RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

“Le statue bugiarde” di Alessandra Lorini, a cura di Michele Andronico

[Tempo di Lettura: 11 minuti]
Alessandra Lorini

MICHELE Tutto cominciò con l’abbattimento della statua equestre di re Giorgio III il 9 luglio 1776.
“Le statue bugiarde-Immaginari razziali e coloniali nell’America contemporanea” è l’ultimo saggio di Alessandra Lorini.  Pubblicato nel gennaio 2023 con la casa editrice Carocci, questo lavoro si pone in ideale prosecuzione dei precedenti studi su storia, cultura e società del nordamerica statunitense. Tra questi ricordiamo Rituals of Race-American public culture and the search for racial democracy (Virginia University Press 1999), L’impero della libertà e l’isola strategica-Gli Stati Uniti e Cuba tra Otto e Novecento (Liguori 2008) e C’era una volta l’America-Saggi sul disincanto della modernità (Morlacchi 2018).  Il saggio riprende una ricerca iniziata a New York negli Ottanta alla Columbia University e proseguita, di qua e di là dell’Atlantico, con pubblicazioni, conferenze e corsi universitari, come ci ricorda l’autrice nella premessa. E focalizza l’attenzione sulla centralità di quelle immagini, delle statue in particolare, che meglio di ogni altro monumento pubblico testimoniano la narrazione scelta da chi le ha fatte erigere, concentrandosi, poi, sulle ragioni contrapposte di quei gruppi sociali (afroamericani e nativi indigeni) che nel più ampio perimetro del recente movimento Black Lives Matter ne hanno sostenuto – a volte riuscendoci – l’abbattimento alla luce di un diverso e nuovo racconto, di una nuova memoria, forse di una nuova storia.  

Ritrovo con piacere Alessandra Lorini. È passato un anno dalle prime presentazioni del libro che abbiamo curato in Calabria insieme a Francesca Veltri, Docente Unical e scrittrice. E siamo a riparlarne, ancora insieme in occasione di una nuova presentazione calabrese, dopo un viaggio che ha visto “Le statue bugiarde” raccontare il loro immaginario in numerosi altri incontri in giro per la penisola.

Buonasera Alessandra. E così eccoci ancora, un anno dopo, a discutere di immaginario monumentale negli Stati Uniti, dalla Dichiarazione d’Indipendenza alle recentissime manifestazioni del Black Lives Matter e dei suprematisti bianchi nell’attacco a Capitol Hill del gennaio 2021. Mi piace subito ricordare che il tuo lavoro coniuga il rigore dello storico con una affascinante narrazione costruita in “scene”. E le immagini che corredano ed integrano il testo sono ausilio prezioso alle parole che conducono il lettore tra queste Statue-Simbolo, immaginari di bronzo o di marmo che hanno vissuto vicende alterne nel corso del tempo. A volte passando dagli onori del piedistallo pubblico alla polvere di strada, altre volte raccontando, con opportune “aggiunte”, una storia riscritta ed un immaginario nuovo. Entriamo allora nella prima di queste “scene”. Eccoci in Capitol Hill, il luogo del potere americano. Siamo nella National Statuary Collection. È notte, una notte di Capodanno sul finire dell’Ottocento. I bronzi, i marmi in cui i fantasmi degli illustri padri della patria americana se ne stanno quieti per tutto l’anno, scendono dai piedistalli in quella notte. E danzano. Danzano per celebrare un altro anno di vita della Repubblica; la più antica del mondo occidentale moderno. Si dice che qualche guardiano – sulla cui sobrietà alcolica pesa qualche sospetto – le abbia anche viste, le statue, danzare. Ciononostante la leggenda sopravvive ancor oggi. Ci racconti allora come, perché e quando tutto è iniziato?     

