RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Stracciando i margini, incontro con Giovanni Turra / a cura di Nicola De Cilia

[Tempo di Lettura: 14 minuti]
Giovanni Turra

NICOLA Esce in questi giorni, per la collana “Giallo oro” di Pordenone legge (Samuele editore), “Peepshow”. Tutte le poesie, di Giovanni Turra. Il volume è stato presentato sabato 21 settembre, alle ore 17.00, nell’ambito del festival della letteratura di Pordenone. Giovanni Turra è nato nel 1973 e ha esordito nel 1998 con “Planimetrie” (Book editore). Poeta appartato, ha distillato negli anni i suoi versi in pochi libri (il precedente, “Con fatica dire fame”, edizioni La vita felice, è del 2014) e riviste. In “Peepshow” sono incluse quasi tutte le poesie già edite in volume, antologia o su rivista e una quindicina di poesie inedite.

Cominciamo dal titolo di questa raccolta: “Peepshow”.

GIOVANNI È un titolo che vuole suonare ironico, e proviene da una mia breve raccolta degli anni 2000. “Peep” in inglese significa ‘sguardo’, ‘occhiata’ e “peepshow” indica quel tipo di spettacolo in cui si guarda attraverso un buco un corpo nudo in atteggiamenti osceni. Ma per me, assume anche un valore traslato: la volontà di attingere a ricordi e paure che mi percorrono e sostanziano. Un po’ “Il mio cuore messo a nudo”. Inoltre, PEEP è l’acronimo, italiano questa volta, di ‘Piano Economico di Edilizia Popolare’. In effetti, i quartieri popolari e suburbani di Mestre, dove sono nato, e di Mogliano Veneto, dove vivo, offrono da sempre lo sfondo, reale e immaginario, a tutto quanto scrivo; di qui il “calembour” del titolo. Sovrapponendo ‘Peep’ e ‘PEEP’ qualcosa non collima e qualcosa resta fuori, sempre. Solo il Witz della condensazione poetica ci permette di tenere insieme i due significati.

NICOLA È stato Gian Mario Villalta, co-direttore delle due collane di Pordenone legge “Poesia”, a proporre questa raccolta dei tuoi testi. Le due collane, Gialla per gli autori emergenti, Gialla Oro per progetti più complessi, si sono ritagliate uno spazio importante per la poesia, anche perché hanno alle spalle il Festival di Pordenone legge che per la poesia è, probabilmente, il più importante festival in Italia. Che effetto ti fa?

GIOVANNI Un riconoscimento insperato, anche perché a partire dal 2017 la vena poetica si è di molto inaridita, e l’unico responsabile sono io, perché la poesia chiede attenzione, dedizione, se hai un talento hai anche, come dice Truman Capote, lo scudiscio con cui fustigarti: a un certo punto della mia vita ho voltato le spalle alla poesia perché resto un infingardo.

NICOLA Hai esordito nel ’98 a 25 anni con “Planimetrie”, un debutto precoce. Come è nata la tua devozione alla poesia?

GIOVANNI Sono stato fortunato, il primo anno di liceo la professoressa, con cui avevo una certa intesa, mi consigliò “Poesia degli ultimi americani”, l’antologia tradotta da Fernanda Pivano, del ’65, con dentro “La bomba” di Gregory Corso: non credevo potesse esserci una poesia del genere. Ora, quella stagione è morta e sepolta, ma a me ha fatto un gran bene perché mi ha permesso di reagire a certe angustie dei programmi scolastici. C’era una poesia di Peter Orlovsky che diceva: “Avanti Morris, piscia per la tua stanza…” Orlovsky, per la cronaca, per campare faceva quello che oggi chiameremmo l’oss in un ospedale psichiatrico. Questo a me piacque molto… Altra cosa, la celebratissima copertina di “Sergeant Pepper”, l’album dei Beatles: ci sono Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud, Lewis Carrol, Karlheinz Stockhausen. Uno dei primi manufatti postmoderni, in cui la prospettiva storica è abolita. Mi sono detto: ma allora la poesia non ha a che fare solo con la scuola, con il mandare a memoria le figure retoriche. Può entusiasmare anche un rocker e a caduta i suoi fans. Sono incontri fortunati. Un’altra fortuna è stata che i miei genitori, pur non essendo laureati, avevano in casa una bella biblioteca di poesia, tutta del ‘900, nessun italiano, vecchie edizioni Accademia: lì ho scoperto Anna Achamatova, Vladimir Majakovskji, Sergej Esenin, Attila Josef, Sandor Petöfi… Ho conquistato la letteratura italiana più tardi, quando mi sono iscritto a Lettere. Da ragazzo, non leggevo poesia italiana, un errore marchiano perché non avrei mai scritto in inglese. La lingua italiana è lontanissima dalle strutture inglesi e dalla sensibilità degli anglosassoni: il “No ideas but in things” di William Carlos Williams per noi funziona fino a un certo punto. Per tornare al mio esordio, forse avrei potuto aspettare qualche anno, col senno di poi, non c’era tutta questa urgenza. Però è un libro di cui vado orgoglioso, a riprenderlo a distanza di quasi trent’anni, mi sembra che tenga ancora.

