Alle 14 donne uccise in quest’inizio di 2021, nel settecentesimo anno dalla morte di Dante
Da settecento anni Dante accompagna i suoi lettori alla scoperta dell’umanità, in un viaggio quanto mai affollato di presenze. Dante auctor guarda a quest’umanità da una prospettiva il cui punto di osservazione coincide con quello di Dio: sono vite concluse e passate in giudicato, racconti esemplari.
Ma sono anche esistenze potentemente intrecciate alla storicità e alla quotidianità delle brulicanti vite terrene degli uomini e delle donne. Eppure queste vite non sono equamente distribuite negli incontri di cui è tramato il viaggio. Dei 367 personaggi riconoscibili individualmente nella Comedìa solo quarantuno sono donne1. Le donne che prendono la parola sono ancor meno, e stanno in poco più di una mano quelle che dialogano con Dante: Beatrice e Matelda, Francesca, Pia de’ Tolomei, Sapia, Piccarda, Cunizza. Ma le prime due appartengono a mondi remoti, abitano gli spazi inarrivabili del sacro, i territori astratti dell’allegoria; le altre cinque invece ci parlano con la voce del mondo femminile contemporaneo a Dante: l’autore ha trasformato in letteratura la cronaca del suo tempo.
Ciò di cui però non sembriamo esserci accorti è altro: inavvertitamente, l’esplorazione di queste esistenze diventa anche l’interrogazione del silenzio femminile. Dante viator, con le sue domande o anche con la sua sola presenza, spinge tre di loro, Francesca, Pia e Piccarda, a dire quanto non hanno mai potuto raccontare: la violenza subita in famiglia, perpetrata nelle loro case, dagli uomini.
Francesca e le altre, prima di essere personaggi, sono state persone. Nulla ha fatto loro da riparo alla violenza che le ha travolte, non l’essere donne ben accasate o allevate nell’agio di famiglie potenti, né l’essere colte o animate da un’intensa spiritualità. Hanno avuto differenti vicende di vita e le loro anime hanno ricevuto per questo diverse sorti nell’aldilà, ma tutte, la dannata, la penitente e la beata, hanno conosciuto la violenza che si è abbattuta sui loro corpi. Dante le chiama a dire, a denunciare, nell’ordine in cui le ha intenzionalmente disposte, una per cantica.
Le tre donne sono altrettante tappe in cui la parola femminile, sottratta alla testimonianza, messa a tacere per sempre nella vita quotidiana, risuona per dare voce al non-detto, al non-dicibile. Tramite loro, Dante a sua volta ci dice che la violenza esercitata dagli uomini sui corpi delle donne è ciò che accomuna l’esistenza di molte di loro. Allora come ora.
I mille volti del femminile
Per cogliere l’eccezionalità – non solo letteraria – dei profili di Francesca, Pia de’ Tolomei e Piccarda, conviene ampliare la nostra prospettiva fino all’insieme delle rappresentazioni del femminile all’interno dell’orizzonte narrativo della Commedia.
Il femminile nella Commedia ha molti volti, ma gran parte di questi volti sfuma nell’indistinzione delle anime presentate in schiere, come nelle turbe dei limbicoli, composte d’infanti e di femmine e di viri 2 o si disperde nelle generalizzazioni di Dante laudator temporis acti, che ricorda le donne sobrie e pudiche della Firenze antica attraverso il loro abbigliamento3.
É una femminilità tutta letteraria quella che si profila nelle similitudini e metafore4 di ascendenza classica, come il paragone di Matelda con Proserpina/Primavera, fino alle suggestive personificazioni dei momenti del giorno5, quali il destarsi dell’Aurora dal suo letto.
Il femminile si presenta anche come luogo dell’orrido e dell’osceno nella rappresentazione delle Furie anguicrinite6 o in personificazioni laide come la puttana sciolta7. Proprio la frequente personificazione – di concetti o virtù – in corpi femminili conduce ad esiti quanto mai antinaturalistici: il rosso fuoco della carità, il verde smeraldo della speranza, il bianco niveo della fede prendono letteralmente corpo nelle danzatrici – le tre virtù teologali – che attorniano, sulla sommità del Purgatorio, un carro, simbolo della Chiesa trionfante.
Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;
l’altr’era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;
e or parëan da la bianca tratte,
or da la rossa; …8
I profili femminili di personaggi leggendari o storici sono maggiormente riconoscibili per il lettore, ma consistono in pochi tratti disegnati in versi essenziali come didascalie: hanno l’incisività delle effigi sui cammei o sulle monete, ma spesso non si va oltre una galleria di ritratti nominali.
Poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse,9…
I’ vidi Electra con molti compagni…
Vidi Cammilla e la Pantasilea: […]
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia10
Il femminile che salva
In realtà il femminile è nella Commedia una presenza così costante e conosce una prossimità così attiva da risultare pervasiva: questa vicinanza si dà nella figura del femminile che salva.
È a una figura femminile, a Beatrice, che Dante viator affida la sua salvezza, come l’umanità l’ha affidata a Maria. Ma la parola di Beatrice e di Maria non è voce del “femminile”. Essa travalica non solo il suo genere, ma l’umana natura:
O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento11
Vergine Madre, figlia del tuo figlio
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì…12
Beatrice, loda di Dio vera, è parola eloquens già nel nome, “colei che dà beatitudine”, e consente a Dante, all’ amico suo di accedere al senso divino del mondo. La preistoria stilnovista e simbolica di Beatrice, fatta di sguardi e memorie della tradizione lirica volgare, ritorna nella Commedia con nuove significazioni, nella figura della donna che reca la salvezza. All’interno della funzione salvifica del “femminile”, movenze, sguardi, parole si riflettono da una donna all’altra, a partire dall’iniziale trafila paradisiaca, dove l’intercessione per la salvezza di Dante passa da Maria a santa Lucia a Beatrice13.
In questa grandiosa messa in scena da cui prende avvio la vicenda di salvezza di Dante, il linguaggio della cortesia e dello stilnovismo esprime adesso la tensione verso il trascendente, meta verso la quale il femminile svolge un ruolo fondamentale di mediazione.
Nel Purgatorio Lucia sollecita, dalla parola soccorrevole, Lucia dagli occhi belli, colta nella natura fiorita14, anticipa Beatrice dallo sguardo d’aquila del primo canto del Paradiso e al tempo stesso richiama la Beatrice dagli occhi che lucean più che la stella15, levatasi a volo dal suo seggio paradisiaco per soccorrere Dante. Le parole e gli sguardi di queste donne sono messaggi, indicazioni verso la salvezza e ritornano ora nell’una ora nell’altra, in una fitta trama di rinvii. Ancora una volta, la funzione assegnata al genere nega qualsiasi concretezza a queste figure di donne.
L’ordine delle madri
Ma Dante non dimentica che attraverso il genere femminile si è data l’umana natura, figli tutti come siamo di quell’Eva la cui enigmatica bellezza – quella ch’è tanto bella – risplende, muta e senza tempo, in paradiso, ai piedi di Maria.
Nello stabilire la topografia del Paradiso, Dante traccia graficamente un “ordine delle madri” ben riconoscibile nella disposizione dei beati. Nell’anfiteatro paradisiaco, la candida rosa, l’umanità è suddivisa in due settori che si fronteggiano, a seconda dei due modi in cui ha avuto accesso alla salvezza: la fede in Cristo venturo e la fede in Cristo venuto. La linea verticale di demarcazione dei due emicicli è evidenziata dai seggi a scalare di Maria, Eva, Rachele, Sara, Rebecca, Giuditta e le altre donne bibliche.
«La piaga che Maria richiuse e unse,
quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi
è colei che l’aperse e che la punse.
Ne l’ordine che fanno i terzi sedi,
siede Rachel di sotto da costei
con Bëatrice, sì come tu vedi.
Sarra e Rebecca, Iudìt e colei
che fu bisava al cantor che per doglia
del fallo disse ‘Miserere mei’,
puoi tu veder così di soglia in soglia
giù digradar, com’io ch’a proprio nome
vo per la rosa giù di foglia in foglia.