ALESSANDRA Grazie Michele. Come hai detto, è passato un anno dalle prime presentazioni calabresi e poi sono salita su per l’Italia a parlare di questo libro in seminari universitari, librerie, circoli culturali, riscontrando con mio grande piacere di essere riuscita a raggiungere l’obiettivo che mi ero proposta: un libro divulgativo complesso, rigoroso ma accessibile ad un pubblico non specialista che ha scoperto quanto sia importante uno sguardo profondo sulla società americana e le sue drammatiche contraddizioni che ci riguardano da vicino.
Le reazioni degli studenti sono state straordinarie: hanno scoperto che lo spazio monumentale non è neutro, ma riflette rapporti di potere, e che i monumenti non sono statici, eterni, ma raccontano le narrazioni di chi li ha voluti erigere in un determinato momento storico. In questo libro ci sono quattro decenni di ricerca fatta negli Stati Uniti da quando ero dottoranda alla Columbia University, nella New York dei lontanissimi anni ottanta, la sintesi di alcuni temi sull’uso dello spazio pubblico come ritualità del potere di chi lo domina che ho affrontato nei libri che hai citato. In questo libro ci sono dentro come studiosa e come persona che ha vissuto in due mondi per tanto tempo, cercando di farli dialogare.
È stata la mia sfida con la scrittura in lingua italiana dopo tanti anni che l’inglese l’aveva stravolta. Adesso me ne sono riappropriata – anche il libro precedente su Cuba è stato una riappropriazione dell’italiano – in un percorso di riscoperta, anche di pezzi della mia vita. Insomma, dentro quest’ultimo libro ci sono tante storie. Per questo ho chiamato i capitoli “scene”, per sottolineare la teatralità del contesto narrativo. Come storica culturale ho sentito la necessità di interrogare il passato di alcuni elementi del patrimonio monumentale statunitense quando i conflitti del presente hanno acceso i riflettori su questi marmi e bronzi rimasti a lungo silenziosi e invisibili.
E veniamo alla prima scena, “Le statue danzanti”: qui è l’assalto del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, un evento di una gravità senza precedenti che dimostra quanto gli Stati Uniti siano un paese profondamente lacerato con una componente della popolazione che vive la realtà parallela del MAGA, a rischio di una nuova guerra civile, che occupa e dissacra il cuore della democrazia americana, il Congresso, dove i seguaci di Trump entrano dentro le sale dove solitamente quattro milioni di visitatori all’anno ammirano, tra dipinti e affreschi, anche una collezione statuaria che racconta la storia dei conflitti mai risolti tra libertà e schiavitù nella storia americana. Una collezione statuaria, la National Statuary Collection, formata da bronzi e marmi raffiguranti personaggi significativi della storia di ciascuno Stato dell’Unione, in misura di due per ogni Stato. Oltre alla leggenda delle statue viste danzare da guardiani alticci a fine Ottocento, la vera “danza” è la metafora dei conflitti e dei cambiamenti che la storia di ciascuna di queste statue racconta: in base ad una legge del 2000, correttiva di quella istitutiva del 1864, ogni Stato può sostituire le statue dei suoi due personaggi rappresentativi inviandone altri ritenuti più adeguati alla storia di quello Stato.
Un meccanismo complesso e molto costoso che racconto nella prima scena rivelando aspetti poco conosciuti del federalismo statunitense. Ma, dopo l’assalto al Campidoglio è venuto alla luce un fatto rimasto per anni sotto traccia: nel luogo più importante della democrazia americana ci sono statue di eroi confederati che rappresentano alcuni Stati del Sud, ovvero personaggi che contribuirono alla scissione del paese per preservare l’istituzione della schiavitù. Alcune di queste statue sono state recentemente rimosse, altre resteranno ancora là a raccontare una versione bugiarda della Guerra civile.

Alessandra Lorini “Le statue bugiardeImmaginari razziali e coloniali nell’America contemporanea” (Carocci Editore 2023).

