RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Stefan Zweig, scrittore umanista e pacifista / Articolo e intervista a Stefan Litt, a cura di Alberto Trentin

[Tempo di Lettura: 14 minuti]
Stefan Zweig, 1900 (Wikimedia Commons)

In esilio da una comunità senza terra

In una lettera del 1938 a Felix Rosenheim, allora giovane poeta, che gli chiedeva consigli come uno che si affaccia al mondo editoriale tende sempre a fare guardando ai maestri, Zweig non cerca di nascondere o edulcorare lo stato delle cose. Non è più possibile per uno scrittore ebreo di lingua tedesca affidare alla letteratura il proprio sostentamento. Chiunque deve cercare fonti ausiliarie di reddito.

«Vi confesso apertamente che, probabilmente, nemmeno i miei libri sarebbero più pubblicati oggi, se non avessi alle spalle trentacinque anni di pubblicazioni, e che, come giovane uomo, non avrei più il coraggio di pensare alla letteratura come fonte di sostentamento». (Stefan Zweig, Lettere sull’ebraismo, a cura di Stefan Litt, trad. it. di Francesco Ferrari, Giuntina, Firenze, 2023, p. 290).

Ed è pur vero che, ancora in quegli anni Stefan Zweig è l’autore di lingua tedesca più letto al mondo. Certo, dopo il 1933, almeno per l’area germanofona, le cose si vanno complicando, per motivi politici e per il crescere del tono antisemita, che porteranno i suoi libri ad essere bruciati e lui a non essere più uno scrittore gradito. Ma ancora nel resto del mondo Zweig è un autore tradotto e letto, quando non addirittura osannato, come accade nelle varie trasferte oltreoceano verso le Americhe, fino al definitivo autoesilio.  

Il successo di Zweig, nato a Vienna nel 1881, parte da lontano e ha varie motivazioni. Da un lato, infatti, c’è una forte e costante attività di narratore, quasi esclusivamente come novellista; dall’altra, c’è una produzione varia e intensa di quelle che potremmo definire, al massimo della genericità, biografie di personaggi illustri del passato; dall’altra ancora, infine, c’è l’abitudine e l’attitudine alla costruzione di una fitta trama di relazioni internazionali, veicolata vieppiù attraverso lettere, che lo misero in contatto con altri scrittori, con editori, con intellettuali di varia estrazione e ambito, con traduttori e studiosi, creando quindi il terreno perfetto perché quella che era certo una produzione valida e complessa, avesse anche molteplici luoghi di sfogo. Le stesse opere intercettavano destinatari diversi, pur tutti racchiusi nel ceto borghese, se è vero che le novelle interessarono prevalentemente un pubblico femminile interessato sia all’intreccio, spesso passionale, sia all’approfondimento psicologico dei personaggi in azione. Lo stesso lavoro di scavo che si riscontra nelle biografie, dove a rifulgere è sia la piacevolezza dello stile, sia la capacità di Zweig di utilizzare vite e dinamiche culturali ed esistenziali per ragionare su quanto andava via via caratterizzando la contemporaneità.

Furono dunque, queste biografie, i testi di Zweig che incontrarono il favore di un pubblico vario, incuriosito dalle storie di vite che non erano la loro, e che, va detto, venivano ideate e scritte da Zweig senza un preciso piano d’azione preventivo, ma quasi improvvise, frutto di un approdo temporaneo e sicuro di un intelletto abituato a viaggiare in piena libertà. Ed è, la libertà, ciò che sta alla base dell’ideale politico e culturale di Stefan Zweig e che è consustanziale, nella sua immagine del mondo, al pacifismo e al cosmopolitismo; sono tutti elementi che sono penetrati nelle più profonde fibre di Zweig fin da bambino, perché cresciuto in un ambiente – la Felix Austria asburgica – e in un periodo – che nelle sue memorie, pubblicate col titolo Il mondo di ieri, definirà “epoca della sicurezza” – in cui tutto questo era se non scontato, certo diffuso: «Questa città assimilatrice e dotata di una particolare sensibilità attirava a sé le forze più disparate, pacificandole ed ammorbidendole: era dolce vivere in quell’atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino, senza averne coscienza, veniva educato ad essere supernazionale e cosmopolita». (Trad. di Lavinia Mazzucchetti).

