. Nell’armonia conservo le funzioni perché non amo molto l’armonia de-funzionalizzata (e non sono molto convinto che esista, visto che la mente cerca sempre e attua connessioni funzionali) ed è un mito che Debussy sia fatto tutto così: basta ascoltare l’enorme spinta cinetica che c’è ne La Mer. Le funzioni creano spinte interne e il presente si proietta nel futuro; non mi piacciono le fissità contemplative. Non intendo il contrappunto in senso speculativo, ma drammatico (è probabile che il fugato della Fantastica di Berlioz abbia stimolato il mio amore del contrappunto più delle fughe di Bach). Chi si fosse incuriosito può ascoltare su YouTube il mio Concerto per orchestra, che esemplifica queste tematiche.
MARIO Pensi che la tua formazione, atipica, abbia influito sul tuo pensiero musicale?
GIUSEPPE Difficile dirlo perché non ho la controprova. Posso dire che il mio atteggiamento generale ha causato il mio autodidattismo e che sicuramente questo stesso atteggiamento penetra dentro l’atto del comporre. In un suo scritto, non ricordo quale, Luciano Berio critica la figura dell’autodidatta, sostanzialmente definendolo una persona fragile che non vuole essere corretta da una guida e che tenderà successivamente a manifestare il suo dilettantismo. Posso essere d’accordo, ma l’arte non è una scienza esatta e in questo si gioca tutta la sua disperata ambiguità. Alla fine conta l’esito dell’opera e i casi di autodidatti nella storia sono tanti. Quello che forse mi è rimasto della mia relativa “atipicità” è il rifiuto del concetto di sistema e di coerenza, cioè l’idea che dalla coerenza tecnica si sviluppi, per automatismo, una coerenza dell’opera. Soprattutto, non considero le tecniche templi sacri da proteggere o da dover giustificare verbalmente con l’analisi. Ciò che mi interessa è la sfumatura, la modalità di passaggio fra contesti diversi che rende la mutazione plausibile all’ascolto, non capricciosa o casuale. Ma questa logica percettiva, al contrario di quanto si crede, è molto più dovuta alla maestria nella gestione delle nuances che a un nucleo sistematico forte e coerente, come certo organicismo novecentesco ha imposto. Mozart è un esempio fenomenale di questo: alcuni suoi movimenti hanno una quantità enorme di idee e spesso, alla faccia dell’analisi, risultano irrelate, prive di coerenza testuale, materiale e oggettiva (non esiste solo il finale della Jupiter). Solo che all’ascolto tutto fila e tutto è coerente grazie all’uso magistrale delle sfumature e dei momenti di transizione fra una dimensione e l’altra, come nel mirabile Minuetto che appare al centro del finale del Concerto K 271, contornato da due cadenze del solista. Ecco, questo è il residuo di libertà che la mia formazione mi ha lasciato, naturalmente criticabile ma, e lo dico da uno che i musicologi li ha frequentati un po’, al compositore dell’analista, del critico e del musicologo non deve importare niente: non si compone per loro.
MARIO Negli ultimi decenni, soprattutto in Italia, in ambito musicale contemporaneo si sono create due correnti estetiche spesso considerate antitetiche fra loro: quella derivata direttamente dalle avanguardie della seconda metà del ‘900 e quella che si è sviluppata a partire da una decisa reazione ad esse. Tu come ti collocheresti rispetto a tale antitesi?