MICHELE Andiamo ora alla prima, forse la più iconica di queste statue. Non è nella Old Hall of the House né nelle altre sale che ospitano le circa 100 statue della National Statuary Collection. È dal 1863 sulla maestosa cupola di Capitol Hill, con il suo elmo sovrastato dall’aquila guerriera, a raccontarci la bellezza fiera della libertà, mentre il suo gigantesco modello in gesso accoglie i visitatori al “Visitor Center” del Campidoglio. Eppure, nel titolo, tu ci parli di “statue bugiarde”. Quale immaginario ci racconta allora, e quali altre verità restano sottese a questo immaginario?     

ALESSANDRA Quando fu commissionata la “Statue of Freedom”, le statue della National Statuary Collection ancora non c’erano. Siamo a metà Ottocento, l’allora senatore del Mississippi Jefferson Davis, sostenitore convinto della schiavitù, era responsabile delle decorazioni scultoree del Campidoglio. L’idea di una “Statue of Freedom” in bronzo da porre in cima alla cupola del Campidoglio come simbolo della libertà americana non doveva in nessun modo richiamare il suo opposto, la schiavitù, o dare l’impressione che simboleggiasse una futura libertà anche per i quattro milioni di afroamericani in condizione di schiavitù.
Per Jefferson Davis, che di lì a poco avrebbe abbandonato l’Unione per diventare l’unico Presidente della Confederazione sudista, l’idea di libertà coincideva con chi la possedeva già: i bianchi come lui. Così fece togliere allo scultore il berretto frigio, che richiamava l’idea di emancipazione dei liberti, e lo fece sostituire con un elmetto con le piume di aquila, simbolo degli Stati Uniti.
È una libertà armata la statua che dal 1863 domina dalla cupola del Campidoglio, il cui enorme calco di gesso può essere ammirato al Visitor Center. Ma, chi usò quel calco per forgiare la statua? Uno schiavo di grande talento, Philip Reid, il cui proprietario possedeva una fonderia vicino al Campidoglio. La libertà forgiata col lavoro schiavile. Libertà e schiavitù sono inscindibili nella storia americana e la memoria divisa della Guerra civile è ancora oggi un fantasma che rincorre i conflitti del presente. La “Statue of Freedom” del Campidoglio è assai diversa dalla “Statue of Liberty” nell’isola di New York del 1886: quest’ultima con la sua torcia sembra accogliere le masse diseredate che arrivano, è sempre stata il simbolo del “sogno” americano: la libertà dal bisogno, la fine della povertà che solo l’America può dare. Ma è solo un sogno, potente richiamo, che non si avvera per tutti.

MICHELE Nella lettura del tuo libro mi ha molto colpito la presenza, tra i padri della patria americana, del Generale Robert E. Lee. Ma, Lee non era il Comandante dell’esercito confederato degli Stati del Sud nella storia più sanguinosa e divisiva della Repubblica americana? Riaffiorano dalla memoria sequenze di “Via col vento”, “Tara e le Dodici Querce”, la rovinosa caduta di Atlanta. E poi le note dell’Inno Confederato ed i versi commoventi che Robbie Robertson fa cantare a Virgil Kane nel suo ricordo di “The night they drove Old Dixie down”. Che ci fa, allora lì, in posa marziale ed uniforme militare, il Generale della Confederazione sconfitta?    