E dal settimo grado in giù, sì come
infino ad esso, succedono Ebree,
dirimendo del fior tutte le chiome;
Pd. XXXII vv. 4-18
Questo asse radiale femminile indica, tramite la disposizione gerarchica di Maria, Eva e delle antiche donne ebree, un “ordine delle madri”, una cerniera in un tempo umano spartito dal frutto di un atto generativo, la nascita di Cristo. Quest’ordine si oppone specularmene a un “ordine dei padri”, i Padri della Chiesa e i fondatori degli ordini monastici, che siedono di fronte alla fila dei personaggi femminili: ad una generazione nella carne propria solo delle donne corrisponde specularmene una fondazione dell’intelletto e della volontà da parte degli uomini. La simbologia spaziale e numerica della candida rosa brucia e sublima ancora una volta il quotidiano delle esistenze femminili.
Le donne e la vulnerabilità offesa
La quotidianità delle esistenze femminili si palesa solo con le cinque donne la cui biografia s’inscrive nelle cronache del tempo e nella memoria personale dell’auctor. Il cambio di prospettiva è decisivo: queste donne portano con sé la realtà fattuale della vita vissuta.
Al fondo della vicenda di tre di loro giace una stessa storia, la storia della loro vulnerabilità offesa.
La vulnerabilità sociale delle donne per Dante è un fatto così ovvio da essere dato per scontato. Ma Dante è il primo a schiuderci gli interni di una domesticità, allora come ora, violenta.
Il poeta, nel mettere in scena il male del mondo, ha separato i generi. La violenza maschile è subita ma nel contempo agita nei luoghi dell’azione pubblica e politica: la troviamo nello sconvolgimento dei campi di battaglia16, dove i fiumi si arrossano per il sangue, i corpi sono squarciati dalle ferite e la morte avviene per dissanguamento; abita permanentemente entro le mura di una municipalità faziosa qual è quella che contraddistingue i Comuni italiani17. Questa violenza dilaga con l’estendersi della volontà di dominio degli uomini, i tiranni che dier nel sangue e ne l’aver di piglio18, come Ezzelino da Romano, oppure alligna subdola nelle curie e nelle regge, dove ha la sua matrice nell’invidia.19
Di contro, la violenza femminile è violenza privata, familiare, domestica, subita da parte di mariti e fratelli. Il ceto sociale non fa la differenza: essere istruite, appartenere a famiglie ricche e potenti non salvaguarda le donne. Soprattutto, è una violenza saputa ma taciuta, non ha un luogo in terra dove poter essere pronunciata, perché avviene all’interno della stessa istituzione che garantisce ai tempi di Dante la tutela delle donne: la famiglia. Ma è proprio in quest’ambiente che la voce delle donne è stata messa a tacere per sempre: essa ritrova le parole solo nella narrazione di Dante.
Ad una prima lettura non si avverte da subito il portato di denuncia contenuto nelle parole che Dante fa pronunciare a queste donne, perché ben altro rimane impresso di quanto viene detto, come la passione raccontata da Francesca, o perché la conversazione tocca punti d’impegno etico e cosmologico come in Piccarda o perché le parole sono apparentemente vaghe, ambigue, come quelle di Pia. Le loro parole devono essere ascoltate con attenzione, perché il non-detto pesa più di quanto non sembri.
Chi non conosce Francesca da Rimini, il primo personaggio a tutto tondo della Commedia. La sua voce ha attraversato i secoli, affascinando i lettori con la narrazione di una tragica vicenda di Amore e Morte. Ma della sua storia ricordiamo soprattutto l’Amore, a cui Francesca attribuisce, a colpi d’anafora, il suo peccato, la passione per il cognato Paolo.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.
Inf. V vv. 100-7
Di lei ricordiamo anche la gentilezza, premurosa e cortese, con cui augura a Dante quello di cui è stata privata per sempre, la pace20. Scivola via dalla nostra coscienza la denuncia puntuale, alla chiusa del discorso, del suo assassinio: Francesca ci dice che è morta uccisa dal marito, a cui è già assegnato il posto che gli spetta nel fondo dell’Inferno.
La prima donna della cronaca a cui Dante dà la parola nella storia della nostra letteratura è una donna morta ammazzata. La storia di Francesca non è solo la storia della violenza della passione a cui si è abbandonata, è anche la storia della violenza maritale, a cui il codice penale italiano, con il “delitto d’onore”, concedeva fino a meno di quarant’anni fa di esprimersi, con pene irrisorie, a tutela dell’onore del maschio.