NICOLAPlanimetrie” rivela una maturità notevole, un’attenzione al verso e alla sintassi che indicavano un percorso che si sarebbe sviluppato nel corso degli anni…

GIOVANNI Sì, anche Villalta che firmava la nota conclusiva del ‘98, rilevava una certa consapevolezza compositiva. Nell’ultimo testo, in corpo più piccolo, indicavo tutti i miei numi tutelari. Parlavo di una poesia quasi tattile e le asperità che se ne fossero colte rimandavano alle mie difficoltà di anche solo avvicinare i grandi autori, quasi tutti del Novecento italiano. Quell’esordio, ad ogni modo, mi è molto caro.

NICOLA Come si è sviluppata questa vena?

GIOVANNI Evidentemente, il solco tracciato inizialmente con “Planimetrie” è stato da me passato e ripassato. Nel frattempo mi approcciavo ad altri autori, altre letterature, letture le più disparate, anche la mia visione del mondo è divenuta più complessa: vi dovrebbe essere una qualche corrispondenza tra la visione del mondo e la resa in versi. Versi che, nel mio caso, dal punto di vista lessicale e sintattico sono andati via via complicandosi, o meglio, ho ritenuto che fosse necessario per restituire quello che avevo in animo di dire, quello di cui mi sentivo testimone, lavorare molto a livello retorico insistendo soprattutto sulle figure di ordine sintattico. Ci sono molti iperbati, molte anastrofi, non sono complicazioni inutili, non era questo il senso: era un tentativo di mimesi a più livelli. Ma sostanzialmente, credo, dopo un cimento di otto mesi, per ordinare le poesie di “Peepshow”, che questo volume dimostri i suoi punti di forza in una sostanziale coerenza e coesione di temi e registri. 

NICOLA A fine volume compaiono delle poesie inedite: è una premessa a nuovi versi?

GIOVANNI Le poesie che concludono “Peepshow” sono quasi del tutto inedite, composte tra il 2014 e il 2018 (ma riprese infinite volte nel corso del tempo). Si tratta di 15 testi: non ne sono sicuro, ma forse potrebbero inaugurare un nuovo corso della mia poesia. La sintassi è più piana, mi prendo qualche libertà in più, nel senso che non avverto l’obbligo di riferimenti concreti. Non a caso ho intitolato questa ultima sezione “Il bosco degli spiriti” perché si tratta proprio di parvenze, fantasime, il poco che resta, il nulla se vuoi, un “saor de gnent” per dirla con Luciano Cecchinel. Sono andato via via affisando l’attenzione proprio sugli aspetti più che marginali di un’esistenza, al tal punto marginali da essere quasi impalpabili. Non è però da escludere che sia arrivato a un punto morto. Probabilmente, adesso la direzione obbligata sarà quella di scartare di lato o di tornare sui miei passi. È anche vero, però, che “Il bosco degli spiriti” prende le mosse dall’ultima sezione del libro del 2014, “Con fatica dire fame”. In quell’ultima sezione si accampano di continuo immagini “come” animali, non immagini “di” animali, l’equivoco è facile. Che cosa siano queste immagini, che significato possano avere, perché mi succeda di partorirle, non saprei che dire, potrebbe forse fare al caso James Hillmann, “Il codice dell’anima”, “Le figure del mito”, “Il sogno e il mondo infero”: queste letture mi hanno condizionato, Hillmann con altri. Cerco di mettere assieme i resti, le tracce, mi preme conferire una qualche plausibilità a ciò che scrivo. Mi sono concesso qualche libertà in più, dicevo. Ci sono delle costruzioni a senso, per esempio, delle brachilogie, cioè, detto in parole semplici, salto dei passaggi, scelgo l’ellissi: l’effetto però non è quello del “fulmen in clausula”, piuttosto un tentativo di trascinare sulla pagina alcune accensioni mnestiche o di altro tipo. Anche se più che di ricordi parlerei di sostanze. All’inizio ne ero spiazzato, io per primo, e questo è uno dei motivi per cui le poesie che chiuderanno il volume hanno avuto una gestazione così lunga e complicata. Ho covato questi testi come avrebbe potuto un animale preistorico fare in una grotta al buio. Adesso è giusto che vengano alla luce. 