ALESSANDRA Ti riferisci alla statua in bronzo del generale confederato che dal 1908 rappresenta la Virginia, insieme alla statua di George Washington, alla National Statuary Collection in Campidoglio, di cui ho già detto. Le prime statue ad arrivare, dopo la Guerra civile, furono quelle degli Stati del Nord-est, in maggioranza raffiguranti eroi della Rivoluzione o grandi esploratori. Gli Stati del Sud aspettarono a lungo prima di inviare le loro statue. Il Nord aveva vinto la guerra, portava avanti un processo di Riconciliazione tra i bianchi delle due sezioni del paese durante il quale si affermò una memoria della Guerra civile rovesciata: il Sud, dalla memoria luttuosa e sobria che piangeva i numerosi morti, pian piano trasformò il pianto in un orgoglioso mito della Causa Perduta: la guerra non era stata combattuta dai confederati per mantenere la schiavitù, ma per i diritti degli Stati alla loro autonomia il Sud aveva perso solo a causa delle minori risorse militari, il Nord lo aveva schiacciato uccidendo una cultura armoniosa dove padroni e schiavi vivevano felici… Insomma, è il Sud di “Via col vento”, colossal del 1939, e prima ancora di “Nascita di una Nazione”, il capolavoro del cinema muto del 1915 che è un inno alla causa perduta del Sud e ai cavalieri del KKK che liberano il Sud da ex schiavi stupratori, da una razza inferiore che domina la scena politica sradicando il meraviglioso mondo pre-bellico.
È un’ideologia falsa, fondata sulla glorificazione di quel mondo finito, fondato sulla schiavitù ma che ora continua con la segregazione razziale. Fin dal 1890, quando un regime di vera e propria apartheid dei neri liberi ha sostituito la schiavitù, i diritti costituzionali degli afroamericani acquisiti dopo la guerra vengono calpestati con la violenza del KKK o con leggi locali ad hoc che li rimettono “al loro posto” come si diceva allora.
Mentre dilaga il fenomeno dei linciaggi dei neri per mano di folle feroci ma banalmente “normali”, si inizia a celebrare il culto del Generale Robert Lee, già morto da vent’anni. Diventa una figura epica, con qualità militari che non corrispondono alla verità, esaltate in decine di monumenti, primo tra tutti quello di Richmond, Virginia, che abbiamo visto coperto di graffiti durante le proteste di Black Lives Matter del 2020. Poi, altre statue di Lee e di altri eroi confederati vengono eretti nelle piazze celebrando la memoria di un passato glorioso.
La statua in Campidoglio arriva nel 1908. Dopo Lee arriveranno nel cuore della democrazia americana altre statue di eroi confederati per rappresentare i rispettivi Stati del vecchio Sud schiavista. Restano lì per molto tempo, visitate da milioni di scolari e turisti. Nessuno mette in discussione la loro presenza. Ma dopo il 6 gennaio 2021, l’assalto al Campidoglio al grido della “fake” news delle elezioni rubate, l’incursione sacrilega della bandiera confederata, ci si accorge che nel cuore della democrazia americana ci sono 13 statue di eroi confederati, ovvero di coloro che volevano distruggere il Paese.
Pian piano, grazie ad una legge del 2000, quelle statue, anche se ancora non tutte, hanno cominciato un viaggio di ritorno verso gli Stati di provenienza che le hanno sostituite con altre più rappresentative dell’ America contemporanea più inclusiva di quelle minoranze alle quali il movimento dei diritti civili degli anni sessanta del Novecento ha dato voce. La statua del generale Lee al Campidoglio è stata sostituita, per rappresentare la Virginia, da quella dell’attivista afroamericana per l’integrazione scolastica Barbara Rose Johns. Ovviamente si tratta di una vittoria simbolica.

Bronzo del generale confederato Robert E.Lee, Nationary Statuary Collection, Capitol Hill, foto di Alessandra Lorini (ottobre 2018) in “Le statue bugiarde. Immaginari razziali e coloniali nell’America contemporanea” di Alessandra Lorini (Carocci Editore 2023).