Stefan Zweig, Lettera a Rosenkranz, Salisburgo 1921, prima pagina (Archivio della National Library of Israel)

Che si tratti dei racconti, più o meno lunghi, delle lettere, delle biografie, o degli altri scritti, pare di poter dire che il comune denominatore sia rintracciabile nella medesima Stimmung, in quella disposizione d’animo prima e di parole poi, caratteristica di Zweig, che va sotto il nome di Umanesimo

Nel 1934, a un anno di distanza dalla elezione di Hitler a Cancelliere e dal rogo dei libri, Zweig abbandona la propria casa e le proprie cose per andare a rifugiarsi a Londra. L’esilio è traumatico ed era stato paventato da Zweig già sul finire del 1933, al momento di vendere la casa di Salisburgo, soprattutto per ciò che esso avrebbe comportato a riguardo delle sue carte personali e dei suoi archivi. La decisione finale fu quella di donare gran parte del materiale alla Biblioteca nazionale ebraica di Gerusalemme, allora ancora in fase di sviluppo, perché lo custodissero e difendessero:

«Ho fatto una selezione di ciò che è veramente importante e, a parte alcuni letterati minori, essa comprende praticamente tutto l’essenziale della nostra epoca: Hauptmann, Rolland (molte centinaia di lettere), Verhaeren, Einstein, Dehmel, Freud, Maeterlinck, Herzl, Valéry, Rathenau, Richard Strauss, Joyce, Gorki, Thomas Mann ecc. Vorrei donare tutto questo alla Biblioteca di Gerusalemme. A condizione che nessuno lo prenda in visione entro dieci anni dalla mia morte, che il tutto rimanga sotto sigillo, e che io possa avere una singola corrispondenza in copia in qualsiasi momento ne abbia bisogno. Che nessuno lo sappia adesso. […] Senza alcuna esagerazione: credo che rappresenti una delle corrispondenze più interessanti di questo tempo, e sarebbe un possedimento essenziale per la Vostra, per la nostra biblioteca (Lettera Alla Biblioteca nazionale ebraica universitaria di Gerusalemme – Hugo Bergmann – dell’11 Dicembre 1933; si veda Stefan Zweig, Lettere sull’ebraismo, cit., pp. 208-209).

A Londra può lavorare con tranquillità, dedicandosi ai vari progetti che via via gli occupano la mente. Uno, in particolare, merita qui attenzione. Si tratta della biografia dell’umanista Erasmo da Rotterdam, a cui aveva dato inizio a metà del 1933, a Salisburgo. L’operazione è particolarmente importante perché nel filosofo Zweig vede chiaramente un proprio doppio; all’amico Alfredo Cahn dice che Erasmo «fu apostolo dell’umanità, neutralità del rango più elevato, e fu sconfitto dal suo tempo proprio come noi lo siamo dal nostro». Come Erasmo, anche Zweig crede che sia giusto, nell’infuocato presente, funestato dalla violenza, dedicarsi alla propria missione culturale e mantenersi equidistante dalle fazioni in lotta. La pace, diceva Erasmo, non è l’assenza di guerra, non si definisce per via negativa, ma è virtù dell’animo umano, affermazione preventiva, originario, positiva. A questo fa eco Zweig. Scrivendo a Richard Strauss, col quale aveva iniziato la collaborazione che avrebbe portato alla scrittura del libretto per l’opera Die schweigsame Frau, Zweig non potrebbe essere più esplicito: «La mia esistenza qui [scil. a Londra] procede tranquillamente, lavoro nella Biblioteca al mio libro su Maria Stuart; alla fine – nonostante i più aspri tentativi di coinvolgermi a viva forza – sono pienamente riuscito a rimanere completamente al di fuori di tutte le discussioni pubbliche e di ogni discussione politica. Un libricino su Erasmo da Rotterdam Le perverrà tra poco, è l’elogio pacato all’uomo antifanatico per il quale la creazione artistica e la pace interiore sono la cosa più importante sulla Terra – in questo modo ho messo con un simbolo un sigillo al mio rapporto con la vita. ». (Lettera del 17 Maggio 1934; Richard Strauss, Stefan Zweig, Vuole essere il mio Shakespeare? Lettere 1931-1936, A cura di Roberto Di Vanni, Archinto, Milano, 2009, p. 79).

Londra è dunque luogo di invenzione e lavoro privilegiato.

