La conversione della basilica di Hagia Sophia, la Grande Chiesa di Cristo, in moschea al termine di un iter politico e giuridico suggellato dalla preghiera islamica di venerdì 24 luglio 2020, si è profilata come un evento epocale che ha portato all’attenzione una storia millenaria di imperi e conquiste, riattualizzando visioni del potere che sembravano relegate nei libri di storia. Il peso di questo gesto, al quale il presidente turco Erdoğan ha affidato il ruolo di manifesto del suo programma neo-ottomano, si lascia cogliere di riflesso attraverso le proteste che sono state levate dalle più influenti autorità politiche e istituzionali dell’Occidente, quali, ad esempio, il Segretario della Difesa USA Mike Pompeo o l’UNESCO, la cui World Heritage List include Hagia Sophia come sito museale.
Anche le più alte autorità religiose hanno espresso il loro disappunto e rammarico, da Papa Francesco al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, che è il titolare della cattedra, de iure mai dismessa, di Hagia Sophia. Il Patriarca Bartolomeo in particolare ha ammonito che questo gesto rischia di far crescere il risentimento antislamico tra i cristiani. Voci critiche contro la decisione di Erdoğan, tuttavia, non sono mancate neanche da parte del mondo islamico, non da ultimo dietro la preoccupazione che le ambizioni del presidente turco possano spingersi fino a rimettere in discussione l’assetto politico-religioso del Medio Oriente. Significativamente, la cerimonia del 24 luglio è stata disertata sia dall’opposizione turca (tra le cui fila si conta l’attuale sindaco di Istanbul) sia da diverse autorità religiose e politiche islamiche che erano state invitate alla cerimonia – senza contare la mancata risposta al provocatorio invito rivolto a Papa Francesco.
La vasta risonanza mediatica suscitata dall’evento ha dato vita a innumerevoli ricostruzioni storiche e analisi geopolitiche che non hanno mancato di sottolineare il ricorso a simboli e a memorie del passato con il fine di consolidare un’identità politico-religiosa che si chiama in continuità con il passato ottomano. La prima preghiera nella cattedrale adibita a moschea ha infatti palesato, sin dalla scelta della data, l’ambizione neo-ottomana del presidente turco e la volontà di superare l’assetto kemalista che ha dato forma alla Turchia post-ottomana: il 24 luglio cadeva infatti la 97ma ricorrenza della firma del trattato di Losanna, che nel 1923 aveva sancito la nascita della Repubblica turca e stabilito i confini che spartivano i territori del dissolto impero ottomano.
La cerimonia si è inoltre riannodata alla memoria della conquista di Costantinopoli nel 1453, sia attraverso l’esibizione della storica spada di Mehmet II il Conquistatore, brandita dall’alto del minbar dall’imam – nonché Ministro degli Affari Religiosi – Ali Erbash, durante il primo sermone nella nuova moschea, sia attraverso la lettura della Sura Al Fath (“della vittoria”) da parte dello stesso Erdoğan, che attraverso l’omaggio alla tomba del Conquistatore compiuto dal presidente dopo la preghiera. Considerato che fu proprio Mehmet II, all’indomani della presa della città, a trasformare per la prima volta Hagia Sophia in moschea, il significato dei gesti esibiti in occasione di questa cerimonia non poteva essere più eloquente.
Se i commenti prevalsi nel mondo Occidentale hanno sottolineato come questo atto costituisca una sfida ai valori della laicità, della condivisione, del rispetto delle minoranze e, non da ultimo, del patrimonio artistico universale, il mondo ellenofono e ortodosso ha visto riattualizzarsi in questo evento il trauma della caduta di Costantinopoli, che per gli eredi spirituali e culturali di Bisanzio, ultima propaggine dell’Impero romano, costituisce ancora oggi una memoria viva. Le veementi proteste del governo greco e l’appello rivolto all’Europa – caduto peraltro nel vuoto –, le campane suonate a lutto in tutto l’Egeo e le reazioni da parte dei primati e dei fedeli di tutte le chiese ortodosse, hanno mostrato come Hagia Sophia costituisca il centro simbolico, nonché l’icona cosmica ed escatologica dell’identità religiosa dei cristiani ortodossi. Nel mondo ellenofono, inoltre, questo gesto risveglia l’allerta mai sopita per i movimenti dell’ingombrante vicino, del cui giogo politico-religioso in epoca ottomana il ricordo non si è mai spento, e soprattutto ritorna a far pulsare le ferite non rimarginate dei pogrom perpetrati per tutto il Novecento, dopo la caduta del sultanato, ai danni dei greci del Ponto, dello Ionio e di Costantinopoli/Istanbul, per arrivare fino all’invasione di Cipro Nord, eventi che hanno vergato alcune delle pagine più nere del secolo dei genocidi.
