RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

L’iperbole di Titina Maselli, di Chiara Bertola

[Tempo di Lettura: 10 minuti]


       Non ho conosciuto Titina Maselli, ma ho continuato a interessarmi alla sua pittura, soprattutto quando un frammento delle sue città è arrivato nella Collezione di arte contemporanea della Fondazione Querini e nel Fondo dedicato a Giuseppe Mazzariol. È un olio su tela che rappresenta un nodo di cavi elettrici a un incrocio di strade. Uno dei dettagli che lei metteva insieme per costruire quel suo paradigma della modernità e del tempo che cambiava. Si tratta di quel suo particolare sguardo laterale che le ha permesso di schivare ogni banalità mettendola al riparo dai luoghi comuni che si stavano costruendo intorno allo stereotipo della città moderna. “(…) vorrei dipingere tutte le cose note ma non guardate abbastanza…1, diceva Titina quando ha esposto alla sua prima personale alla galleria Obelisco di Roma nel 1948: oggetti quotidiani e comuni ma che lasciavano trapelare quanto fossero cambiati e, per sempre, i rapporti sociali, il vivere quotidiano, lo spazio urbano, lo stile di vita.

A sinistra: Grande cielo II, acrilico su tela 200×150 cm  (1972) –  Sulla città, acrilico su tela, 151×201 cm (1972)

       Guardo e osservo questi 20 oli e acrilici arrivati ora a Venezia per la mostra antologica alla Fondazione Querini. Uno in fila all’altro, compongono sul pavimento uno strepitoso, agghiacciante e claustrofobico mosaico di un mondo metropolitano. Sono immagini di architetture, strade, viadotti, incroci, rotaie, di file di macchine, camion, treni, metropolitane… Quasi tutte immagini riprese dal basso e quasi tutte ravvicinate senza un centimetro di aria intorno. Per questo sono agghiaccianti, perché finiscono per assomigliare a una rete o a una gabbia di maglie sottilissime. Le visioni delle città di quest’artista sono luminose e trasparenti, ma soprattutto sono frenetiche e veloci; rischiano di sparire assorbite dai riflessi del tramonto o nei fari del traffico serale. Titina Maselli ne è attratta e le ama ossessivamente ma, nello stesso tempo, ne percepisce la trappola che come una tela di ragno imprigiona l’uomo nella modernità che si sta costruendo. “Il vuoto di cui è fatto sembra esplodere, va a pezzi e resta incastrato nelle maglie della rete.”2. Tutta la sua vacuità e apparenza si specchia sui vetri di una metropolitana che s‘intravvede sfrecciare tra i riflessi delle insegne luminose riflesse sulle finestre. Un treno, mezzo cancellato dalle facciate dei palazzi, è sbarrato dai grovigli dei cavi ad alta tensione. Una tela dalla quale si può uscire solo con uno sforzo estremo e da atleta. Ma Titina Maselli ama da morire la modernità, la insegue per catturare fino in fondo l’aspetto energico e magnetico, ma anche per restituire la dimensione disumana e pericolosa che si avverte un po’ ovunque nei suoi quadri. Di fatto il suo sguardo rimane distante, non coinvolto e neppure convinto che questa frenesia porti qualcosa di buono in futuro… L’artista si mette di lato, a distanza di sicurezza. Rileva, certifica e descrive il fatto senza rimanerne coinvolta, ma lasciandosi una via di uscita. “Dipingo le cose che non mi piacciono”3 e la pittura le si rivela come via di uscita da una realtà che tesse intorno una rete che crea solo vuoto. Ma tra l’artista e la sua pittura sembra esserci un’intimità straordinaria, anche se a vederle dall’esterno sembrano due mondi separati: lei nella sua eleganza e le immagini nere che dipinge facendole ‘a pugni’ con il pennello… Ho in mente una sua foto bellissima e molto nota: è il 1967, lei è seduta su una piccola sedia a lato del quadro che sta dipingendo. Elegantissima, con le scarpe con i tacchi, dipinge indifferente un falansterio grande come tutta la tela. Un mostro nero che potrebbe inghiottirla… Ma lei continua a non far caso e, non curante, lo controlla perfettamente. Maselli è cosciente che la città sia mostruosa ma anche terribilmente energica e attraente al punto che per lei diventa necessario viverla e farne esperienza.