Il primo personaggio femminile della seconda cantica è collocato anche stavolta in un quinto canto, quando il viaggio è agli inizi. Nell’Antipurgatorio, un luogo di espiazione destinato a chi si è pentito tardivamente perché colto all’improvviso dalla morte violenta, troviamo Pia de Tolomei, donna senese, morta per mano del marito.
Il suo racconto – due sole terzine alla chiusa del canto – è preceduto da quello ben più esteso di due uomini del tempo, morti violentemente anch’essi. Sono Jacopo del Cassero, podestà di Bologna, assassinato dai sicari del signore di Ferrara, e Bonconte di Montefeltro, che trovò la morte come condottiero nella battaglia di Campaldino, scontro cui aveva partecipato lo stesso Dante.
I racconti dei due personaggi hanno tonalità diverse, ma li accomuna la consapevolezza del loro ruolo di uomini d’azione, di governo e d’arme. Jacopo ha conosciuto l’angoscia della fuga in un agguato senza scampo, Bonconte la dignità della morte in battaglia, attesa e accolta con la fermezza del soldato e la serenità del cristiano.
Nulla di tutto questo per Pia, non c’è nulla che possa essere raccontato di quegli attimi di disinganno e di terrore in cui è stata uccisa violentemente. Dal personaggio di Pia – la leggenda vuole che sia stata defenestrata – emana un senso di solitudine che non avvertiamo nei due uomini, benché anche la loro morte sia stata cruenta e solitaria, senza i conforti familiari.
La voce di Pia ci giunge sussurrata, introdotta solo in secondo momento dalla didascalia dell’auctor. Pia non attende di essere interpellata per consegnare la sua supplica al pellegrino:
“Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato della lunga via”,
seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
“ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
sàlsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma”.
Pg. V vv. 130-136
La donna senese non chiede nulla più di un ricordo: Ricorditi di me, che son la Pia. Ma nell’epigrammatico bilancio della sua vita al verso 134 è sigillata la sua denuncia. Nata a Siena, morta in Maremma, come ben sa il marito, colui che l’ha sposata ponendole l’anello al dito.
Sono parole densissime, è la loro sequenza a costruire il significato, si riverberano le une sulle altre come un’onda che si rifrange sull’altra. Una vita contenuta in due espressioni geografiche, Siena e la Maremma, un’esistenza stretta a pugno nel chiasmo mi fé / disfecemi, l’unico accenno allo strazio della morte.
Pia, che nulla chiede per sé, neppure una prece, solo un ricordo, esprime però una perentoria istanza di verità. Perché nelle sue parole ciò che al tempo era un sospetto – la sua morte violenta per mano del marito -, diventa certezza, prova. Il marito è chiamato a rispondere perché è l’unico a sapere. Nel consegnargli il segreto della sua morte, Pia lo indica come l’autore. Il “salsi”, “lo sa”, fortemente accentato nella prima sillaba del verso, è un dito puntato verso di lui, unico depositario, oltre a lei, della verità. Non c’è bisogno di dire altro. Pia non parlerà più di lui, né oltre di sé. Perché è il non-detto, il non-dicibile, a parlare per lei.
Terza cantica, terzo canto. Nell’ultima tratta del viaggio, ancora una volta ci accoglie per prima una figura femminile. Ancora una volta racconterà, suo malgrado, una storia di violenza familiare. Dante ne ha un ricordo personale, anche se stenta a riconoscerla nella trasfigurazione paradisiaca delle fisionomie. È Piccarda Donati, sorella di Corso Donati, il violento capo dei Guelfi neri. Bellissima e animata da un desiderio intenso di intima spiritualità con Dio, Piccarda decise di entrare, giovanissima, nel monastero di Santa Chiara a Firenze, per farsi monaca. Il fratello la tolse dal monastero e la costrinse a sposare un suo seguace politico. Secondo le cronache, Piccarda poco dopo si ammalò e morì.
Collocata nel primo cielo, il cielo della Luna, l’anima di Piccarda s’entusiasma quando può spiegare a Dante, lei per prima, la legge del perfetto amore in Paradiso, ma non fa esplicita menzione della sua vicenda personale.