GIUSEPPE Questa è la domanda forse più delicata, quindi permettimi di dilungarmi un po’. Il concetto di genere musicale è inviso a molti musicisti, l’etichetta dà fastidio. Nessuna etichetta però impedisce a un musicista di suonare blues la mattina, metal la sera e di fondere le due cose il giorno dopo. Il mondo del Pop e del Rock accetta di buon grado le etichette, anzi tende orgogliosamente a spezzettarsi, a rivendicarne le particolarità, anche all’interno di uno stesso genere. Ora, la musica colta (questo è, senza vergogna) non viene da un altro pianeta, si divide anch’essa in generi e in una miriade di sottogeneri. Ci sono degli incroci e delle intersezioni, ma ci sono anche delle tendenze generali. Io non appartengo al genere “musica contemporanea”, nell’accezione di “quella cosa figlia delle avanguardie”: appartengo a un altro genere che, per pudore ma anche per senso di superiorità, non si è mai dato un’etichetta, non ha un nome. Potrei chiamarlo “musica classica di oggi”, lasciando perdere la contraddizione interna alla definizione (“musica contemporanea” fa anche più ridere, visto che si riferisce a gente nata anche negli anni ‘20). Insomma, vengo, nel mio piccolo, dal mondo di Mahler, di Sibelius, di Ravel, di Prokofiev, di Shostakovich, di Britten. Ora, anche se questo mondo ha influenzato in parte il mondo delle avanguardie, è chiaro che non è la stessa cosa dire: “derivo da Cage, derivo da Boulez, derivo da Sciarrino”. Io mi colloco in quella dimensione, che non è mai morta (anche se l’hanno data per spacciata), ma che non ha mai avuto l’interesse o la forza di definirsi. Questo non definire le direzioni e i generi fa sì che un compositore “tonale” sia sempre esposto alla domanda: come mai non scrivi sperimentale? Sei tradizionalista o conservatore? Ma, nessuno si sognerebbe di chiedere a un blues man perché non usa la voce grave e dei testi satanisti come nel death metal. Quindi la “musica contemporanea” ha conservato il suo statuto, mentre la “musica classica di oggi” si è dispersa, quasi intimorita. La si ritrova nel cinema o in un sacco di compositori che, come me, operano nell’ombra; ha sacrificato una sua ufficialità, quasi come se Shostakovich e Britten fossero gli ultimi esemplari prima dell’estinzione. Ma non c’è stata nessuna estinzione, deve solo aumentare la voglia di esserci, buttandosi alle spalle un po’ di timore e di disincanto, purtroppo dovuto anche al terrorismo praticato dalle avanguardie negli ultimi cinquant’anni, che ancora lascia i suoi segni nelle istituzioni. Naturalmente, ci furono dei movimenti salutari e giustificati, come i Neoromantici, che provocarono nel sistema una reazione avversa. Oggi, almeno da un punto di vista dell’unità, questo aspetto è meno presente: è più in voga un certo solipsismo (io ne sono un esempio, in fondo). Naturalmente chi fa una scelta di campo non è che fa una scelta di stupida coerenza: io ascolto e analizzo “musica contemporanea” sempre. Magari non adotto quelle soluzioni, ma so che lasciano un segno subliminale che può tornare utile e non ho nessuna remora a dire che molti di quei compositori mi piacciono. Da un punto di vista creativo però ho fatto una mia scelta, che è anche strategicamente controproducente. Il termine “reazione” rispetto alle avanguardie è per me vero solo in piccola parte: io non reagisco contro di loro, semplicemente continuo un percorso storico, come tanti altri, che non aveva nessun motivo di essere interrotto.
MARIO Come vedi la contrapposizione novecentesca, e tuttora attuale, fra arte elitaria e popolare, fra soggettività dell’artista e mercato?
GIUSEPPE I due poli elitario e popolare mi interessano relativamente. Ogni espressione artistica valida è sempre soggettiva, quindi implica un elemento sconosciuto: l’altro. Questo farebbe propendere verso un solipsismo elitario e generalmente incomprensibile e molta arte ha scelto questa direzione. Dall’altra parte c’è la negazione della soggettività in favore di stereotipi funzionanti. Il mio ideale è ancora un altro, e cioè un artista che si esprime soggettivamente, quindi espone un lato sconosciuto agli altri, ma lo realizza attraverso una grammatica condivisa in modo tale da evitare l’elitarismo o il commerciale come aspetti “voluti”. Detta così sembra molto schematica, ma per me il numero di persone interessate a una cosa non ne determina di per sé la natura. “L’urlo” di Munch era pura avanguardia elitaria alla fine dell’800; oggi è in qualsiasi posto, un’icona pop. Questa imprevedibilità fa si che queste categorie per me non debbano disturbare l’atto creativo. La nicchia o il popolare son dannosi per me quando son contenuti, come intenzione, nel progetto dell’artista. Voglio fare una musica che esprime la mia soggettività, ma che non sia una sfinge. E poi c’è il fatto che quella grammatica condivisa di cui parlo serve anche a far si che la mia musica parli a me oltre le cose oggettive che so di lei, come se venisse da un’altra persona sconosciuta. Solo nell’estraniarmi la posso giudicare.