       Titina Maselli si era formata intorno alle influenze della Scuola Romana e del Novecento, ma cerca fin da subito vie di fuga per distaccarsene4. Per lei è stata più importante la reazione avuta rispetto alla nascita del Gruppo Forma 1 “… Non m’interessavano, non mi piacevano, però la pulce all’orecchio me l’avevano messa”. La pulce era la diffidenza nei confronti di un impasto sporco e poco definito, l’importanza dei toni, ma soprattutto Maselli è attratta dalla dimensione astratta che le serve per fare quella ‘tabula rasa’ che sta cercando e per tenere lontano il naturalismo. Lo stile formale in quegli anni è secco, essenziale e predilige o elegge un unico oggetto che cerca di far diventare iconico e simbolico. Via dal racconto ma dentro l’essenza della cosa, cercando di coglierla secondo un atto della coscienza e non per la via della sua descrizione. Titina Maselli lo dice chiaramente in un’intervista con Lea Vergine “… Ero affascinatissima però da quell’abc della forma che gli astrattisti rappresentavano. Cercavo di fare una pittura non sapiente, al contrario dei neorealisti. A me interessava fare “tabula rasa” della sapienza della pittura in favore dell’icasticità… m’interessava renderla in maniera primitiva, non volevo l’umanesimo… avevo una posizione isolata”.5
Ma partiamo da quel “nero” asfaltico e notturno che l’attira sopra ogni cosa tanto da spingerla a dipingere di notte a Piazza Fiume o intorno alla stazione…: “Mi sforzavo di superare il genere e il naturalismo dei modelli classici e di andare all’essenza dell’argomento… Voglio dire che sul tema della notte le preziosità si sono sprecate: l’alone, le colorazioni dell’oscurità, gli olandesi … su questo tema si è sempre sottilizzato. Io cercavo e ho sempre cercato di brutalizzare per andare all’essenziale“6. Ecco la sua essenzialità! Quella potente capacità di sintesi che ci colpisce già nelle sue prime prove, e che rappresenta per lei quel compito fondamentale di andare all’essenziale per cogliere l’anima delle cose. Questo è già chiarissimo nel suo primo linguaggio. Così come concentra l’attenzione su pochi temi che si porterà fino alla fine, sviluppandoli e approfondendoli: la notte, la città, le architetture, gli stadi, lo sforzo dello sportivo.

       Ma, cosa cerca nelle notti quando va a dipingere nella Roma distrutta dalla guerra? Titina va in giro a cercare il cantiere della modernità, la città che sta risorgendo dalle macerie della guerra. Non è un caso se uno dei suoi soggetti favoriti fin dall’inizio sia proprio quella Piazza Fiume che, demolita nel 1921, diviene subito dopo il laboratorio della modernità. Qui, infatti, sono nati i primi sottopassaggi e soprattutto l’edificio emblema di Franco Albini: la Rinascente, che diventa uno degli edifici più importanti e decisivi di tutta l’architettura moderna. Ecco, la pittura di Titina Maselli ricerca ossessivamente questa modernità. Quella non letterale, non naturalistica. Quella che, attraverso dettagli che sembrano insignificanti – gli scambi dei filobus, un telefono, una macchina da scrivere, le scritte al neon, le grandi strade, il palazzo – in realtà sono le parole che stanno scrivendo il nuovo modo di vivere. Quei segni che lei stessa definisce “archetipi di modernità” capaci di restituire una “percezione emotiva” più che una vera e propria raffigurazione della nuova Roma. Dipinge con i nuovi materiali che in quegli anni iniziano ad arrivare sul mercato: il bitume delle strade, le vernici industriali e l’acrilico. Materiali che Titina adotta immediatamente.

