RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Voci e paesaggi dello spirito: “I would prefer not to. Il vangelo secondo Melville”, di Enrico Cerasi (Prima parte)

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Da qualche parte Woody Allen ha osservato che è stata una fortuna che Democrito e Leibniz non si siano mai incontrati: sarebbero ancora lì a discutere del nome da dare alla particella indivisibile della materia. In effetti, se l’equivoco regna sovrano nelle scienze della natura – come la recente epidemia del Covid-19, con la sua quotidiana ostentazione di antinomie virologiche, ci ha posto davanti agli occhi – possiamo ben immaginare che cosa accada nell’ermeneutica dei testi letterari. L’interpretazione infinita a suo tempo preconizzata da Schleiermacher è il minimo che ci si possa aspettare. Ne è un chiaro esempio Bartleby the Scrinner. A Story of Wall Street (1856): un racconto lungo di Herman Melville, ultimamente assai frequentato anche dai filosofi. Già la parola-icona serialmente pronunciata dal protagonista ha dato luogo a difficili controversie. Come tradurre I would prefer not to? Per quando riguarda la nostra lingua, Gianni Celati ha proposto Avrei preferenza di no, cercando di rendere il tono al tempo stesso solenne e inusuale della formula di Melville, che il più semplice Preferirei di no non garantirebbe (per non dir nulla dell’elusivo Preferirei non proposto da deepl)1.

Fosse per me propenderei per Sarei incline al no, ma capisco che è vagamente illusorio dar credito al mito della traduzione perfetta. Ci piaccia o meno, siamo condannati all’arte incerta dell’interpretazione; in altre parole, quale che sia l’esito, dobbiamo cercar di comprendere l’inquietante racconto di Melville. Del resto, siamo in buona compagnia: da Blanchot a Deleuze, da Derrida a Giorgio Agamben; da Italo Valent – che ne discute nel contesto della più ampia problematizzazione della “priorità incondizionata della realtà sull’irrealtà” e della funzione della negazione come produttrice di senso2 – ad Andrea Tagliapietra che lo presenta come figura del “segreto incondizionato”, del rifiuto di trasformare l’umano nella foucaultiana “bestia da confessione”3: le interpretazioni sono state e saranno molteplici.

Moby Dick (H. Melville)

In quanto a me, comincerei forse dall’ingiunzione di Gilles Deleuze: il testo di Melville “non vuol dire che quel che letterariamente dice”4. Anch’io avrei preferenza per le letture ad litteram dei testi, sacri o profani che siano. Ma nel caso di un racconto, come tra gli altri ci ha spiegato Eric Auerbach, la lettera è dispiegata dalla narrazione. In altre parole, piuttosto che isolare alcune frasi del testo, sia pur assunte nel loro senso letterale, sarebbe preferibile seguire la trama. L’osservazione, per altro abbastanza ovvia, comporta, nel caso in questione, che si dia un qualche peso al fatto che l’opera si presenta come una narrazione dell’avvocato, ossia del titolare dell’ufficio in cui Bartleby è impiegato. Il racconto narra dell’inquietudine prodotta dalla strana, insolita figura di Bartleby, già dal momento in cui questi apparve all’avvocato (“as he first appeared to me”). La letteratura filosofica e spirituale ha una lunga consuetudine con personaggi inusuali, difficilmente collocabili – a cominciare da Socrate, il grande ironista dell’antichità, che Platone definì atopos, non-catalogabile. Bartleby è certamente tra questi, come ha mostrato Andrea Tagliapietra. Aggiungerei che non è senz’importanza il verbo scelto da Melville per introdurre il protagonista del suo racconto: egli “apparve” all’avvocato. Più avanti si parla di avvento (the advent of Bartleby). Non sembra difficile sentire le risonanze religiose di questi verbi.
Già Agamben ha visto in questo strano personaggio un angelo, vale a dire il latore d’un messaggio divino (o di una divina mancanza di messaggio: la cosa non è certa)5. Ma diversamente dal filosofo romano, che legge nel racconto di Melville la descrizione della pura potenza, dell’assoluta contingenza, sarei incline a vedere in Bartleby una figura salvifica nel senso più tradizionale del termine. Per essere più chiaro, una figura cristologica.