Giovanni Turra, Peepshow (Samuele Editore 2024)

NICOLA È interessante questo sviluppo, anche perché al centro della tua poesia, a lungo, prevaleva un contesto urbano, addirittura metropolitano: gli spazi chiusi degli appartamenti, i condomini, gli sguardi dalle finestre…

GIOVANNI È stato così per gran parte dei miei testi, perché avvertivo come ineludibile il dovere di definire una poetica che andasse a combaciare con il mio orizzonte vivibile e visibile: il contesto su cui mi affaccio dalla mia ridotta interiore è un orizzonte urbano metropolitano. D’altronde, se diamo un’occhiata alla mia biografia, non poteva essere che così: ho aperto gli occhi sullo sky-line di Mestre e Marghera, non la Marghera di oggi, ma quella degli anni ’70, una città che con l’indotto dava da lavorare a ottantamila persone. Mestre, la città dove abitavo, era la nona città d’Italia, al tempo. Una città che è a mio modo di vedere, un monumento-memento, vivo in ogni sua parte, pulsante, innalzato per ricordarci che cosa è stato un certo Novecento. Motivo forse per cui negli anni dell’università mi sono sentito meno consentaneo con i nostri poeti – procediamo per semplificazioni: Andrea Zanzotto l’ho sempre letto e riletto – che con i poeti di area lombarda, a partire dalla terza, quarta generazione, fino al Maurizio Cucchi degli esordi, al Milo De Angelis di “Biografia sommaria”; ancora, Umberto Fiori, almeno le prime tre raccolte sono state decisive per me, perché trovavo le parole, le immagini, il quotidiano di cui ho fatto esperienza. Questo è stato sicuramente fino ai primi anni 2000, ma anche oltre, fino al 2005/6. Dal 2009/10, intorno ai 35 anni, un numero non neutro, ho sentito che non avevo più bisogno di inscrivermi all’interno di questa zona nell’accezione greca del termine, ho sentito che potevo farne a meno. Ho sentito di godere di una libertà quasi assoluta, il che mi ha fatto un po’ paura, e sono emerse queste immagini come animali, queste situazioni paradossali, spesso oniriche, non ho avvertito più il dovere di rispettare il principio di causa-effetto, di non contraddizione, ho abolito qualsiasi cronologia. Ho sempre ben tornito il verso, ma se andiamo a vedere le ultime poesie ci sono molti versi che eccedono rispetto al metro tradizionale. Se in “Planimetrie” e in “Con fatica dire fame” (taccio le raccolte intermedie) per un totale di ottanta testi circa i versi non regolari si possono contare sulle dite delle mani, in queste ultime, invece, più o meno dal 2014 al 2018, permangono versi regolari ma mi sono arrogato qualche libertà in più, il che ha comportato anche qualche assunzione di responsabilità in più, perché non puoi metterti sempre al riparo della metrica: una buona volta stracciare i margini, correre fuori strada. Ma credo di non esserne capace fino in fondo.

NICOLA Quale metro preferisci?