MARIO Ritieni che l’attuale situazione musicale riveli un graduale allentarsi delle ideologie estetiche del ‘900 e, se sì, a cosa si deve questo processo?
GIUSEPPE Ho parlato prima dell’influsso nefasto delle ideologie, ma una cosa positiva le ideologie la rappresentano: l’idea di credere in qualcosa di ben definito. Le rigidità delle avanguardie producevano al loro stesso interno delle crisi fortissime. L’allentarsi delle ideologie estetiche ha naturalmente un suo lato positivo, ma può anche essere la conseguenza di una mancanza di forza vitale, nonché anche di una certa noia e disinteresse. Dal mio punto di vista rifiuto le rigidità ideologiche, ma ho le mie idee e anche delle ripulse. Secondo me, sottopelle le fazioni musicali si odiano a morte ancora oggi (per fortuna), solo che esplicitarlo sarebbe ridicolo perché ormai siamo totalmente ai margini della cultura, cultura che a sua volta è ai margini della società. Quindi preferiamo una pigra pace priva di esposizioni ridicole. Conseguentemente, a mio parere, questo processo non è dovuto a una riappacificazione, ma a una perdita radicale di centralità. Oggi ci si trova, come conseguenza di questa situazione incerta, di fronte a fenomeni raffinatissimi in cui in un contesto sperimentale si affaccia come preziosissima citazione al cubo un elemento di linguaggio tradizionale, un accordo traslucido in trasparenza pronto a fuggire, una pulsazione costante pronta a recitare il mea culpa. Insomma, un mondo raffinatissimo che piace tantissimo agli intellettuali superstiti e prepara la musica alla nobilissima recensione del critico. Dal mio punto di vista io amo le cose esplicite. Tonalità? Benissimo: accordi belli evidenti, funzioni cadenzanti armoniche delineate nella direzione, melodie con componente fraseologica molto chiara (riferimento al mondo della danza), in alcuni casi smaccata immediatezza di espressione, assenza sostanziale di citazioni, nessun pudore a manifestare un contesto stilistico familiare. C’è tutto per far inorridire il raffinato critico appena descritto, l’intento non è polemico bensì espressivo. Non amo però, sia chiaro, un uso opportunistico della semplicità.
MARIO Cosa ne pensi dei “concerti – festival di musica contemporanea”?
GIUSEPPE Qui il concetto di genere musicale salta all’occhio. Quello è un settore specialistico ed ha il diritto di esserlo. Continuo con la similitudine col metal. Una volta andai a un concerto durissimo di metal estremo (io non sono un appassionato, venni trascinato). Era una manifestazione ultra specialistica: non avrebbero mai accettato di farsi precedere da gruppi pop o da un karaoke per rendersi più commestibili; c’era l’orgoglio di essere, nella consapevolezza che quella fetta di pubblico si sarebbe conservata. Anche la “contemporanea” è così: ha il suo statuto estetico, non può fare entrare qualsiasi compositore, altrimenti è il caos. Inutile illudersi, gli specialismi esistono e non mi sogno minimamente di lamentarmi dell’esclusività di quegli ambienti, tanto io non ci voglio assolutamente entrare se non come spettatore, come mi è capitato a volte. Il punto debole è quando questa musica si fa venire i sensi di colpa, si ricorda che deve avere una vocazione universalistica, che dev’essere capita da tutti e dunque viene eseguita insieme a Beethoven come una sorta di concessione doverosa. Per ritornare alla similitudine, è come se i Cannibal Corpse accettassero di suonare un pezzo in un concerto di Bob Dylan per diversificare la fetta di pubblico. Questa cosa non ha mai e poi mai funzionato, anche perché spesso sono atti di volontà, non atti di spontaneo desiderio, e in più manifestano un latente senso di colpa e una crisi d’identità, come se realmente quella fosse “musica classica” che si fa con Schubert e Brahms. È altro, bisogna farsene una ragione; può darsi che sia anche meglio, ma è altro. Esattamente come Bruce Springsteen sarebbe altro in un concerto di Paolo Fresu, ma questa cosa non la si vuole digerire ed accettare. Il fatto che Boulez o chi per lui