Per sapere perché la sua vocazione monacale sia rimasta incompiuta, Dante dovrà interrogarla, forzarne la reticenza, spingerla a svelare pur celando, condurla a quel dire e non dire, a quell’accusare con pudore per sé e vergogna per l’altro che è la cifra anche oggi21 dei racconti femminili di violenza subita. Perché l’altro è il fratello Corso e l’ha smonacata a forza:
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
Pd. III vv. 106-108
Piccarda non fa il nome del fratello, dice a Dante che a farle del male sono stati genericamente degli uomini che del male avevano fatto una loro consuetudine. L’anima di questa giovane donna oltraggiata dal fratello affida al segreto con Dio la sofferenza della sua intimità violata, della sua volontà calpestata. È Dante a volere che la sua storia arrivi alla coscienza dei vivi.
Francesca e le altre, Pia, Piccarda: inermi, incapaci o impossibilitate ad opporsi, private sulla terra della giustizia e della parola. Che cosa rimane a noi di questa lettura che ha cercato di interpretare parole, allusioni e silenzi dei pochi personaggi femminili del poema? Il senso di una scoperta, di una denuncia che chiede di essere ascoltata.
Il trauma dell’offesa, distanziato ma non dimenticato da Francesca come dalle altre, lascia intravedere per noi un deposito sepolto di costrizioni e violenze appartenente alle singole, ma in un certo modo a tutte, perché composto di esperienze somigliantisi e che si sono riprodotte di generazione in generazione. A settecento anni dalla morte del poeta, oggi, nella parola della narrazione dantesca, al di là dell’intenzioni esemplari e religiose, possiamo leggere una volontà di riconoscimento e di risarcimento per la femminilità offesa.
Bassano, 25 marzo 2021
Note
1. B.Delmay, I personaggi della Divina Commedia. Classificazione e regesto. Olschki, 1986
2. Inf. IV, v.30
3. Non avea catenella, non corona/non gonne contigiate, non cintura. Pd. XV, vv. 100-102
4. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette/la madre lei, ed ella primavera. Pg. XXVIII, vv. 49-51
5. La concubina di Titone antico/già s’imbiancava al balco d’orïente,/fuor de le braccia del suo dolce amico/di gemme la sua fronte era lucente Pg. IX, vv 1-4
6. che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte/ serpentelli e ceraste avien per crine. Inf. IX, vv. 39-41
7. La meretrice discinta, che tresca con un gigante, simboleggia la Curia papale con il suo prepotente custode e padrone, Filippo il Bello della Casa di Francia. Pg. XXXII v. 149 e seguenti
8. Pg.XXIX vv.121-128
9. Rispettivamente la regina egiziana Cleopatra e la più bella di tutte le donne secondo il mito greco Elena la spartana, moglie di Menelao, motivo scatenante della decennale guerra di Troia; Inf, V, vv.58-65
10. Siamo nel Limbo, dove Dante colloca, oltre ai bambini morti prima del battesimo, i campioni della vita attiva e contemplativa, senza distinzione “di sesso, di razza, di lingua, di religione…”. Tra essi, molte donne dell’antichità storica e leggendaria; Inf. IV, vv.121 passim
11. Sono le parole con cui Virgilio saluta Beatrice, Inf. II vv. 76-78
12. Pd. XXXIII vv.1-4: è il celebre esordio della preghiera di san Bernardo alla Vergine
13. Inf. II, vv.94-114
14. Sovra li fiori ond’è là giù addorno/venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;/ lasciatemi pigliar costui che dorme;/ sì l’agevolerò per la sua via…” Pg IX, vv. 54-57
15. E donna mi chiamò beata e bella,/tal che di comandare io la richiesi./ Lucevan li occhi suoi più che la stella Inf. II, vv 53-55. Stesse movenze e atteggiamenti presentano le altre figure che costituiscono la catena femminile attraverso cui si snoda il viaggio di Dante, quali Rachele che è d’i suoi belli occhi veder vaga, come racconta la sorella Lìa nel sogno in cui appare a Dante: giovane e bella in sogno mi parea/ donna vedere andar per una landa/ cogliendo fiori; e cantando dicea/ «Sappia qualunque il mio nome dimanda// ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno/le belle mani a farmi una ghirlanda. Pg XXVIII, vv.97-102. Lia è a sua volta prefigurazione di Matelda, anch’essa rappresentata nell’atto di cogliere i fiori. Questa trama è ricostruita con precisione da G. Bondioni nel suo commento alla Divina Commedia, edizione Principato, 1998, in particolare nella nota 61 al canto IX del Purgatorio