GIOVANNI Sempre quelli, mi viene abbastanza facile l’endecasillabo e il settenario, anche il novenario accentato di quarta; quello con l’accento di quinta invece, mi viene difficile: e mi dà il nervoso ’sta cosa. E poi mi viene spontaneo in seguito a un novenario inserire un ottonario, oppure dopo un ottonario un settenario, perché è una piccola irriverenza portata all’orecchio interno del lettore. E, forse, attraverso la misura del novenario-ottonario (o ottonario settenario) arieggio molto alla lontana qualcosa del distico elegiaco.

Giovanni Turra

NICOLA Immagino che questa tua sensibilità al ritmo metrico abbia a che fare con la tua esperienza come batterista. So che prediligi il back-beat come Charlie Watts, il batterista degli Stones… [Giovanni Turra suona in una “tribute band” dei Rolling Stones, ndc]

GIOVANNI Non è bello citarsi, ma c’è un verso, “Su natiche seduto di fachiro”, che – ma questo l’ho capito poi – riproduce alcuni esercizi batteristici in cui ti insegnano a mettere l’accento sul primo sedicesimo della battuta o sul terzo sedicesimo, magari raddoppiando i colpi con la sinistra e con la destra: pa-ra-did-dle. “Su natiche seduto di fachiro”: se segui l’arsi e la tesi ne sortisce un ritmo sincopato, appunto. Ma non c’è mai nulla di troppo intellettualizzato: se mi piace all’orecchio, se ritengo che possa funzionare lo lascio. Solo dopo ci ragiono sopra. Mi piacciono anche, per quanto sia rischioso, le parole sdrucciole o addirittura bisdrucciole, ma è indispensabile stare attenti e non scadere nel manierismo. Coloro che hanno scritto sulla mia poesia, hanno sempre messo in primo piano l’attenzione millimetrica alla lingua, la padronanza degli strumenti retorici: sì, però io non sono un neometrico, e se mi riesce di dire una cosa con un endecasillabo a maiore o a minore, ben venga, se ho bisogno di una sillaba in più, a un certo punto, la uso.

NICOLA Chi ti conosce sa il grande amore che porti per la cultura pop, il rock, la musica… Inoltre, conosci le biografie e le vicende di tantissimi cantanti e musicisti, sei un cultore dei Beatles, con te si potrebbe parlare per ore dei percorsi musicali più disparati, dal Kraut ai cantautori italiani. Quello che mi colpisce, però, è che nella tua produzione non c’è nessuna concessione al pop, sono versi che non hanno nulla della facilità che rima con orecchiabilità: la tua resta una poesia rigorosa, presenta costruzioni e immagini ardue, complesse, una sintassi e un lessico ricercati, non si ritrova quella facilità di versificazione che caratterizza la forma canzone; è un distillato di emozioni che richiede attenzione, concentrazione, non lusinghi in alcun modo il lettore. Probabilmente, i due campi, quello che possiamo definire genericamente pop e quello della poesia dialogano ma per vie carsiche, restano due ambiti, apparentemente almeno, separati. 