usasse permutazioni come l’ultimo Beethoven non vuol dire affatto che sia lo stesso mondo, esattamente come Perotinus non è lo stesso mondo di Beethoven. Infatti è difficile che si faccia Perotinus insieme alla Nona di Beethoven, e nessuno lo trova strano. Le specializzazioni esistono, cerchiamo di purificarle dai sensi di colpa. I pezzi entrati nel repertorio della “contemporanea” son pochissimi rispetto alle ambizioni e al numero di brani composti. La musica colta che crede di essere un unico grande mondo che deve unirsi nelle sue diversità perché diramazione della stessa storia fa proprio ridere. Paradossalmente c’è più vita in una dimensione frammentata, in cui ogni frammento è carico di orgoglio nella sua diversità, che non nell’unione artificiale del tutto. Quindi: sì ai festival elitari e specializzati, ci va chi è appassionato e chi non è interessato sa come evitarli. Non fingiamo un universalismo voluto nella conformazione dei programmi ma mai voluto nella sostanza musicale dei pezzi presentati. Piuttosto sarebbe il caso che i compositori “tonali” (il termine è terrificante e riduttivo) o che fanno altro si rendessero conto di appartenere a un genere, se questo non li umilia troppo, ed acquisissero anch’essi un elemento di esclusività, come ad esempio avere dei festival dedicati. C’è un paradosso: è vero che la ricchezza culturale nasce dalla contaminazione delle diversità, dall’inclusione, e allo stesso tempo è anche vero che tali diversità esistono perché si sono chiuse orgogliosamente nel loro particolare per maturare. L’arricchimento del Gamelan attraverso Debussy lo si deve anche alla tradizione del Gamelan stesso, capace di una forma di conservatorismo interno che lo ha preservato per poi divenire un’esperienza autentica ed esportabile. Il crossover (e forse lo sono anch’io) può esistere solo in un mondo di contrapposizioni estremamente variegato. A nessuno vien negato di esser libero da un ambito di appartenenza, di essere totalmente indefinibile, ma ciò non vuol dire che tali ambiti non esistano.
MARIO In una precedente intervista hai detto che il compositore oggi deve “usare la storia senza esserne sopraffatto”. Puoi spiegare questo concetto e quale debba essere il rapporto fra un compositore vivente e il passato musicale?
GIUSEPPE Mi scuso, ma devo fare un esempio rozzo: l’invenzione della ruota è antica ma nessun ingegnere ha mai pensato che la ruota, in quanto invenzione appartenente ad altre epoche, debba essere considerata obsoleta e quindi sostituita con qualcosa di più attuale. La ruota continua a funzionare e ad essere insostituibile. L’arte, siccome si muove in un rapporto problematico col concetto di utilità, crede invece che, in quanto frutto della storia, per attualizzarsi debba far morire alcuni aspetti efficaci del suo linguaggio solo perché sono stati creati in un contesto storico diverso. Così è stato per lo sviluppo della tonalità (includo anche la modalità in un continuum storico). Come la ruota non appartiene alla natura, così la modalità-tonalità è un artificio che si è sviluppato nella storia, ma è un artificio edificato sulle nostre caratteristiche biologiche-percettive, esattamente come la ruota è un artificio basato su leggi fisiche che la rendono funzionale. Questa funzionalità è atemporale: in un sistema che funziona niente si satura o si consuma. Quando si diceva che, poniamo, l’accordo di settima diminuita aveva perso la sua forza e quindi si era reso inutilizzabile, un ferro vecchio, si diceva una castroneria basata su una logica illusoria. Noi ascoltiamo emozionati la “settima diminuita” del Don Giovanni quando entra la statua; se noi eseguiamo oggi quell’opera è perché il suo effetto è attuale. Quell’intervallo di settima era vivo allora come oggi, esattamente come era morta allora come oggi nelle mani di un compositore mediocre. Quindi, e questa è la contraddizione, un “oggetto” (la settima diminuita) sarebbe ancora valido percettivamente perché ancora ascoltiamo il Don Giovanni, ma sarebbe invalidato