Stefan Zweig, Lettera a Rosenkranz, Salisburgo 1921, seconda pagina (Archivio della National Library of Israel)

In una lettera datata 4 Febbraio 1937 (Ibid., pp.  273-276, passim), Zweig risponde all’aspirante rabbino e giovane studioso Alfred Wolf, intenzionato a scrivere un saggio su Stefan Zweig e l’ebraismo. Zweig, enumerando i testi in cui ha affrontato, sempre da un punto di vista letterario, l’argomento, riassume il contenuto di quella che egli definisce una grande opera del tutto nuova: sta parlando dell’opera Der begrabene Leuchter (Il candelabro sepolto), una riscrittura narrativa di un’antica leggenda che riguarda il candelabro ebraico a sette bracci, la menorah, dal tempo del sacco di Roma da parte dei Vandali nel 544 d.C., alla sepoltura dell’oggetto in Palestina ottanta anni dopo.

È un testo dalla forte simbologia, che evoca insieme un percorso spirituale e una trasformazione iniziatica. Inoltre, è una rappresentazione di quel carattere che per Zweig è intrinseco all’ebraismo, e di cui egli ebbe consapevolezza già fin dagli anni passati a servire la patria come soldato: «[…] io non ho mai voluto che l’ebraismo diventi di nuovo nazione, e si abbassi, con ciò, alla concorrenza delle realtà. Io amo la diaspora, e la approvo come il senso del suo idealismo, come la sua vocazione cosmopolita pienamente umana. E non vorrei altra unificazione che nello spirito, nel nostro solo elemento reale, giammai in una lingua, in un popolo, in usi e costumi, in queste sintesi tanto belle quanto pericolose. Trovo la condizione presente la più grandiosa dell’umanità: questo essere una cosa sola, senza lingua, senza vincoli, senza Heimat, solo attraverso il fluido dell’essenza. Ogni raggruppamento più stretto, ogni raggruppamento più reale mi sembra una diminuzione di questa condizione incomparabile. E la sola cosa in cui noi dobbiamo rafforzarci sarebbe sentire questa condizione non come un abbassamento, bensì con amore e consapevolezza, come faccio io». (Lettera a Martin Buber del 24 Gennaio 1917; Ibid., p. 55)

Una posizione che, una volta emersa e resasi cristallina nella sua coscienza, Zweig non abbandonerà più, come testimoniato a più riprese in questo epistolario: «Dopo aver solcato il mondo per duemila anni con il nostro sangue e le nostre idee, non possiamo nuovamente limitarci, per diventare una nazioncina in un cantuccio arabo. Il nostro spirito è spirito del mondo – per questo siamo diventati quello che siamo, e se ne dobbiamo soffrire, questo è il nostro destino. Non aiuta essere orgogliosi o vergognarsi dell’ebraismo – bisogna riconoscerlo per quello che è e viverlo così, come il nostro destino, ovvero senza Heimat nel senso più alto. Per questo credo che non sia una coincidenza che io sia un internazionalista o un pacifista – dovrei rinnegare me stesso e il mio sangue se non lo fossi!». (Lettera a Marek Scherlag del 22 Luglio 1920, Ibid., pp. 113-114)

Grazie proprio alla leggenda del candelabro sepolto, possiamo connettere l’umanesimo pacifista e cosmopolita a cui Zweig guarda, anche con incrollata nostalgia, al significato che lui riconosce all’ebraismo: l’essere ebreo si misura, è il caso di dire, nella distanza che ciascuno è destinato a percorrere nell’erranza di una inevitabile diaspora, che assume i caratteri inevitabili di una lunga ed esiziale tragedia: «Noi dobbiamo amare il nostro destino con amor fati e non cercare mai di eliminarlo dalla discussione. Anche l’antisemitismo, anche l’odio, anche l’autodistruzione sono parti del nostro destino, vecchi di millenni. Se li liquidassimo, non saremmo più noi stessi. Noi siamo tanto attraverso il nostro destino storico, che è sempre di nuovo problematico, quanto attraverso il nostro sangue. Non si tratta, allora, di cercare una via d’uscita, ma di avere il coraggio di restare nel destino. Se essere ebreo è una tragedia, così vogliamo viverla: essa sta al cospetto del mondo come la massima tragedia del grande poeta Dio, e io non mi vergogno di essere il suo attore, il suo interprete occasionale».