La rassegna delle ragioni politiche ed economiche interne, nonché delle prospettive geopolitiche che gli analisti hanno identificato dietro la strategia di Erdoğan, potrebbe addentrarsi in molteplici considerazioni; tuttavia, quello su cui vogliamo qui soffermarci è lo scenario – molto più ampio rispetto alle questioni contingenti all’area levantina – che si apre dietro la vicenda di Hagia Sophia. Per diversi osservatori infatti la mossa di Erdoğan costituisce un tassello della tendenza post-secolarista che caratterizza la nostra epoca. In questa direzione Aristotle Papanikolaou, teologo ortodosso greco-americano, co-direttore del Orthodox Christian Studies Center della Fordham University di New York, ha tracciato un parallelo tra la svolta politico-religiosa della Turchia e gli sviluppi ideologico-religiosi nella Russia di Putin.1 Una significativa tappa di questi sviluppi è stato l’inserimento nella nuova costituzione russa, entrata in vigore il 4 luglio, di un paragrafo con un riferimento alla “fede in Dio ricevuta dagli antenati”, che accoglie la proposta del patriarca della Chiesa russa Kyrill (benché questi avesse chiesto inizialmente che il riferimento religioso fosse posto nel preambolo della nuova carta costituzionale).2
Russia e Turchia fanno dunque registrare, con singolare sincronismo, attraverso atti politici impregnati di alto valore simbolico-religioso, il superamento del secolarismo anti-religioso che aveva caratterizzato l’ultimo secolo della loro storia, inaugurato dalla Rivoluzione nel 1917 in Russia e dall’arrivo al potere di Mustafa Kemal Atatürk nella nascente Repubblica turca, nel 1920. Proprio la trasformazione di Hagia Sophia in museo, decisa da Atatürk nel 1934, costituì il compimento simbolico del processo di – seppur relativa – secolarizzazione della Turchia post-ottomana, dal quale sono dipese la percezione e le narrazioni occidentali che hanno additato questa nazione come l’unico paese musulmano laico.
La vulgata che vorrebbe la Turchia kemalista laica e secolarizzata costituisce, tuttavia, una narrazione di comodo, figlia del paradigma egemone del secolarismo, e poco corrispondente al vero, come è stato sottolineato dallo storico ed esperto di nazionalismo turco, Etienne Copeaux.3 Il processo di laicizzazione compiuto da Atatürk è partito infatti dall’espulsione degli «elementi allogeni», ovvero non musulmani: il genocidio degli armeni (1915), l’espulsione dei greci ortodossi (1914 e 1922), i pogrom contro gli ebrei (1934), l’espulsione dei greci da Istanbul (1955) e da Cipro Nord (1974). Nel 1971, il Seminario teologico greco-ortodosso di Halki, storica scuola di alta formazione del Patriarcato di Costantinopoli, venne chiuso forzatamente e, nonostante le varie promesse, attende ancora oggi di essere riaperto.
Inoltre, il “Grande scambio” di popolazioni tra Grecia e Turchia nel 1923 non venne effettuato su base etnica o linguistica, bensì religiosa: verso la Grecia vennero espulsi gli ortodossi turcofoni e verso l’Anatolia i musulmani bosniaci ed epiroti che non parlavano una parola di turco. Dietro la narrazione secolarista di facciata il criterio che guidò le politiche di ridistribuzione degli ex sudditi dell’impero ottomano fu in realtà quello religioso. E fu l’identità religiosa piuttosto che quella etnica a innescare le successive violenze e discriminazioni. La laicizzazione turca rispose dunque a criteri nazionalistico-religiosi (con una forte componente di de-arabizzazione) piuttosto che a una generica ostilità antireligiosa, come invece è avvenuto in Unione Sovietica dopo la Rivoluzione.
L’ostilità antireligiosa ha costituito un elemento caratterizzante e orientante del secolarismo, che a sua volta ha rappresentato una delle principali componenti del profilo ideologico dell’Europa post-illuminista. Gli eventi che fanno oggi parlare di fine del secolarismo, in realtà non fanno altro che portare allo scoperto il tramonto del paradigma secolarista e delle sovrastrutture narrative che da esso sono dipese, le quali hanno avuto gioco nel nascondere sotto una visione idealistica del progresso umano le istanze religiose che formano l’ineliminabile substrato antropologico di ogni società e ne determinano l’ethos particolare, plasmando la visione del mondo di buona parte dell’umanità.