creativamente e dunque inutilizzabile. Assurdo: sarebbe come dire “la ruota funziona benissimo, mi porta da Sassari a Porto Torres, ma guai a voi costruttori, ingegneri se provate oggi a costruirne una”. L’esempio rozzo serve a far capire la stupida ottusità di queste posizioni storiche. Per me comporre non è un atto storico, in cui io sono un tassello dentro il percorso della storia che deve rispettare il suo turno. Per me comporre è combinare tutta la realtà della mia memoria e delle mie esperienze, estromettendo con decisione l’aspetto censorio che qualsiasi forma di “attualismo” voglia impormi. Il mio mondo è fatto di Beethoven, di Bach, dei balli sardi che sentivo da bambino, delle sigle dei cartoni animati, dei Beatles e di mille altre cose. Voglio che tutto ciò pulsi in superficie, naturalmente cercando una disperata sintesi, una mia formula (diversamente sarebbe un calderone mostruoso). Certi pezzi mi sconcertano: son sicuro che niente hanno a che fare con le esperienze di vita, col materiale di cui è composta la coscienza e la memoria dei compositori. Mi sembrano spettrogrammi della censura e dei tabù, sacrifici al proprio ambiente e alle proprie ambizioni carrieristiche. Ci si riempie la bocca di Mahler, soprattutto negli ambienti “alti”, ma allo stesso tempo l’esempio di questo autore si è praticato pochissimo nella realtà. Mahler è una coscienza mnemonica che ribolle fatta opera, e tutto affiora: la Processione di Elsa, la Quarta di Beethoven, il valzerino sghembo… Di fatto ci si guarda bene dal capire che il nesso della sua musica non è far confliggere “l’alto” col “basso”, ma rappresentare senza censura storica il suo mondo interiore, facendo capire che tutto in esso è vivo e atemporale nel suo valore comunicativo e semantico. La più criticata delle sue sinfonie, la Quarta, considerata all’epoca un pasticcio haydniano, è oggi la più eseguita ed amata perché ci dice che i linguaggi non muoiono mai, che la storia non uccide sè stessa ma vuole riemergere, anche in un mondo fatato o distorto. Schönberg adoratore di Mahler, ma soprattutto Webern (li stimo entrambi) inaugurarono l’idea di una storia che divora sè stessa, negandosi. Niente muore, tutto va ricontestualizzato in relazione al nostro mondo emozionale. Quando restiamo fedeli alla rappresentazione di questo mondo, tutte le fonti saranno esplicite, ma la sintesi sarà originale. La nostra unicità è la garanzia di questa originalità, perché dichiarata, esposta e rappresentata in una sintesi artistica.
MARIO Come vedi il futuro della musica cosiddetta “d’arte” (termine inefficace, ma ci siamo capiti)? Sei anche tu fra coloro che ritengono che il mestiere del compositore appartenga al passato o intravvedi una prossima evoluzione?
GIUSEPPE C’è da dire che il compositore è l’unico “complessato”, nel mondo della cultura, che pensa di appartenere solo al passato. Uno scrittore o un pittore raramente si pongono di questi problemi. Tuttavia c’è un problema grosso che viene un po’ sottovalutato: l’intelligenza artificiale. La maggior parte dei prodotti funzionali che i compositori creano (come ad esempio le musiche per fiction, film, videogiochi) sono nella media. Se pur interessanti a volte, raramente sono espressione di autentica genialità. Purtroppo l’intelligenza artificiale ha dimostrato già di essere in grado di sostituire benino la creatività a questi livelli, e ciò vale anche per l’arte figurativa usata a fini commerciali (copertine e altro). Quindi queste figure sono in serio pericolo e, per paradosso, ciò che rimane fuori è proprio la genialità che si esprime nella musica “assoluta”, un ambito nel quale l’IA al massimo può essere un’applicazione esterna, non una sostituzione. Credo che una figura che crei opere complesse e coinvolgenti con i suoni ci sarà finché esisterà l’uomo, tuttavia questa variabile tecnologica ha conseguenze per me imprevedibili, perciò non so dire quale sarà il futuro per la figura del compositore.
MARIO La domanda più difficile: cosa vuol dire oggi scrivere musica “nuova”?