Di fronte a queste parole così cariche di compassione d’uomo per gli uomini, così lucide e prive di retoriche, non sarà difficile riconsiderare con occhio mite e privo dell’ansia del giudizio, l’atto terribile di Zweig (compiuto insieme alla seconda moglie, Lotte Altmann), la sua personalissima soluzione finale che prese forma prima nel pensiero e poi nella realtà, nella notte tra il 22 e il 23 Febbraio del 1942, nella casa di Petrópolis, in Brasile.

Intervista a Stefan Litt

Curatore del volume Stefan Zweig, Lettere sull’ebraismo, Giuntina, Firenze, 2023

ALBERTO Come nasce il suo interesse per Stefan Zweig?

STEFAN Quando ero adolescente e iniziai a leggere libri più seri, mio fratello mi diede un libro di Zweig. Era “Joseph Fouche” (Stefan Zweig, “Fouché: ritratto di un uomo politico”, trad. it. di Lavinia Mazzucchetti, Castelvecchi, Roma, 2013 – ed. or. come “Fouché: il genio tenebroso”, Mondadori, Milano, 1930) e non riuscii a smettere di leggerlo. Fu da allora che mi interessai profondamente alla storia, quindi questo libro ebbe un enorme impatto su di me. Qualche tempo dopo, lessi “Il mondo di ieri” (Stefan Zweig, “Il mondo di ieri: ricordi di un europeo,” trad. di Lorena Paladino, Garzanti, Milano 2014 – ed. or. con trad. it. di Giorgio Picconi, De Carlo, Roma, 1945), e ne rimasi altrettanto affascinato. Dopo molti anni, iniziai il mio lavoro di archivista per le collezioni in lingua tedesca presso la “National Library of Israel”. Era il 2011. Uno degli archivi di cui ero (e sono tuttora) responsabile era quello di Stefan Zweig. Studiai il materiale – si trattava principalmente di lettere che lui aveva ricevuto o inviato ad altri – e rimasi colpito dalla profondità della sua conoscenza dell’animo umano e dalla sua dedizione agli ideali di pace, bellezza, dialogo, amicizia e umanesimo. Lessi nuovamente per la prima volta le sue opere e venni sopraffatto dal suo professionismo letterario. Allo stesso tempo – dato che i diritti per la pubblicazione delle sue opere erano scaduti nel 2013 – i suoi lavori furono ritradotti o tradotti per la prima volta in ebraico e da allora essi sono spesso nella lista dei libri più venduti in Israele, più di ottant’anni dopo la sua prematura scomparsa. Rimasi colpito da questo evento e sentivo che era in corso un intenso dibattito pubblico attorno a Zweig, alla sua letteratura, ai suoi principi, che riguardava anche il suo essere ebreo e la sua concezione del Sionismo.

Stefan Zweig, Lettere sull’ebraismo, Giuntina 2023.

ALBERTO Nella sua prefazione lei fa riferimento al numero smisurato di lettere e cartoline scritte da Zweig, un numero non definitivo, che non sono ancora state pubblicate interamente. Per questa raccolta lei ha deciso di concentrarsi su un tema specifico, cioè quelle lettere che hanno a che fare più o meno diffusamente col tema dell’ebraismo. Può dirci come è nata questa idea, quali erano le motivazioni profonde e i risultati attesi?

STEFAN Nel 2016 fui contattato da un’anziana donna che viveva a Bat Yam, qui in Israele, che diceva di possedere circa trenta cartoline e lettere originali di Zweig. Voleva donarle alla biblioteca. Le lettere erano state spedite ad Hans Rosenkranz, il suo ex patrigno. Zweig e Rosenkranz erano rimasti in contatto tra il 1921 e il 1932. Era stato Rosenkranz ad iniziare la corrispondenza inviando a Zweig alcune poesie o brevi testi letterari. Questo era certamente qualcosa che accadeva molto spesso a Zweig come ad altri scrittori. Quello che rende questo caso speciale è il fatto che Zweig ha pensato che valesse la pena rispondere al giovane, che aveva circa sedici anni. Lo fece in una lunga lettera scritta a mano, nella quale inoltre rispose alle idee sioniste di Rosenkranz. Zweig spiegò piuttosto apertamente il suo atteggiamento di distacco dal movimento nazionale ebraico. Lo ripeté nelle due lettere che seguirono dove chiaramente espresse sia il suo convincimento circa il ruolo degli ebrei nelle società umane, sia le ragioni per cui non potesse seguire Theodor Herzl nel suo programma politico, benché avesse un profondo e personale legame con Herzl in quanto autore. Ero più che meravigliato dalla franchezza dimostrata da Zweig in queste tre lettere tra il 1921 e il 1922: aveva scritto tutto questo a un adolescente mai incontrato prima! Mi sono chiesto: se questo è quanto ha scritto a un giovane, cosa aveva detto su ebraismo, sionismo e altri argomenti correlati ai suoi veri amici?