Con un anticipo di alcuni anni rispetto agli eventi che fanno oggi parlare di superamento del secolarismo, questo stesso tema venne evocato dal Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo in una prolusione pronunciata al Cairo il 27 aprile 2015, nel contesto della Conference on Global Peace organizzata dall’Università Al-Azhar, uno dei più prestigiosi centri d’insegnamento dell’Islam sunnita, e dal Consiglio musulmano degli Anziani.4 Il Patriarca ecumenico offrì una riflessione sul ruolo della religione per l’umanità, parlando in un clima turbato dai sanguinosi attentati perpetrati in Egitto contro alcune chiese copte solo poche settimane prima.
Muovendo dalla constatazione che l’ondata di attentati terroristici a matrice confessionale degli ultimi decenni ha fomentato l’accusa contro la religione di essere matrice di divisioni, violenze e terrore, il Patriarca ha sottolineato con forza come questa associazione sia abusiva e non necessaria, ricordando per contro che la religione costituisce un fattore imprescindibile nella storia dell’uomo: 1) nell’offrire risposte alle questioni più cruciali dell’esistenza, 2) nel legarsi in positivo all’identità e alla storia dei popoli e delle civiltà, 3) nell’ispirare i valori più alti dell’umanità e le sue più grandi realizzazioni culturali, 4) nell’essere fattore di pace e nell’avere come scopo la tutela della dignità umana, motivi per cui intolleranza, divisione e violenza non ne rappresentano l’essenza bensì il fallimento. La comprensione del ruolo della religione nel mondo contemporaneo, secondo Bartolomeo, deve quindi prendere atto che, nonostante le aspettative dell’ideologia secolarista, l’umanità non è approdata a un’epoca secolare post-religiosa, bensì a un’epoca post-secolare. Quest’epoca si dipana tra i poli opposti del relativismo, che è frutto del secolarismo, e del fondamentalismo religioso, che è oggi sfruttato come arma ideologica dai nazionalismi e dai neo-colonialismi.
La nozione di “età post-secolare” è stata introdotta nel dibattito contemporaneo dal filosofo tedesco Jürgen Habermas, la cui riflessione è partita dalla constatazione che il secolarismo ha perso la capacità di produrre visioni del mondo autosufficienti, a fronte della persistenza di una stretta dialettica tra la società secolare e le religioni. Dovendosi prendere atto che le religioni non sono destinate a una repentina estinzione, per le società odierne si pone la necessità di cercare un dialogo costruttivo con esse.5 Il discorso di Habermas non sostiene peraltro che una svolta si sia prodotta nel dominio specifico del religioso, bensì nella sua percezione pubblica, come è stato anche sottolineato dal filosofo canadese Charles Taylor, che vede nella nozione di “post-secular age” il risultato della perdita di egemonia del discorso secolarista.6
La riflessione sul futuro del rapporto tra secolarismo e religione, tanto in Habermas quanto in Taylor, trova soluzione nella nozione di pluralismo. Alla stessa conclusione giungeva la prolusione del Patriarca Bartolomeo, il quale sottolineava come l’area mediterranea ha conosciuto durature situazioni di convivenza tra Ebrei, Cristiani e Musulmani nelle quali si è mostrato come la possibilità di coabitazione delle religioni non sia soltanto un’ipotesi teorica. Papa Francesco, parlando ad Al-Azhar pochi giorni dopo il Patriarca Bartolomeo, indicava a sua volta la necessità di un dialogo interreligioso volto a gettare le basi di una civiltà dell’incontro come antidoto alla civiltà dello scontro, «senza escludere Dio dall’orizzonte».
Il superamento del paradigma secolarista pone dunque una grande sfida, dal momento in cui al posto delle ideologie anti-religiose, o all’apparente neutralità delle visioni a-religiose che hanno plasmato il sentire collettivo dell’ultimo secolo, rischia di subentrare un ricorso alla religione come fondamento di ideologie etno-identitarie e strumento di strategie politiche e geopolitiche. La situazione turca è in piena evoluzione ed è ancora difficile valutare quali direzioni prenderà l’attuale svolta post-secolare, come ammonisce l’attitudine ambigua emersa nei confronti dell’eredità artistico-religiosa di Costantinopoli. Con l’annuncio della conversione di Hagia Sophia in moschea il governo turco ha infatti promesso di garantire la visibilità dei mosaici della basilica attraverso un sistema di tendaggi e di luci che li dovrebbe rendere fruibili ai visitatori al di fuori dagli orari del culto islamico.