MICHELE Fra tutte le altre statue di cui ci racconti nel tuo libro, ce n’è una in particolare che vorrei ricordare con te. È un simbolo che tocca noi italiani. Last but not least, parliamo di Cristoforo Colombo. Chissà perché, mi viene in mente il modo assolutamente “stra-ordinario” con cui Fats Waller ne distrugge l’iconografia ufficiale  nel suo “Cristopher Columbus” del 1936.
Noi però lo vogliamo ora osservare come è stato rappresentato nella liturgia monumentale, in cima alla colonna di  Columbus Circle, NY eretta nel 1892 per il quarto centenario della scoperta dell’America. Non è la sola delle statue che ritraggono il grande navigatore genovese negli Stati Uniti, ma è forse la più nota. Perché, quando e come Colombo diventa rappresentazione degli immaginari nella nazione americana? Elemento unificante delle diverse sensibilità fondative forse perché estraneo ad ognuna di esse, uomo di frontiera,  pensiero libero che rompe paradigmi navigando in senso contrario al comune sentire, prima. Icona protettrice, successivamente, della vasta emigrazione italo-americana che ha bisogno di allontanare da sé lo stigma del “mezzi negri” del “dagoes” pericolosi delinquenti. Simbolo da abbattere quando le rivendicazioni dei nativi americani chiedono una riscrittura della storia, un “cambio di paradigma” come dichiarava Mike Forcia, attivista per i diritti dei nativi americani, a St.Paul, Minnesota nel giugno 2020 a fianco della statua di Colombo abbattuta a faccia in giù.      

ALESSANDRA Sì, la terza scena del libro è dedicata alle statue di Colombo, che sono tantissime negli Stati Uniti, assai più di quante ne troviamo in Italia, in Spagna e vari paesi latinoamericani. Sono venute alla ribalta per le vandalizzazioni subite da alcune di queste durante le proteste di Black Lives Matter, gesti simbolici che vogliono mostrare il legame tra Cristoforo Colombo, colonizzatore europeo delle Americhe, e i massacri successivi delle popolazioni indigene nel continente americano.
Occorre ricordare che la figura di Colombo è entrata nel patrimonio identitario italo-americano a fine Ottocento, quando il navigatore genovese era già dalla fine del Settecento un’icona americana: nella nuova repubblica città, paesi, contee, fiumi, laghi, università (ad esempio la Columbia University) avevano preso il suo nome. Perché? È per questo che i monumenti e le statue di Colombo devono essere interrogati: mentre la statua in cima alla colonna al centro di Columbus Circle a Manhattan di New York risale al 1892, quando il quarto centenario colombiano fu celebrato con la grande esposizione di Chicago, ed è opera della comunità italiana di New York in risposta al linciaggio di undici immigrati siciliani avvenuto a New Orleans l’anno prima, altre statue dedicate a Colombo raccontano storie diverse.
Il monumento di Columbus Circle rappresenta l’appropriazione degli italo-americani di un mito già consolidato nell’identità nazionale americana che aveva trasformato Colombo nel simbolo dell’individuo che cerca la libertà e rompe le catene dai gioghi monarchici europei, facendolo diventare il primo immigrato italiano. Un’operazione riuscita che s’intreccia all’ascesa degli italo-americani nella società americana, da poveri immigrati discriminati a gruppo etnico bianco di successo. Questa è la storia che raccontano altre statue di Colombo, quelle di Chicago o di St. Paul Minnesota, tutte inaugurate durante il periodo fascista, quando il governo di Mussolini fece un grande investimento per promuovere l’italianità nel Nuovo Mondo, con una propaganda massiccia di superiorità razziale e culturale degli italiani quali discendenti dell’impero romano.
È proprio quella statua di Colombo che menzioni, quella di St. Paul, Minnesota, tirata giù da un gruppo di attivisti nativi americani nel giugno 2020 (in poco tempo restaurata e rimessa sul piedistallo), inaugurata nel 1934, che racconta questa storia. Mike Forcia, che poi si è consegnato alla polizia dopo il gesto iconoclasta, ha precisato che gli immigrati italiani non avevano nessuna colpa nei confronti degli indigeni quando arrivarono come masse povere negli Stati Uniti. Ma oggi, se gli italo-americani non prendono coscienza delle condizioni sociali ed economiche delle popolazioni indigene attuali che sono il retaggio della sottrazione delle loro terre durante la colonizzazione, sono da considerare complici, alla stessa stregua degli altri gruppi bianchi. Un cambio di paradigma, appunto. C’è un dibattito acceso, un forte conflitto, anche dentro le comunità italo-americane: soprattutto tra i giovani sta avanzando l’idea che Colombo non li rappresenti, che sia meglio trovare un personaggio vero dentro la straordinaria storia degli immigrati italiani in America.
C’è chi vorrebbe Sacco e Vanzetti, gli anarchici finiti ingiustamente sulla sedia elettrica nel 1927, o una figura di origine italiana di spicco della storia del movimento operaio americano, ma c’è anche chi si contenterebbe di Amadeo Giannini, fondatore della “Bank of America”. Insomma, un italiano o un’italiana rappresentativi della grande migrazione tra Otto e Novecento. Così le statue di Colombo sono, come le altre che racconto, statue bugiarde, ma se interrogate da chi conosce la loro storia raccontano la verità.
Per questo credo sia importante che la metodologia che uso in questo libro venga estesa ad altri contesti, all’Italia ed altri paesi europei. In questa direzione va il libro appena uscito di Tomaso Montanari “Le statue giuste” (Laterza, 2024): come me Montanari dimostra che i monumenti eretti nello spazio pubblico celebrano il potere di chi li ha voluti, non sono la storia, ma la narrazione scelta da chi li ha fatti erigere. Se io ho cercato di far raccontare la verità a delle statue bugiarde, Montanari fa il passo successivo: cerchiamo di immettere nello spazio pubblico statue giuste, ovvero che raccontano la storia anche dei gruppi che sono stati cancellati dalle narrazioni egemoni. Colgo l’occasione per segnalare anche il libro del mio collega americanista Arnaldo Testi “I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti” uscito lo scorso giugno per Il Mulino. Con Arnaldo abbiamo fatto un bel dibattito lo scorso gennaio alla Domus Mazziniana di Pisa (Letture allo specchio): le nostre metodologie ed i nostri obiettivi si integrano perfettamente ed aprono a confronti con altri contesti.