       Le città la emozionano perché sono qualcosa di reale. “La natura è falsa e non mi dice nulla” dirà lei stessa in un bellissimo documentario che la televisione francese le ha dedicato nel 2005 7. Come la sovrapposizione dei tempi e delle immagini riescono a restituire l’energia che c’è nell’architettura, così la lotta dei corpi, quella stessa che scaturisce da un uomo in movimento, riesce a restituire tutta la potenza dell’energia che lui stesso scatena. “Anche nell’uragano c’è molta energia ma non è questo… è quello che ha fatto e costruito l’uomo che m’interessa…”8. Per quest’artista la modernità è qualcosa di eroico ma nello stesso tempo anche di terribile. Forse qui sta la differenza con i Futuristi…, penso a “La città che sale” di Boccioni, o alla “Lampada ad arco” di Giacomo Balla, e vedo soprattutto la loro attenzione a costruire un linguaggio pittorico e ancora troppo impregnato d’impressionismo… Le città di quest’artista – ma così le autostrade, i camion, le impalcature, il distributore di benzina, le rotaie, le linee elettriche dei tram, i boxeur, i calciatori – sono immerse dentro il tempo della coscienza e non della percezione. Le facciate dei palazzi e dei grattacieli di vetro di New York sembrano scheletri mangiati dai riflessi dei fari nelle strade, dai riflessi delle insegne al neon, dai lampioni… Architetture costruite per assorbire tutta la luce elettrica possibile dalla città che scorre intorno. Verticalità evanescenti ma anche presenze molto potenti e reali, come quelle che i nostri occhi percepiscono – frammento riflesso insieme agli altri frammenti – quando velocemente le attraversiamo. Questo è ciò che vuole l’artista: portarci dentro la città, farci abitare quell’energia e insieme camminare quello spazio. “La modernità mozza il fiato. Essa è la vita, ma anche ciò che non può essere vissuto. Tutto è energia e tutto è coscienza. Tutto è materia e tutto è spirito (…)”.9

       È stato il 1952 a segnare uno spartiacque nella storia di quest’artista. In quell’anno, infatti, decide di partire per New York dove vi rimane quasi quattro anni. Dobbiamo immaginare quale impatto incredibile deve essere stato per lei arrivare nella Manhattan dell’epoca. Una rivelazione e, come dice bene Sabina de Gregori, “per lei la metropoli statunitense offre la possibilità di spingere al limite estremo le esperienze romane: ai palazzoni ottocenteschi si sostituiscono i grattacieli, mentre ci si imbatte in forti e violenti neon, anziché nelle fioche luci delle notti italiane…”. Le si rivela la modernità e questa epifania avrà una forte ripercussione nella sua pittura. Sceglie ancora una volta di percorrere una strada autonoma, sulla quale ha certamente percepito la solitudine dei quadri di Hopper, e incontrato le tendenze della Pop Art di quel momento e riesce a starsene alla larga. Costruisce piuttosto un linguaggio che la porta a raccontare sia il dinamismo e l’emozione, e contemporaneamente tutta la solitudine e l’alienazione di quella modernità e lo fa con un linguaggio personalissimo che sembra contaminato, piuttosto, dal segno ripetuto mille volte della pagina di un giornale: “un segno fitto di vita”10. Un segno-colore che non sarà mai espressivo ma piuttosto performativo nell’indicare le direzioni dell’energia all’interno del quadro. Un segno che si sposta mosso da un campo magnetico, in cui masse di segni si addensano e si assottigliano lasciando trapelare una sagoma sostanziata più dal vento e dalla luce, che dalla materia stessa. È sbalorditivo come quest’artista sente la forza della città che diventa il suo unico soggetto perchè lo sente come la forza che c’è in natura. “… sono stata recentemente in Bretagna: ecco, l’unica somiglianza che hanno al mondo quelle scogliere è New York. Questa città ha la violenza della natura”. 11