Tuttavia la trasformazione in moschea del museo di San Salvatore in Chora, uno dei più importanti siti dell’arte bizantina a Costantinopoli, neanche un mese dopo Hagia Sophia, pone seri dubbi sul fatto che da qui si possa approdare a una visione capace di includere nelle sue prospettive un reale pluralismo religioso, dal momento che simili atti sembrano volti a null’altro che a cancellare le tracce di quel pluralismo culturale che è parte della storia di ogni civiltà, nella volontà di far sparire ogni traccia dell’altro che è stato all’origine di tale pluralità.
Suona pertanto come un cacofonico contrappunto nella sinfonia del cattivo post-secolarismo la dichiarazione delle autorità russe che hanno salutato la trasformazione di Hagia Sophia in moschea come un vantaggio per i turisti russi, che ora non dovranno più pagare il biglietto di 72 lire turche (corrispondenti a circa 8 €) per entrare nella basilica.
Un altro interrogativo a cui è ancora prematuro tentare di dare risposta è se questa cosiddetta svolta neo-ottomana porrà freno ai segnali di apertura che il governo turco aveva mostrato negli ultimi decenni verso la Chiesa ortodossa, permettendo al Patriarcato di Costantinopoli il ripristino della vita pastorale in alcune delle sue diocesi dell’Asia Minore (come Smirne o Pisidia) che erano state completamente annichilite dai sanguinosi eventi del Novecento, garantendo la ripresa del culto e in alcuni casi assicurando il restauro di chiese e monasteri (politica applicata anche nel caso di sinagoghe e chiese armene). Anche in relazione a questi sviluppi ha destato stupore la dichiarazione di un portavoce della Chiesa ortodossa russa che ha accusato il Patriarcato ecumenico di non aver saputo condurre una politica capace di prevenire il cambiamento di status di Hagia Sophia.
Proprio le sorprendenti dichiarazioni su Hagia Sophia da parte delle autorità politiche e religiose russe, richiamano la nostra attenzione sul principale fronte post-secolare interno all’area di tradizione cristiano-ortodossa, che è costituito dal ritorno della religione sulla scena pubblica e politica nello spazio russo post-sovietico.
Qui la fusione tra nazionalismo e ortodossia ha trovato concretizzazione nel connubio tra il patriottismo di Stato e il ruolo di tutore spiritual-morale della nazione assunto dalla Chiesa russa sotto la guida del Patriarca di Mosca Kyrill. La Chiesa russa, contestando la secolarizzazione dell’Occidente e opponendo una serrata critica contro la visione europea dei diritti civili, ha proclamato la Russia “ultimo baluardo dei valori cristiani”.7 Da qui ad assumere un ambiguo ruolo di attore sullo scenario geopolitico il passo è stato brevissimo, e questo si è visto in particolare in occasione delle recenti tensioni tra Russia e Ucraina in relazione all’annessione della Crimea e agli scontri bellici nel Donbass, dove la chiesa russa si è appiattita su posizioni filogovernative tacendo di fronte ai sanguinosi combattimenti tra popoli che si trovavano sotto la propria giurisdizione canonica e pastorale.
Questa ambigua doppia militanza nazionalistica e spirituale è infine giunta a provocare lo scisma unilaterale della chiesa moscovita dal Patriarcato ecumenico, a seguito del sostegno da questi dato alla creazione della nuova Chiesa Autocefala in Ucraina. Questo gesto estremo, ecclesialmente catastrofico e ingiustificato in base alle ragioni della Fede e della tradizione canonica della Chiesa ortodossa, pone in luce quali siano le conseguenze di una deriva del post-secolarismo in cui si ripresenti l’atavica commistione tra spirituale e temporale.
Hagia Sophia rappresenta il capolavoro di Giustiniano. Tra la moltitudine di significati che essa ha veicolato, va annoverato quello di essere stata l’icona visibile del concetto di “sinfonia”, nel quale si è delineata la concezione e la prassi bizantina del rapporto tra Chiesa e impero, e che proprio Giustiniano, l’imperatore teologo, ha introdotto nel corpus delle leggi dello Stato. Questo modello, spesso ricorrente nelle riflessioni ortodosse sugli sviluppi della società post-secolare, evidentemente non è più applicabile nei termini della sua forma storica, come ha argomentato con una precisa analisi il teologo ortodosso ucraino Cyril Hovorun,8 tuttavia esso può offrire un esempio a cui ispirarsi e al contempo da cui distanziarsi nella costruzione di un equilibrio post-secolare fondato sulla garanzia di un pluralismo religioso che voglia essere qualcosa di più della mera tolleranza verso le minoranze religiose.