GIOVANNI La poesia è la sede privilegiata della lingua perché impone un uso al calor bianco del linguaggio, per cui, da sempre mi metto al riparo dal verso facile, orecchiabile, prevedibile (ma, sia chiaro, Saba e Penna sono tra i grandissimi per me); a me piacciono magari le rime interne, far rimare una parola piana con una sdrucciola (Eugenio Montale è maestro). Mi piace dissimulare, non dare a vedere. Questo per esempio mi ha allontanato dalla grande musica italiana, dai grandi autori italiani, da Piero Ciampi, Sergio Endrigo, Francesco De Gregori, che pure stimo tantissimo… Dovevo cautelarmi perché avrei avvertito altrimenti il rischio di scadere negli automatismi. Il testo per musica perdona gli automatismi, in poesia io non posso accettarli. Ci sono però, degli autori che seguo più da vicino: Paolo Conte, per esempio, è straordinario, i suoi testi, anche senza musica, reggono alla grande perché non c’è necessariamente la strizzatina d’occhio, o meglio, d’orecchio all’ascoltatore. Son versi sghembi, molto spesso, che devono essere pronunciati più velocemente o stiracchiati perché non si appoggiano alla melodia. Anche il Lucio Dalla della seconda metà degli anni ’70 apprezzo molto (un Dalla che aveva fatto tesoro della collaborazione con un poeta come Roberto Roversi). Cito gli italiani perché io scrivo in italiano, riguardo invece alla musica anglosassone, il campione in assoluto del testo, del verso direi, ma anche del brano “tout court” sghembo è John Lennon. Penso, da batterista, che Ringo Starr sia diventato matto a trovare la quadratura del cerchio di tanti brani di Lennon, perché Lennon si pone sempre di sghimbescio. Questo mi piace molto. Penso a una canzone come “She said she said” che è irta di poliritmie perché devi seguire il cantato di Lennon: sommi al 4/4 una battuta di ¾ e poi una di 2/4: bisogna essere dei musicisti scaltri e molto sensibili. Quasi quarant’anni di ascolti mi hanno portato anche a lambire il jazz, la musica concreta… Ecco la musica concreta è forse quella che più mi verrebbe da accostare alla mia poesia, la musica concreta dei grandi compositori della seconda metà del Novecento recepita però dagli artisti a cui appiccichiamo l’etichetta pop: penso a Lou Reed con i Velvet Underground quando c’era John Cale: quel tipo di rumorismo lì da cui sarebbe scaturito il genere “noise” oppure tanta musica tedesca degli anni ’70 che del rumorismo e di un certo uso dell’elettronica ha fatto il proprio marchio distintivo. Pensa a una band che nasce in continuità con la grande stagione del Kraut e della musica cosmica tedesca, gli “Einstürzende Neubauten”: usano i martelli pneumatici e le seghe elettriche, oppure, quando li ho visti in una loro performance, percuotevano con i martelli non le “tubular bells” ma il bordo delle reti dei letti sopra i quali, durante la Prima guerra mondiale, giacevano i feriti e i moribondi negli ospedali. Quel tipo di sonorità mi ispira. Sai, un conto è quello che faccio con gli amici con cui suono, un divertimento – serissimo! – per noi e si spera anche per quelli che vengono ai nostri concerti; da ascoltatore invece cerco altro e negli anni mi sono accorto che mi sono allontanato dalla forma canzone. Ultimamente, amo la musica senza percussioni, oppure con percussioni alla Jaki Liebezeit, il batterista dei Can; oppure, un album pazzesco che mi ha molto condizionato è “Flowers of romance”, il terzo album dei PIL: ci sono molte poliritmie, Johnny Lydon canta come un muezzin, uno dei dischi più difficili. Non mi interessa quello che dice, mi interessa come rende plausibile il canto del muezzin su un tappeto di percussioni sovra incise e moltiplicate, con un effetto potentissimo. 

Giovanni Turra, Con fatica dire fame  (La vita è felice 2014)

NICOLA Tornando alla tua produzione in versi, a volte si ha l’impressione che nella tua poesia vi sia uno sguardo a cui manca il corpo, o meglio, dietro quello sguardo, il corpo è come se si fosse disfatto, o in via di disfacimento. Non so, mi vengono in mente i quadri di Francis Bacon. Penso a una delle tue prime poesie, degli occhi che cadono, la testa che si torce innaturalmente. Tutto ciò che coglie lo sguardo passa attraverso una fornace: una combustione lenta che riduce le cose al loro scheletro, le rende trasparenti trasformandole al tempo stesso in qualcosa, di “rich and strange” …

GIOVANNI Se tra i miei autori, come ti ho detto, vi sono i poeti e i prosatori (i cui nomi ho però taciuto), i musicisti, è anche vero che non posso prescindere dall’arte pittorica, meglio, visiva, aggiungendo fotografia e cinema. Bacon, certamente: a pochi verrebbe in mente che tra le mie letture più rinsanguanti ci siano i poeti espressionisti, soprattutto di area tedesca ed est europea, russa in particolare. Tra quelli che mi innervano, c’è Gottfried Benn, Georg Trakl, Attila Jozsef, alcune produzioni di Osip Mandelmstam, quello soprattutto dei “Quaderni di Voronez” e quasi mai i recensori hanno colto che c’è un lascito di queste letture. Anche la torsione del verso proviene da quelle esperienze lì. C’è stata in me la pulsione a caricare, in maniera non troppo esibita, a discostarmi dalla norma. Fino ai trent’anni, la mia è stata una sintassi di ordine marcato: marcare, sottolineare, caricare, cercando sempre però che non mi si spuntasse la matita. E Bacon, sì, fa al caso, ma io tornerei ancora più indietro, l’uomo disarticolato o che va vieppiù disarticolandosi, fino a ridursi nel “Bosco degli spiriti” a traccia, a un’impronta sul tappeto: io credo che parta da certo Futurismo italiano, da Fortunato Depero (a cui ho anche intitolato una poesia). Oppure pensa ancora la fascinazione che hanno in me gli espressionisti come Otto Dix, George Grosz, oppure certe inquadrature à la Friedrick Murnau. In alcune poesie si coglie un punto di vista straniante, deformante: dov’è collocato l’osservatore? Inquadrature appunto improbabili, come nel cinema espressionista.