Quindi, ho iniziato a leggere, per prima cosa le edizioni a stampa delle lettere di Zweig, in cerca di altri riferimenti a simili argomenti. Ho trovato qualcosa, ma non molto. Cosa che poteva significare o che in effetti non c’era alcun riferimento in merito, nelle lettere, oppure che era stato evitato dagli editori di quelle raccolte. Quando ho allargato la ricerca ai fondi d’archivio – a Gerusalemme e poi in altri archivi e biblioteche – ho trovato di più. A un certo punto mi sono reso conto che curare una raccolta di lettere importanti e ricche in merito a questo argomento, avrebbe comportato un utile strumento per rispondere alla questione di quanto Zweig fosse realmente “ebreo”. Era una questione già dibattuta, ma solamente sulla base delle sue opere. Siccome la corrispondenza è il modo migliore per preservare il dialogo – le lettere sono la fonte perfetta per gettare più luce su Zweig in quanto ebreo e sulla sua comprensione del complesso ebraico di identità, credenze, legami, idee nazionali e così via. Dopo aver scoperto più di cento lettere rilevanti, mi sono convinto che potessero essere la base di un libro che fosse non soltanto per specialisti e ricercatori, ma anche per i laici della letteratura, lettori che possono trovare godimento nell’approfondire i concetti e le idee di un autore ancora così importante.

Stefan Zweig, Lettera a Rosenkranz, 15 ottobre 1925, prima pagina (Archivio della National Library of Israel)

ALBERTO Nel libro è proposta una suddivisione temporale in tre fasi; al culmine della prima abbiamo la concomitante scrittura e rappresentazione del dramma Jeremias, nel quale Zweig opera una resa dei conti con il problema ebraico. È in questo periodo che Zweig matura definitivamente l’idea del cosmopolitismo come natura propria del popolo ebraico, che dunque non dovrebbe ridursi a espressione nazionale?

STEFAN Potrebbe essere esatto. Penso che sia diventato cosmopolita prima dell’inizio della Prima Guerra Mondiale e che abbia capito cosa questo significasse per lui dopo che il precedente sistema di frontiere aperte collassò nel 1914. Dalle lettere che Zweig iniziò a spedire dal 1916, circa, possiamo vedere chiaramente che la sua concezione del ruolo cosmopolita degli ebrei, unificato da legami spirituali, si era già formata, in contrasto con la stupida isteria nazionalistica emersa durante la guerra in molti stati dell’Europa. Il timore di Zweig era che questo modello di nazionalismo avrebbe presto o tardi influenzato il movimento nazionale ebraico. Zweig ebbe un confronto intenso su questa materia con Martin Buber, che era un forte sostenitore del sionismo culturale.

ALBERTO Nel suo ultimo libro, quella preziosa autobiografia intellettuale ed esistenziale, che è “Il Mondo di ieri” (tit. or. Die Welt von Gestern: Erinnerungen eines Europäers), Zweig dipinge l’epoca dell’Austria imperiale come un’epoca d’oro, e la definisce l’epoca della sicurezza. Lo sguardo è nostalgico, il passato appare perduto per sempre. Eppure, quell’epoca, quell’Impero e quella sua capitale, Vienna, furono anche il nocciolo dell’antisemitismo, e anche l’ambiente in cui Hitler stesso poté formarsi. Stando al materiale di questo libro, vive Zweig questa contraddizione? Mi pare si possa rilevare traccia di questo nelle lettere, soprattutto quelle attorno alla Prima Guerra Mondiale.