GIUSEPPE Un errore storicistico enorme è il pensare che la storia sia, in fondo, sempre uguale e i problemi sempre gli stessi. Non è così: l’arte affronta oggi problemi mai visti, di una natura sconcertante. Noi veniamo da un ‘900 che ha fatto letteralmente esplodere tutto: ha esplorato l’impossibile in una misura sconvolgente tanto da far sbattere il “muso” contro un muro, che io chiamo “muro degli stili”. Questo è un fenomeno nuovissimo. Intendo dire che qualsiasi cosa noi facciamo è immediatamente riconducibile a un già visto (provare per credere), anche le cose più stravaganti. Un fenomeno come la Fantastica di Berlioz, o il Sacre di Stravinskij, o l’op. 11 di Schönberg, cioè opere che aprono mondi nuovi, non sono più riproducibili. Nel 1913 un tale si poteva alzare e dire: “voglio fare un pezzo con tutti i metri sballati, con sette tonalità che si sovrappongono, con strumenti usati fuori registro”, e il tale era già sicuro che se l’avesse fatto (a prescindere anche dalla qualità) sarebbe stata una cosa nuova, percepita da tutti come tale. Proviamo a fare questo esperimento mentale oggi: ci renderemmo tristemente conto del fatto che anche l’idea più strampalata c’è già (ammesso che valga qualcosa) e che lo spazio della novità percepita è esiguo e comunque sempre legato al raffinamento di particolari. Per questo le avanguardie sono entrate in crisi: i territori son stati esplorati tutti. Noi oggi usiamo i nuovi software, ma i pezzi che ne derivano son più o meno cose già sentite con mezzi aggiornati, cioè la tecnologia non rende dirompente la sostanza. Allora io sposto il concetto di “nuovo”, e quindi di speranza, su un altro piano. Bach utilizzava tutti i mezzi del suo tempo, probabilmente veniva percepito da alcuni come oscuro, ma credo che pochi lo percepissero come nuovo. Anzi, stranamente, lui tendeva a omettere chirurgicamente tutti gli aspetti che profumavano di attualità, eppure la sua musica oggi appare nuova, o atemporale, proprio perché lui personalizzava quasi morbosamente tutti gli elementi grammaticali dell’epoca, non distruggendo assolutamente niente, non facendo tabula rasa, ma conservando una memoria profonda del passato. Il suo è un “nuovo” dentro il linguaggio, non contro il linguaggio, quindi non è un nuovo esplosivo, è sostanza. Ora, io non sono uno di quelli che dice che il nuovo non ha importanza: il nuovo è sempre stato una componente vitale della creatività, ma è questa seconda accezione di nuovo che mi interessa, non quella esplosiva novecentesca (che poi è diventata, nel nostro immaginario, l’unica idea di nuovo). Nelle mie composizioni adotto grammatiche riconosciute e cerco di innestare in queste la mia personalità, nella conformazione delle melodie, nelle concatenazioni armoniche… Se mi dicono che le mie cose son riconoscibili (non so se lo siano) vuol dire che ho conquistato una forma anche minima di nuovo, quel nuovo che si insinua fra elementi familiari, non quel nuovo esplorativo di territori sconosciuti, che a me sembra che oggi nessuno scopra più. Questa tipologia di “nuovo” è la più ricorrente nel mondo dell’arte ed è infinita quante infinite sono le personalità.
MARIO Parlaci dei tuoi progetti futuri.
GIUSEPPE Più che progetti legati a un’attività ufficiale sono progetti compositivi: spero di finire a breve la mia Dodicesima sinfonia, molto ampia e legata a cinque quadri della pittura fiamminga (infatti penso proprio di intitolarla banalmente così: Fiamminga). A breve uscirà un cd col bravissimo Francesco Pasqualotto con musiche pianistiche di Bartók e le mie…chiedo scusa a Bartók! Inoltre, sono inoltre previste esecuzioni da parte del bravissimo Claudio Sanna, pianista e compositore che sta esplorando le realtà compositive della Sardegna e che eseguirà un mio trio inserito in un progetto di musica da camera, e altre cose. Dopo, vorrei dedicarmi alla musica cameristica, che ha anche chance più realistiche di venire eseguita (dico sempre così ma poi l’orchestra finisce per mangiarsi tutto un’altra volta). E c’è un concerto per pianoforte che aspetta.
Immagine di copertina Giuseppe D’Amico, Nella tempesta, Tecnica mista, courtesy dell’artista
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