Fili nel Cielo, olio su tela, 169×250, (1969) – Courtesy Galleria Massimo Minini, Brescia

       A New York Titina Maselli arriva a colori più luminosi e anche più acidi per aumentare l’idea di energia, di contrasto e di violenza. Ma soprattutto, approda alle gradi dimensioni che esplodono per espandersi e concentrarsi ancora di più. In questi anni americani, raggiunge quella sintesi che cercava da tempo. Prendiamo i suoi “atleti”, sempre ripresi mentre agiscono e che diventano l’estensione di un corpo anonimo che si spinge oltre i propri limiti; espansi fuori in uno sforzo titanico per lacerare la ragnatela che li imprigiona. In molte opere di questi anni americani, le figure di atleti “primitivi”, quasi classici e fuori dal tempo presente, si sovrappongono alla rete delle facciate dei grattacieli, perdendo qualsiasi dimensione spazio temporale, piuttosto immersi in un unico tempo che sembra avvolgere tutto. Sopra/sotto, destra /sinistra, davanti/dietro. Non c’è nessun piano prospettico e lo spazio è andato in frantumi sotto la potenza del presente e da un costante “qui e ora”. Rimane lo spazio di una texture quasi trasparente, e senza personalità e che non si riesce mai a riconoscere come familiare perché totalmente pubblico e vissuto da tutti. Sembrerebbe il luogo della comunità per eccellenza e, ante litteram, quello contemporaneo del web.

Da sinistra: Calciatori, olio su tela, 196×130 cm (1971) – Senza titolo, olio su tela, 120×100 cm (1965) – Il calciatore ferito, olio su tela, 144×144 cm (1963)

       Lo spazio che dipinge ora si costruisce su piani diversi e l’immagine si forma per sovrapposizioni e per densità pur rimanendo trasparente e ancora visibile. E sintetico al punto da unire soggetti diversi: un atleta che fuoriesce improvviso dalle facciate dei grattacieli, diventando così il punto propulsore di tutta l’energia del dipinto. Il linguaggio maturo di Titina Maselli ha il talento di bloccare il visibile un secondo prima di spare. Riesce a determinare – come un battere di ciglia – la costruzione di un’immagine nello scorrere dell’energia sulle cose, riuscendo a densificarla e ad addensarla in quell’apparente stabilità di un attimo. “Un quadro non è un libro, un quadro appare in un istante, si vede in un attimo…vorrei che i miei quadri fossero chiari come quelle scene che Chaplin ripete decine di volte, per accertarsi di essere capito…io cerco sempre di rendere le cose nel modo più chiaro e più iperbolico possibile….il mio obiettivo è di cogliere la realtà, tanta realtà in una cosa sola. In un solo momento.” 12 
Tutti hanno sempre riconosciuto in lei una grande pittrice del Novecento e in molti hanno sottolineato quel suo isolamento forsennato e orgoglioso. Eppure, di questo nome se ne parla ancora troppo poco e non dice molto al grande pubblico, probabilmente perché fu lei stessa, per tutta la sua carriera, a rifiutare di essere identificata con uno stile o un movimento.
Per la Fondazione Querini, proporre la mostra di Titina Maselli significa semplicemente continuare una linea di lavoro sull’eredità culturale e impegnarsi a far luce delle ricerche dimenticate o non troppo viste né studiate. Mi è sempre sembrato più interessante far emergere in lavoro critico e curatoriale al di fuori della prevedibilità cronologica o tematica; e sono convinta che raccogliere delle eredità sfuggite o sommerse nella Storia, significa prima di tutto voler fare i conti con il presente e con quella parte di passato che non passa; significa lavorare a nuove categorie e darsi nuova energia per far fronte a quel vuoto di senso che oggi sembra aver inghiottito il mondo. C’è anche l’illusione di opporre, attraverso una proposta di lavoro che vuole scendere nelle luci e ombre della Storia, un ritmo di lavoro diverso, più lento e meditato, contrario alle logiche rapide, dettate dall’economia del sistema contemporaneo. La mostra di Titina Maselli è un altro tassello che si aggiunge a questa nuova linea di lavoro che speriamo continui a far girare l’aratro e a portare alla luce cose che avevamo dimenticato e mai più visto.