Una prospettiva post-secolare non ostile alla religione potrà avere successo solo se il discorso religioso non verrà piegato alle ragioni temporali e il rapporto con la trascendenza rimarrà una realizzazione personale e comunitaria e non un obiettivo collettivo e istituzionale. Diversamente questo processo produrrà un ritorno a un secolarismo antireligioso che troverà facile gioco nel quadro della generale tendenza alla secolarizzazione e all’assopimento della coscienza religiosa, che sono l’indotto della società globale dei consumi. L’antidoto a questa tendenza può venire da un ripensamento dello spazio civile come contenitore di una pluralità di spazi confessionali che non si sovrappongano e non si contrappongano in un rapporto di rivalità o antagonismo, ma siano stabiliti attraverso la normativa giuridica nelle loro prerogative e nei loro confini, nel quadro di un patto di reciprocità fondato sulla proporzionalità degli aderenti e su una visione inclusiva della storia nella quale trovi spazio anche la storia dei vinti.
Nei secoli precedenti alla globalizzazione, quando religioni e culture occupavano uno spazio ben delineato all’interno dei propri confini geografici, la commistione tra spirituale e temporale poteva rivendicare una “legittimità d’uso”, in quanto l’esito dell’incontro tra culture e fedi era determinato dai rapporti di forza, e sebbene le migrazioni di popoli e le conquiste militari abbiano costantemente rimesso in discussione nel corso dei secoli l’unità tra spazio etno-politico e spazio religioso, questa identificazione non è mai stata superata. L’illegittimità spirituale di questo paradigma ha tuttavia costituito il fondamento della posizione cristiana sul potere secolare, che non solo ha sancito la necessità della separazione tra “Cesare” e “Dio” (Mt 22, 21; Mc 12, 17; Lc 20, 25), ma si è spinta ancor oltre, legando la sua predicazione a un messaggio di salvezza spirituale travalicante le ragioni dell’ethnos, del kratos e del genos, come è detto nella sentenza paolina «non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28).
Dal momento in cui il processo di secolarizzazione intrapreso dall’Occidente è stato reso possibile – nonostante le temporanee ondate anti-religiose – proprio dall’influenza del messaggio escatologico del Vangelo, e ha gradualmente rotto i legami che vincolavano lo spirituale e il temporale, si impone oggi un profondo discernimento tra le ragioni spirituali e quelle temporali, al fine di evitare la tendenza – antropologicamente sempre in agguato – dell’idolatria del secolare e della profanazione dello spirituale.
Il principio di distinzione tra le ragioni personali della fede nella trascendenza e le forme del secolare non è solo il punto di partenza del pluralismo religioso, bensì il criterio ultimo e più intimo della libertà interiore della persona – in quanto la fede non è sottoposta ad alcuna necessità empirica o razionale, e non può derivare «né da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo» (Gv 1, 13). Questo principio, qualora correttamente compreso e sostenuto da coloro che ripongono la loro fede nel Dio il cui “regno non è di questo mondo”, offrirà una prospettiva di libertà anche alla società secolare in alternativa all’affermarsi di stili di vita, strategie educative e modelli di pensiero uniformati in base alle pretese “ragioni necessarie” dello sviluppo tecnologico o del mercato, che nel vortice della concorrenza, del superamento di ogni limite, dell’n.0, erodono ogni pluralità e impoveriscono le conoscenze, asservendo a competenze vacue e ripetitive, il cui simbolo più potente è il compulsivo gesto del reclinare il collo e sprofondarsi nello schermo dello smartphone, smaterializzandosi nel limbo del digitale.