STEFAN Concordo col fatto che Zweig fosse avvertito di questo complesso “mélange”, ma per qualche ragione non ne riferisce troppo nella sua autobiografia. D’altro canto, vide le feroci accuse antisemite durante la guerra e temeva che si sarebbero inasprite dopo la sconfitta – una via semplice per trovare un responsabile del disastro militare, seguito dal collasso politico dell’Impero. Qua e là si riscontra come Zweig parlasse apertamente di questa materia solo con persone delle quali poteva fidarsi. In qualche modo seguiva il modo di comportarsi con cautela di molti Ebrei in quegli anni. Non c’è da stupirsi dunque se anche quasi tutti i corrispondenti con i quali discute di queste faccende fossero Ebrei.

Stefan Zweig, Lettera a Rosenkranz, 15 ottobre 1925, seconda pagina (Archivio della National Library of Israel)

ALBERTO Nella seconda parte, molte lettere sono riferite al progetto di Zweig e della casa editrice Insler di creare una Bibliotheca Mundi, con opere della letteratura universale in lingua originale. Come collegare questa idea, che costò fatica a Zweig dal punto di vista dell’attività di coordinatore, con quanto egli reputa fondamentale dello spirito ebraico? Non è forse, questa diffusione della letteratura, il medesimo compito universalista volto nelle dinamiche letterarie, culturali?

STEFAN Assolutamente! L’impresa di stabilire un canone letterario internazionale come reazione alla spaccatura culturale avvenuta tra il 1914 e il 1918 dev’essere stata per Zweig un’occasione di realizzare la sua visione di creazioni culturali condivise. Il fatto che egli abbia incluso l’antologia della poesia classica ebraica mostra che la sua intenzione era di creare esattamente simile legame cosmopolita a un alto livello culturale. Zweig era molto entusiasta di questa possibilità negli anni Venti, e vide chiaramente e supportò il risveglio culturale degli autori ebrei in quegli anni.

ALBERTO Zweig è stato criticato (per esempio da Hannah Arendt) per la sua tendenza a rimanere appartato, a non impegnarsi direttamente in ambiti che non fossero quelli culturali; dalle lettere emerge che anche entro l’ambito culturale e letterario, la volontà di Zweig era quella di schivare ciò che avrebbe portato a troppa notorietà, a causa delle pressioni e delle richieste di rappresentanza che essa avrebbe significato (come capitava, ad esempio, a Thomas Mann e Gerhart Hauptmann). Che giudizio trae lei di questo apparente scarso attivismo?

STEFAN Penso che il periodo a metà degli anni Trenta dia testimonianza di uno Zweig diverso e la consueta definizione della sua riluttanza non è corretta per gli anni tra il 1933 e il 1936. Tenne un discorso a Londra a sostegno delle donne e dei bambini ebrei in Germania, in un paio di occasioni cercò di mettere assieme gli intellettuali ebrei per un manifesto congiunto, e cercò di fondare una rivista di intellettuali ebrei in esilio. Tuttavia, fallì gli ultimi due obiettivi, per varie ragioni. Penso non fosse chiaramente il tipo d’uomo che si espone apertamente per un’idea e gli mancava il carisma necessario per essere una figura guida in iniziative pubbliche. Era sufficientemente realista da capire che dopo tutto lui era “solo” uno scrittore. Era una posizione ammirevole, considerate anche le affermazioni pubbliche di artisti e intellettuali che spesso mostrano una profonda mancanza di comprensione in campi dei quali sono felici di dire la propria. A questo si aggiunga che Zweig aiutava in segreto i rifugiati, cosa che non finiva in prima pagina allora, come nemmeno accade oggi.

Stefan Zweig, 1917 (Wikimedia Commons)

ALBERTO Fra i lavori di Zweig, sono famose le sue biografie di personaggi illustri. Soprattutto nel periodo dopo l’ascesa di Hitler, possiamo dire che questi lavori avevano anche un ruolo politico, e cioè il tentativo di mostrare, attraverso quegli esempi, come l’intellettuale (e non solo) possa e debba comportarsi in un ambiente malato di fanatismo e violenza?