Chiara Bertola

© riproduzione riservata

Crediti fotografici:  Courtesy Galleria Massimo Minini , Brescia  –  Foto d’insieme: Photo Gilberti -Petrò

Foto di copertina: Metro, 1975, olio su tela, 1570×250 cm (otto tele)


Titina Maselli (Roma, 1924-2005)

Dopo la prima personale del 1948 alla Galleria l’Obelisco di Roma, Titina Maselli partecipa alle maggiori rassegne espositive nazionali, come la Biennale d’Arte di Venezia (varie edizioni, dal 1950 al 1995) e la Quadriennale di Roma (varie edizioni,dal 1951 al 2000). Durante la sua permanenza a New York (1952-1955) motivi già avviati – come il panorama urbano, soprattutto  notturno, e le rappresentazioni di pugili o calciatori – trovano un nuovo vigore espressivo. Dopo un soggiorno in Austria tra il  1955 e il 1958 l’artista fa ritorno a Roma, per trasferirsi a Parigi nel 1970.
Tra le maggiori esposizioni si segnalano le personali alla galleria Durlacher  di New York (1953 e 1955), la Fondation Maeght di Saint-Paul-de-Vence (1972), il Musée d’Art Moderne de la Ville di Parigi (1975), la Kunstamt Kreuzberg di Berlino (1979), la Pinacoteca e Musei Comunali di Macerata (1985), la Casa del Mantegna di Mantova (1991), la Galleria Giulia di Roma (1998) e l’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo (1998). La Maselli conduce inoltre un’intensa  attività come scenografa,  lavorando soprattutto  per  i teatri francesi (Maria Stuart, Festival di Avignone, 1983) e tedeschi (Sei personaggi in cerca di autore, Berlino, Freie Volksbuhne, 1981).


1 Titina Maselli in Intervista di P. Borciani, T. Masoni Dipingo le cose che non mi piacciono in A. Baratta Enzi ed E. Del Canto, Mantova, 1991

2 Jacques Dupin (a cura di), Maselli, catalogo della mostra, Fondation Maeght, marzo 1972, Saint Paul-de-Vence, 1972, p.3

3 Titina Maselli in Intervista di P. Borciani, T. Masoni Dipingo le cose che non mi piacciono, cit., Mantova 1991

4 Per approfondire questo discorso e le origini che segnarono la ricerca artistica di Titina Maselli cfr Sabina De Gregori, Titina Maselli, Roma, Castelvecchi, p.27 e seg.

5 Lea Vergine, Intervista a Titina Maselli, in “il Manifesto”, Roma, 5 marzo 1983

6 Sabina De Gregori, cit., Roma, p.35

7 TITINA MASELLI, peintre et scénographe (1924 – 2005) on Vimeo

8 ibidem

9 Gilles Aillaud, in Maselli, Fondation Maeght, marzo 1972, Saint Paul-de-Vence, 1972, p.6.

10 Titina Maselli, Intervista di Maurizio Calvesi, in Marcatrè, 1964, cit. in Sabina De Gregori, cit., Roma 2015, p.36.

11 Titina Maselli in Intervista di P. Borciani e T. Masoni, cit., Mantova 1988, p.39

12 D. Morosini (a cura di), Titina Maselli, catalogo della mostra, La nuova Pesa, aprile 1965, p.14. Cit. in Sabina De Gregori, cit. Roma, p.54