16. Ricordiamo la citazione della battaglia di Montaperti, con l’Arbia trasformato in fiume di sangue: Ond’io a lui: «Lo strazio e ‘l grande scempio/che fece l’Arbia colorata in rosso, Inf. X, vv.85-86, o la descrizione di un campo di battaglia nella similitudine con le mutilazioni inferte ai seminatori di discordie: … e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie a Ceperan,../ … e qual forato suo membro e qual mozzo/ mostrasse,Inf. XXVIII, vv.15-20 o ancora la rievocazione della propria agonia solitaria da parte di Bonconte di Montefeltro, morto nella battaglia di Campaldino, cui aveva partecipato lo stesso Dante: Arriva’ io forato ne la gola/ fuggendo a piede e sanguinando il piano Pg. V, vv.98-99
17. Nell’apostrofe all’Italia Sordello da Goito accusa la faziosità comunale … non stanno sanza guerra/li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode/di quei ch’un muro e una fossa serra. Pg. VI, vv. 82-84
18. Inf. XII, vv.104-105
19. Pier delle Vigne imputa all’invidia, definita una meretrice, la responsabilità della sua caduta in disgrazia presso l’imperatore Federico II, di cui era il fidato segretario di corte: La meretrice che mai da l’ospizio/di Cesare non torse li occhi putti/morte comune e de le corti vizio. Inf. XIII, vv.64-66
20. O animal grazioso e benigno/che visitando vai per l’aere perso /noi che tignemmo il mondo di sanguigno,/ se fosse amico il re de l’universo,/noi pregheremmo lui de la tua pace… Inf. V, vv.88-92
21. A tutt’oggi il personale del Pronto Soccorso o dei Commissariati di Polizia deve spesso interrogare un silenzio femminile che fatica ad attribuire agli autori la responsabilità della violenza subita.
Immagine di copertina
William Dyce, Francesca da Rimini, 1837, olio su tela, 142 x 176, Galleria Nazionale Scozzese, © Ad Meskens / Wikimedia Commons
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Antonella Carullo insegna presso il Liceo G.B. Brocchi di Bassano del Grappa. Si è laureata in Lettere classiche all’Università degli studi di Padova, dove ha conseguito il perfezionamento in Politiche di cittadinanza e democrazia di genere. È autrice di contributi sulla didattica della letteratura classica e moderna, formatrice in azioni regionali e nazionali e membro della Commissione del Certamen Senecanum, nonché di Rete Probat, finalizzata alla certificazione della lingua latina. È impegnata da diversi anni nella promozione delle Pari Opportunità presso l’USR del Veneto e il Comune di Bassano. I suoi interventi spaziano da progetti di ricerca e divulgazione attraverso la saggistica ad iniziative connesse alla scrittura creativa.
Alcuni dei suoi lavori in quest’ambito: Ma il lavoro di che genere è? vol.2° pp. 32-35 dagli ATTI del Convegno Verso un futuro di pari opportunità, a cura del Comune di Bassano del Grappa, Commissione P.O. 2007; Le ragioni di un concorso: la scelta dell’abito tra libertà e costrizione in Il genere a scuola, a scuola di genere, a cura della Regione Veneto e del MPI, 2007; Ri-conoscersi nella differenza e nell’ alterità, (coautrice) in 1819-2019, I 200 anni del Liceo Brocchi, 2019 Editrice Artistica Bassano; Prefazione alla raccolta di interventi contenuti in Con voce di donna – Identità e narrazioni , 2004, divulgazione in fascicolo a cura del Laboratorio sulle Differenze dell’ USSL 8 di Asolo; sceneggiatura e regia di Tina Merlin, partigiana, giornalista, scrittrice, nell’ambito del progetto Le donne che hanno costruito l’Italia, in scena il 22 aprile 2012 al Ridotto del Teatro Remondini di Bassano del Grappa.
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