MICHELE Siamo così arrivati, Alessandra, al termine del nostro colloquio e del viaggio in cui ci hai ricordato, come dici nell’introduzione del tuo libro, che “i monumenti pubblici non rappresentano la storia, ma la memoria di chi li ha fatti erigere”. Facendoci riflettere su “chi cancella cosa? … quali storie raccontano le statue? quali narrazioni?”. Invitandoci a capire come “i conflitti sui monumenti e sull’uso dell’arte pubblica offrono un punto di osservazione rilevante per comprendere l’attuale crisi dell’immaginario occidentale e prospettarne uno inclusivo e decolonizzato per il futuro”. Grazie per il tuo bel lavoro e per il tempo che hai voluto dedicarmi. 

IMMAGINE DI COPERTINA Statue of freedom sulla cupola di United States Capitol in Washington D.C. © Wikimedia Commons

  • Alessandra Lorini

    Nata a Firenze, laureata in Sociologia a Trento è poi “migrata” negli Stati Uniti dove ha conseguito un Ph.D in Storia americana alla Columbia University. Tornata in Italia ha insegnato per molti anni Storia dell’America del Nord all’Università di Firenze mantenendo sempre rapporti accademici negli Stati Uniti. È stata fellow alla Harvard (1996), visiting professor alla New York University (2000), Lewis Jones Professor a Wofford College nel South Carolina. Ha scritto estesamente sulla storia delle scienze sociali americane, le prime donne antropologhe della scuola di Franz Boas, la World’s Columbian Exposition del 1893, l’uso pubblico della storia e la monumentalizzazione delle memorie storiche. Alcune sue pubblicazioni sono menzionate all’inizio di questa intervista.

  • Michele Andronico

    Nato in Sicilia, Michele Andronico ha vissuto e studiato a Salerno fino alla Laurea in Giurisprudenza. Ha maturato un lungo iter professionale in Italia ed all’estero in una banca di rilievo internazionale. Specialista Crediti, Docente nella Scuola di Formazione Interna, ha completato e terminato il suo percorso lavorativo come Specialista Risorse Umane con un focus specifico sui processi di formazione. Accanto alle passioni professionali, si è sempre occupato di letteratura, di musica, di storia. Cura numerose presentazioni e recensioni di libri.