NICOLA Insomma, ci ritroviamo nel “Gabinetto del dottor Caligari”…

GIOVANNI Sì, ecco, proprio… Insomma, è giusto avere questa visione robusta, stereoscopica approcciando quanto ho scritto in questi anni (ma è un discorso che andrebbe esteso all’intera critica). Mi rendo conto che forse sono poco aggiornato. Molti dei nomi che abbiamo fatto non so quanti dei miei coetanei potrebbero evocarli, non parliamo dei più giovani. Per me è così. Questa è la mia storia. Anche gli studi fatti col dottorato, all’università, evidenziano che mi attrae più la prima metà del ‘900 che non la seconda che pure amo di più, amo per forza di cose perché ci ho vissuto. E però il cinema pioneristico, le avanguardie storiche, per quanto non ci siano tracce evidenti nelle mie poesie, ma appunto un sottotraccia… Prendi la fascinazione del surrealismo, di Marx, di Freud, di Rimbaud: tutto ciò mi emoziona. Poi se scrivo, scrivo in un altro modo, si sente la tradizione italiana. Perché sai che cosa mi ha fatto sempre storcere il naso? Il rischio di coprirsi di ridicolo per eccesso di presunzione… Cosa davvero possiamo innovare, noi che facciamo parte di una tradizione che inizia con Esiodo e Omero? Cosa? Tante sovrastrutture col Gruppo ’63, i Novissimi, mi hanno molto stufato. Eppure piacciono a tanti, la poesia oggi più aggiornata, di cui si discute di più, che ha maggiore attenzione a livello critico, di nuovo prende le mosse da quella stagione lì. Sarà la volta buona che io mi ci confronti sul serio, ma lo farò per senso del dovere. Che cosa invece avverto come obbligatorio, a cui non ci si può sottrarre, da poeta? Che la poesia deve, per forza di cose, deve annettersi fette sempre più ampie di realtà, dire quanto più possibile e per fare ciò deve forzare i limiti. Sereni l’aveva capito benissimo, già con “Il diario di Algeria”, ma anche un poeta ermetico come Luzi, se pensi a “Lungo il Bisenzio”. Quindi da parte mia, mi piace dirmi che sto nel solco della tradizione, ma spero di starci in maniera non pedissequa, di forzarne se occorre i limiti. 

L’occhio mi cadde una mattina 

con orrore. Fissavo – bocca

e naso appesi a un amo –

la disattenzione della gente.

Allora torsi a canapo 

la testa e feci il più: 

che tolsi l’altro pure,

ridicolo, spaiato.

Adesso mi porto col destro

in vece del sinistro, e viceversa.

E siccome sono identici

non è facile distinguerli.

*

giardino zen

Stornare con tatto lo sguardo

e ferocia, laddove

la giovane che vive dirimpetto

in uno svolo sfili,

da sotto gettandolo nel cesto,

l’intimo rosa color carne.

Traccheggiante sul ciglio d’una tazza,

su natiche seduto di fachiro,

considera la scena:

due ginocchia puntute,

in tutto mascoline

a cui solamente ti abbracci.

Essere altrove vorresti,

riposare sull’erba umida,

al mormorio di ghiaia fine

e irrorata

di un giardino zen.

*

V e n t o   c a t t i v o

Al primo sguardo dopo il sonno

e come mosso

da correnti contrarie

eccoti infine giunto al pianterreno.