Ma conviene cominciare dalla trama. Il narratore è un avvocato che dirige un ufficio a Wall Street, in un’America all’epoca al centro di un impetuoso sviluppo capitalistico. Per il suo lavoro, può contare su due impiegati e un fattorino. Diventando il suo volume d’affari sempre più ingente, volentieri assume l’uomo che improvvisamente si presenta alla sua porta. Tanto più che il nuovo impiegato si dimostra serio e assai dedito al lavoro (“All’inizio Bartleby svolse una straordinaria quantità di lavoro scritturale”). Ma già al terzo giorno di lavoro (mi trattengo dall’allegorizzare) Bartleby sorprende, anzi disorienta il suo datore di lavoro. All’innocua richiesta di controllare un documento scritto da uno dei suoi due colleghi, il nuovo impiegato risponde (se di risposta si tratta):
I would prefer not to. Bartleby oppone il suo rifiuto senza la minima emozione, senza turbamento. Ed è proprio quest’apatia che disarma il suo datore di lavoro (“Lo guardai impietrito. […] Fossevi stata, nei suoi modi, la minima traccia d’inquietudine […] alcun tratto di ordinaria umanità l’avrei cacciato di forza dai miei uffici”). La stessa obiezione viene ripetuta alcuni giorni dopo, questa volta di fronte a tutto l’ufficio riunito per un lavoro urgente. La costernazione dell’avvocato aumenta; il comportamento di Bartleby lo impietrisce, lo disarma, lo inquieta. L’avvocato si decide per un consulto collettivo, chiedendo ai suoi tre impiegati che cosa pensino del comportamento del collega. Ne emerge l’impressione di un uomo come minimo anormale: “a little luny”; “stralunato”, traduce Celati. Terminato il processo, che tacitamente dichiara Bartleby colpevole, l’avvocato avverte un conflitto morale (o più probabilmente spirituale). La sua docilità all’eccentrica personalità dello scrivano procura alla sua (dell’avvocato) coscienza un “dolce nutrimento” (a sweet morsel for my conscience); eppure l’impiegato continua a irritarlo. Un “impulso malvagio” (evil impulse) lo obbliga a provocare ancora Bartleby, insistendo perché svolga un lavoro diverso dalla pura copiatura alla quale si sente vocato. Segue l’immancabile parola: I would prefer not to, e a essa una nuova aggressione corale contro il suo latore. L’avvocato insiste: è mosso dal perverso desiderio di essere nuovamente “contrariato” dal suo impiegato. Gli affida una nuova mansione, ottenendo in risposta la medesima parola. Sempre più contrariato, medita punizioni esemplari, senza tuttavia risolversi a metterle in atto. Al contrario, comincia ormai a nutrire un’incondizionata “fiducia nella sua onestà” (I had a singular confidence in his honesty).

New York City, Wall Street con la Trinity Church (1875)

È l’inizio della conversione della voce narrante, che ha forse il suo climax in una scena apertamente religiosa. È domenica e l’avvocato si sta recando alla Trinity Church “per ascoltare un celebrato predicatore”. Purtuttavia, piuttosto che entrare in chiesa, egli si reca al suo ufficio, nell’approssimarsi al quale – con sua grande costernazione – gli appare Bartleby (“the apparition of Bartleby appeared”), in un inusuale déshabillé. Bartleby, che ha preferenza che l’avvocato non entri in ufficio in quel frangente, lo invita a fare un giro attorno all’isolato. L’avvocato obbedisce, pur intimamente ribellandosi di fronte alla “sfrontatezza” mista di “mirabolante mitezza” di quell’individuo. Si sente privato della sua americana virilità: in effetti, non è conveniente che un manager prenda ordini da un sottoposto. E poi, che cosa potrà mai fare Bartleby nel suo ufficio di domenica? Impossibile pensare che un uomo così onesto contravvenga le sacre regole della domenica. Disorientato da simili inquietudini, l’avvocato presto scoprirà che Bartleby vive stabilmente nel suo ufficio. Si spalanca improvvisamente la visione dell’immenso “abbandono e solitudine” di Bartleby. What miserable friendlessness and loneliness are here reveled! Povertà, abbandono, immensa solitudine! Questi (cristologici?) attributi di Bartleby costituiscono un’autentica rivelazione per l’avvocato. La sagoma dell’uomo disegnata sulla poltrona che gli funge da letto è ai suoi occhi “un gelido sudario” (shivering winding sheet). Ecco l’uomo! Un strano personaggio che mai parla, se non per rispondere; che non ha alcun’occupazione, se non la copiatura dei documenti d’ufficio; che non beve né alcolici né sostanze stimolanti come tè o caffè. In breve, un uomo totalmente abbandonato, spoglio, umiliato. For the first time in my life a feeling of overpowering stinging melancholy seized me. Come far fronte a una tale kénosi dell’uomo? Come far fronte a un essere totalmente svuotato di ogni umanità?