La tendenza globale all’uniformazione e alla diffusione di schemi esistenziali e comportamentali circolari, dietro la quale agisce la ragion politico-economica non meno che quella mimetica, si fonda sulla rimozione del “discrimine”. La causa ultima di questa tendenza può essere identificata, in un’ottica post-secolare, nell’assopimento del senso della trascendenza, il quale massimamente è capace di liberare la coscienza dalle necessità della contingenza e di spronarla ad assumere il punto di vista “dall’esterno”, rompendo così la circolarità mimetica. La reazione ai processi di uniformazione e alla conseguente crisi delle identità trova invece nelle forme etno-politiche della religiosità post-secolare una risposta di segno contrario, nella tendenza alla “discriminazione”. Tuttavia, tanto l’esito dell’uniformazione prodotta dalla globalizzazione, quanto l’identitarismo chiuso in se stesso, entrambi epifenomeni del post-secolarismo, non potranno che condurre a crisi sempre più radicali che richiederanno soluzioni sempre più radicali, le quali infine non potranno che rivolgersi al più antico strumento di risoluzione delle crisi che l’umanità ha conosciuto, cioè la violenza contro la vittima espiatoria.
Il pensiero della trascendenza pone la più radicale critica che il pensiero possa concepire, quella al realismo della realtà nei termini in cui la si percepisce, la si pensa, la si vive. Solo da una presa di posizione rispetto a questa domanda si può compiere una scelta veramente libera circa lo spazio spirituale in cui vivere e su come viverlo. In quest’ottica le attuali vicende di Hagia Sophia e di San Salvatore in Chora ci recano un messaggio dal passato non-passato bizantino, richiamandoci al senso più profondo dell’essere spazio che questi luoghi veicolano, il quale nessun cambiamento di destinazione d’uso, iconoclasmo o catastrofe naturale potrà mai cancellare, ovvero essere il luogo dell’incontenibile, la dimora della Sapienza eterna e increata: testimoniando l’esperienza della bellezza sovrannaturale vissuta durante la Liturgia in Hagia Sophia, gli ambasciatori del principe Vladimir di Kiev non solo determinarono la conversione della Rus’ al cristianesimo di tradizione bizantina, ma espressero con parole semplici e memorabili il senso ontologico ed escatologico dello spazio sacro, di cui Hagia Sophia è la precipua incarnazione: «Non sapevamo se ci trovavamo in cielo o sulla terra». In San Salvatore in Chora questo stesso significato è espresso nel titolo iscritto nell’icona della Theotokos “Dimora di Colui che non può essere contenuto” (Hē chṓra toû achōrḗtou)».
Note
1. https://publicorthodoxy.org/2020/07/22/death-of-secularism/
2. https://publicorthodoxy.org/2020/07/20/the-end-of-post-soviet-religion/
3. Etienne Copeaux, Espaces et temps de la nation turque. Analyse d’une historiographie nationaliste, 1931-1993, Paris, CNRS-Editions, 1997; Etienne Copeaux, Une Vision turque du monde, à travers les cartes, Paris, CNRS-Editions, 2000.
4. https://www.oikoumene.org/en/resources/documents/other-meetings/religions-and-peace-address-of-his-all-holiness-ecumenical-patriarch-bartholomew
5. Jürgen Habermas et al., An Awareness of What is Missing: Faith and Reason in a Post-Secular Age, Polity Press, Cambridge
6. Charles Taylor, A Secular Age, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA – London, 2007, p. 534.
7. https://publicorthodoxy.org/2020/07/20/the-end-of-post-soviet-religion/
8. Cyril Hovorun, Is the Byzantine “Symphony” Possible in Our Days?, «Journal of Church and State», 59 (2017), pp. 280-296.
___________________________________
Ernesto Sergio Mainoldi si occupa di storia del pensiero filosofico e teologico dell’età tardo antica e medievale, con particolare interesse per l’alto medioevo latino e bizantino. Ha ottenuto l’abilitazione nazionale a professore associato in Storia della Filosofia e Filologia mediolatina. Collabora con diverse istituzioni, tra cui il Centro interdipartimentale FiTMU dell’Università di Salerno e la Fondazione Franceschini di Firenze. È sacerdote della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta del Patriarcato ecumenico.
Ha al suo attivo un centinaio di pubblicazioni tra libri, saggi scientifici, curatele e articoli. Tra questi si ricordano i volumi: Ars musica. La concezione della musica nel Medioevo (Milano, 2001); Giovanni Scoto Eriugena. De praedestinatione liber. Dialettica e teologia all’apogeo della Rinascenza carolingia (edizione critica, saggio introduttivo e traduzione) (Firenze, 2003); Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’. La genesi e gli scopi del Corpus Dionysiacum (Roma, 2018); nonché la co-curatela della miscellanea Pseudo-Dionysius and Christian Visual Culture, c.500–900 (London, 2020).
© finnegans. Tutti i diritti riservati
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.