Dal taglio dei libri si leva

a coltello contro i muri

quel vento cattivo.

Agita pensieri dov’erano

visioni e stanze illuminate.

E per quanto s’aprano

e sbattano i tuoi gomiti

in una pretesa parodia d’ali,

fuori ci trascina

a presumere il mondo.

*

L a   s p e s a

Il futuro è appena più in là,

oltre la data di scadenza

del cartone delle uova

– quel giorno tatuato

in grassetto e nero.

Nessuna cosa nuova nei discount

poté mai avere inizio:

mutare forma la materia,

il latte cagliare,

gettare le patate i propri butti.

E finisce per stremarti

questo venir meno delle idee.

A capo chino sopra la vaschetta

del frigo, e genuflesso,

mentre disponi

nei suoi scomparti la tua spesa,

ecco ti scoppia nel cervello

un lampo senza aloni.

*

A girarla la testa

avresti tuttora visto i due: lei

e l’uomo inginocchiato accanto al letto.

O comunque sul tappeto

le impronte di due paia di ginocchi.

O meno ancora: non una forma del tatto,

nemmeno un’impronta fantasma

in un vero tappeto.

*

A volte, rasentando

i pubblici macelli,

se c’è vento capita

di sentire un urlo.

E pellegrini in sala mensa

all’ora del pasto,

sarebbe bello

confessarsi nei megafoni.

Solo ti accorgi di opporre,

lontano così

dalla notte dei tempi,

significati minimi alle cose.

Sbatti contro le parole,

faccia al muro. Lo fissi

come guardando una montagna, 

un vuoto d’aria.

*

Adesso che è notte

respiri forte con intenzione.

Una centrifuga in azione

con due scarpe dentro.

Inspiri l’odore umido di nebbia

e terra in vaso smossa

come il nero impenetrabile pensare

dei ruminanti in una stalla.

Al sentire l’odore che cerchi

di renderti proprio,

stillano umori le pinne del naso

ansanti come froge.

Immagine di copertina: HG Studios, Mare industriale

  • Nicola De Cilia

    Nicola De Cilia è nato a Treviso nel 1963. Collaboratore de «Lo Straniero» e de «Gli asini», riviste entrambe dirette da Goffredo Fofi, è autore di un’inchiesta su educazione e rugby, Pedagogia della palla ovale (Edizioni dell’asino, 2015) e del romanzo Uno scandalo bianco (Rubbettino, 2016). Ha curato un’antologia dedicata a Giovanni Comisso, Viaggi nell’Italia perduta (Edizioni dell’asino, 2017), e due libri di Nico Naldini, Alfabeto degli amici (L’ancora del mediterraneo, 2004) e Come non ci si difende dai ricordi (Cargo, 2005). Nel 2018, ha pubblicato con Ronzani Editore, a cura di Maria Gregorio, Saturnini, malinconici, un po’ deliranti. Incontri in terra veneta. Nel 2019 è uscito, sempre per Ronzani, Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario, a cura di Maria Gregorio. Nel 2021 ha pubblicato per Digressioni Giovanni Comisso, un invito alla lettura. Una sua postfazione, “Fare i selvaggi”, ha corredato l’edizione di Cribol per La Nave di Teseo (2023).

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  • Giovanni Turra

    Giovanni Turra è nato a Mestre nel 1973. Vive a Mogliano Veneto. Insegna italiano e latino nei licei ed è cultore della materia presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dal 2017 al 2022, con Igor De Marchi, Maddalena Lotter e Sebastiano Gatto, ha diretto la collana «A27 poesia» di per Amos Edizioni. Ha pubblicato i libri di poesia Planimetrie (Book 1998), Condòmini e figure (in Poesia contemporanea. Nono quaderno italiano, Marcos y Marcos 2007), Con fatica dire fame (La Vita Felice 2014). Come studioso, si è occupato di letteratura di viaggio e letterature straniere nella stampa italiana tra le due guerre, della ricezione del mito classico nella poesia italiana recente, della produzione in versi di Dino Buzzati, dell’opera in dialetto e in lingua di Luciano Cecchinel, delle trame reticenti di Francesco Biamonti.

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