L’inquietudine prodotta da quest’imprevista apocalisse distoglie l’avvocato dal recarsi in Chiesa, dove pur avrebbe potuto trovare risposte alle sue domande. Invece è irresistibilmente attratto da quell’uomo, se di un uomo si tratta. La mattina dopo lo convoca, non per assegnargli provocatorie mansioni, ma per conoscerlo meglio. Chi è? Dov’è nato? Da dove proviene? Nulla: Bartleby è senza storia, senza biografia. O almeno non vuole “rivelargliela”. Questo riserbo irrita l’avocato (non senza una sorta di superstiziosa paura:
I strangely felt something superstitious knocking at my heart), che torna a chiedergli di essere ragionevole e di svolgere le mansioni d’ufficio che gli verranno assegnate. Ma Bartleby dichiara di preferire non esser ragionevole (At present I would prefer not to a little reasonable). Alla violenta reazione di Nippers contro l’ennesima eccentricità del collega, l’avvocato lo blandisce dichiarando di “aver preferenza” che lui, Nippers, si allontani. Ma la frase involontariamente pronunciata lo inquieta. Teme che il suo (dell’avvocato) stato mentale sia ormai intaccato. In altre parole, sente di esser diventato ormai un discepolo di Bartleby, l’uomo kénotico, l’uomo svuotato di ogni umanità. L’inquietudine aumenta quando l’avvocato sente pronunciare a Turkey, l’impiegato leggermente dedito all’alcol, la stessa parola (the word). Ma come? Bartleby sta forse “sovvertendo le nostre lingue, se non i cervelli” (a demented man, who already has in some degree turned the tongues, if not the heads of myself and clerks)? Si sta imponendo, nella sua disarmata mitezza, come leader carismatico?


Le domande si affollano, quando la situazione cambia radicalmente. Il giorno seguente l’avvocato trova Bartleby insolitamente privo di occupazioni. Alla domanda sulla ragione per cui non stia ricopiando documenti legali, Bartleby enigmaticamente risponde, con l’usuale apatia: “Non capite da voi la ragione?” (
Do you not see the reason for yourself?). Per l’avvocato deve trattarsi di una temporanea sofferenza degli occhi dello scrivano, forse affaticati dopo tanto ricopiare a una scrivania insufficientemente illuminata. Ma si sbaglia. Bartleby ha irrevocabilmente deciso che non scriverà più nulla. Insomma, che il suo lavoro è compiuto, è giunto al termine. Ciò nondimeno – come si capirà dal seguito del racconto – per nessuna ragione è disposto a lasciare l’ufficio. L’avvocato cerca in ogni modo di persuaderlo (di corromperlo!…), corrispondendogli una lauta liquidazione. Bartleby non accetta denaro, e altrettanto risolutamente non intende muoversi dall’ufficio. L’avvocato è tentato “dal vecchio Adamo” che ancora abita in noi a compiere il gesto estremo contro l’irragionevole e inquietante presenza che alberga nel suo ufficio. Ma viene salvato dal ricordo della divina ingiunzione, dall’evangelico comandamento dell’amore del prossimo. Avendo rinunciato al peccato, si sente invaso dalla carità, dalla filantropia. Sente che il suo vero compito nella vita, la predestinata ragione per cui è al mondo, è di ospitare Bartleby. Meglio ancora: Bartleby è divinamente inviato dalla Provvidenza perché l’avvocato possa conoscere la sua missione. Vale la pena rileggere l’intero passaggio, con ogni evidenza centrale:

Gradually I slid into the persuasion that these troubles of mine touching the scrivener, had been all predestinated from eternity, and Bartleby was billeted upon me for some mysterious purpose of an all-wise Providence, which it was not for a mere mortal like me to fathom […]; in short, I never feel so private as when I know you are here. At least I see it, I feel it; I penetrate to the predestinate purpose of my life. I am content […] my mission in this word, Bartleby, is to furnish you with office-room for such period as you may see fit to remain.