STEFAN Questo è parzialmente corretto. In particolare vorrei menzionare la biografia di Erasmo da Rotterdam (Stefan Zweig, “Erasmo da Rotterdam”, trad. it. di Lavinia Mazzucchetti, Castelvecchi, Roma, 2015 – ed. or. Mondadori, Milano, 1935) e il libro “Castellio gegen Calvin”( Stefan Zweig, “Castellio contro Calvino. Una coscienza contro la forza”, trad. it. di Franca Parini, Castelvecchi, Roma, 2015 – ed. or. “Castellio contro Calvino, ovvero una coscienza contro la forza”, trad. it. di Albina Calenda, Mario Fiorentino, 1945). Entrambi furono importanti per il tentativo di Zweig di descrivere le complicate sfide per gli intellettuali in tempi di fanatismo e odio. D’altro canto, questi due libri non furono probabilmente quelli di maggior successo, a confronto con quelli su Maria Stuart (Stefan Zweig, “Maria Stuarda: la rivale di Elisabetta I”, trad. it. di Lorenza Pampaloni, Castelvecchi, Roma, 2015 – ed. or. “Maria Stuarda”, trad. it. di Lavinia Mazzocchetti, Mondadori, Milano, 1935) o Magellano (Stefan Zweig, “Magellano”, trad. it. di Nicoletta Giacon, Garzanti, Milano 2020 – ed. or. con trad. it. di Lavinia Mazzocchetti, Mondadori, Milano, 1938), che scrisse all’incirca nello stesso periodo.

ALBERTO Nel periodo tra le due guerre, Zweig è stato probabilmente l’autore di lingua tedesca più letto. Tuttora viene stampato e letto. Può dirci cosa, secondo lei, maggiormente ha da dire al pubblico contemporaneo?

STEFAN Penso che sia la qualità degli scritti storici e in prosa di Zweig a renderli immortali. È il profondo spirito di umanesimo e pacifismo che lo ha sempre guidato, e credo che molti dei lettori contemporanei lo desiderino. Dovremmo tenere a mente che egli scrisse molte delle sue creazioni in tempi davvero complicati. Come vediamo attorno a noi, circostanze simili potrebbero oggi frustrarci e tenerci lontani dalla creazione artistica. Pur con tutte le sfide personali per affrontare gli ostacoli del suo tempo, Zweig non ha mai smesso di scrivere grande e immortale letteratura.

Immagine di copertina: Pace, HG Studios

  • Alberto Trentin

    Alberto Trentin (Treviso, 1979) ha un dottorato in filosofia, ha pubblicato La voce dei padri (2010), Quinteria (2015), L’estremo rimedio (2016), Vuoti d’ossa (2017), Gli attimi attigui (2022). Sue poesie sono uscite sulle riviste – «Soglie», «NeMla», «Gradiva», «Italian Poetry Review», «Versante Ripido» – e antologie. Collabora con la Casa Editrice Digressioni, per cui cura la collana Àncora, dedicata a scrittori italiani del Novecento. Ha scritto su Pound, Cattafi, Buzzati, Chiara. Tiene da anni corsi di scrittura narrativa e creativa e nel 2021 ha fondato con lo scrittore Paolo Malaguti la scuola di scrittura Alba Pratalia. Collabora con MinimaetMoralia, Finnegans.

  • Stefan Litt

    Stefan Litt ha studiato Storia generale e Studi ebraici alla Freie Universität di Berlino e Hebrew University of Jerusalem in Israele. Si è laureato – MA – presso la Freie Universität nel 1995 e ha conseguito il dottorato di ricerca – PhD – presso la Hebrew University of Jerusalem. Nel 2008, Stefan ha seguito il processo di abilitazione presso l’University of Graz in Austria, dove ha studiato gli ebrei olandesi nel XVIII secolo. Ha lavorato a diversi progetti in diversi archivi prima della sua nomina nel 2010 a supervisionare il patrimonio linguistico europeo nel Dipartimento degli archivi presso la National Library of Israel a Gerusalemme. Sempre presso la National Library of Israel, dal 2018, è anche curatore della Collezione di discipline umanistiche. Stefan ha pubblicato diversi studi sugli ebrei dell’Europa centrale nella prima età moderna, tra cui Juden in Thüringen in der Frühen Neuzeit (1520–1650) – Colonia/Weimar, 2003 – e Pinkas, Kahal, and the Mediene: The Records of Dutch Ashkenazi Communities in the Eighteenth Century as Historical Sources (Boston / Leiden, 2009) – Boston / Leiden, 2009. Recentemente ha curato una selezione delle lettere di Stefan Zweig sull’ebraismo dal titolo Briefe zum Judentum (Berlino, 2020).