Per quanto infinita e sempre aperta sia l’arte dell’interpretazione, mi pare difficile non scorgere in questo passo un’autentica confessione di fede, che fa dell’avvocato un discepolo di Bartleby. Ma, come già per Pietro, alla confessione segue il tradimento. Prevalgono i vincoli che ci legano a questo eone malvagio. La presenza inoperosa e impassibile di Bartleby rappresenta in effetti una pessima immagine per l’ufficio dell’avvocato, che si presume composto di persone efficienti e indaffarate. Notoriamente non si può servire Dio e Mammona; per preservare la rispettabilità dell’ufficio è necessario liberarsi dello scomodo impiegato. Entro tre giorni (di nuovo, mi trattengo dall’allegorizzare) l’inviato della Provvidenza dovrà andarsene dall’ufficio. Naturalmente Bartleby – al tempo stesso “spettro” e “innocente creatura” – non se ne andrà. Preferisce rimanere. All’avvocato, che rifugge l’idea di servirsi delle forze dell’ordine e in generale della violenza, non resta che traslocare, trasferendo il suo ufficio in un altro locale. Sarà lui dunque ad andarsene, a disertare, a tradire. E così, come vuole la logica del mondo, l’ufficio passerà a un nuovo locatario; il quale, dopo aver preteso dall’avvocato un estremo (e inutile) tentativo di mediazione che lo persuada a sgombrare l’ufficio, ben più risolutamente chiamerà la polizia. Così Bartleby sarà arrestato e trasferito nelle carceri, dette “le Tombe” – un luogo dall’insolito aspetto egizio. Qui Bartleby (il quale, come Cristo davanti ai suoi carnefici, ormai si rifiuta di pronunciare alcuna parola: finanche la
sua parola) si lascerà morire, tornando al regno dei “re e dei consiglieri della terra” da cui era provenuto, secondo un’estrema confessione di fede dell’avvocato. Alla rivelazione della morte, la voce narrante concluderà il racconto con un amen finale: “Ah Bartleby! ah umanità”. (Fine prima parte)

Note
1. H. Melville, Bartleby lo scrivano, a cura di G. Celati, Feltrinelli, Milano, 201518.
2.  Cfr. I. Valent,
Dire di no. Filosofia Linguaggio Follia, , a cura di R. Madera, Moretti & Vitali, Brescia, 2007 (1995, pp. 206 ss.).
3.  Cfr. A. Tagliapietra,
La forza del pudore. Per una filosofia dell’inconfessabile, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 192 ss.
4.  Cfr. G. Deleuze,
Bartleby ou la formule, Paris, 1989, ora in G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993, p. 11.
5.  Cfr. G. Agamben,
Bartleby o della contingenza, in ivi p. 68.

 

Enrico Cerasi, docente di Filosofia della religione presso l’Università Vita-Salute san Raffaele di Milano, ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale per la seconda fascia in Filosofia teoretica e in Storia della Filosofia. Con Stefania Salvadori ha curato per Bompiani gli Scritti teologici e politici di Erasmo da Rotterdam. Si è occupato della teologia di Karl Barth, della questione della demitizzazione, del linguaggio religioso e della filosofia di Pirandello, sulla quale ha pubblicato due monografie (Quasi niente, una pietra. Per una nuova interpretazione della filosofia pirandelliana, Prefazione di E. Severino, Padova, 1999, e La vita nuda. L’anarchismo filosofico di Luigi Pirandello, Milano, 2016) e alcuni articoli in rivista e sul web. Sulla filosofia di Pirandello ha discusso anche in un programma condotto dal regista Fabrizio Falco e ideato da Felice Cappa, trasmesso il 28 giugno 2017 da Rai cinque cultura.

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