Rileggendo il best-seller di Mario Pesce e Corrado Augias, mi è tornato in mente Werner Karl Heisenberg. Com’è noto, nell’ambito della meccanica quantistica introdusse il cosiddetto principio di indeterminazione secondo il quale è impossibile determinare contemporaneamente la posizione e la quantità di moto di una particella elementare, giacché gli strumenti di misurazione utilizzati influiscono sull’oggetto dell’indagine. Un terremoto per la fisica classica. “Nell’ambito della realtà e cui condizioni sono determinate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono quindi a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere […] è piuttosto rimesso al gioco del caso”1. Meno noto, mi pare, è che il principio d’indeterminazione venne formulato per la prima volta tra il primo e il secondo secolo della nostra era nell’evangelo secondo Giovanni.
Che cosa siano i vangeli è nel frattempo diventato incerto. Nonostante vengano letti ormai da millenni nell’ambito della liturgia e per l’edificazione privata, pare che sia sempre più difficile definire che cosa accada in queste circostanze. Che cosa abbiamo in mano quando leggiamo una pagina di Matteo, di Marco, di Luca o Giovanni? Forse dei racconti storici della vita di Gesù di Nazareth, oppure delle proclamazioni kerygmatiche della fede in Cristo? Si tratta di resoconti di riti di iniziazione del neofita nella comunità escatologica o di ricordi dell’insegnamento del Maestro? Quale che sia la risposta data in linea di principio, di fatto non c’è studioso della storia del primo cristianesimo che non assuma i vangeli (quelli canonici come, ormai con sempre maggior interesse, quelli apocrifi) come fonti storiche, sia pure sub judice, della vita storica dell’uomo storico Gesù.
Mi scuso per l’effetto cacofonico della ripetizione, ma qui la parola “storia” ha una sua importanza. Nonostante gli evangelisti, o chi per essi, manifestamente non volessero raccontare una storia, almeno non nel senso corrente del termine, ma, appunto, proclamare un evangelo2, le loro opere devono pur contenere delle testimonianze storiche (naturalmente, lo ripeto, sub judice, poiché compete solo allo storico di stabilire che cosa sia storico nei vangeli e che cosa non), altrimenti al valente studioso rimarrebbero poche cartucce nella lotta contro il dogmatismo ecclesiale. Perché, nel caso non lo si fosse notato, la posta in gioco è alta: a guidare gli studi storici sul primo cristianesimo vi è un’evidente avversione contro ogni ortodossia ecclesiale. Ricordo che già Albert Schweitzer, che pure va posto su un ben altro livello rispetto ai suoi epigoni, considerava la ricerca sul Gesù storico come l’opera più alta della cultura tedesca degli ultimi secoli:
La teologia tedesca apparirà come evento massimo e unico nella vita spirituale del nostro tempo quando la nostra cultura starà di fronte al futuro come una realtà compiuta. Nell’animo tedesco soltanto s’incontrano una compresenza e un intreccio così vivi di pensiero filosofico, sensibilità critica, concezione storica e sentire religioso senza i quali nessuna profonda teologia è possibile. La ricerca sulla vita di Gesù è l’opera suprema della teologia tedesca. Le sue creazioni sono fondamentali e vincolanti per il pensiero religioso del futuro3.
Tale ricerca, dalla quale Schweitzer si aspettava niente meno che un rinnovamento spirituale della cristianità, una liberazione dal vecchio dogmatismo, presuppone che i vangeli siano fonti storiche attendibili. Lo aveva già confessato candidamente Adolf von Harnack (il quale come Schweitzer sapeva che “a lode della nostra epoca va detto che essa è seriamente impegnata dal problema circa l’essenza ed il valore del cristianesimo”4): “Le nostre fonti per il messaggio di Gesù, eccettuate alcune importanti notizie in Paolo, sono i primi tre vangeli”5.
Ancora immune dalla successiva infatuazione per i vangeli apocrifi, già la seconda ricerca storica su Gesù assumeva che i vangeli cosiddetti sinottici siano nel complesso fonti storiche affidabili. Marco, Matteo e Luca, pur redatti cinquant’anni dopo gli eventi narrati, avrebbero solo le nostre fonti per i detti e i fatti relativi a Gesù.
Più complessa la valutazione del quarto vangelo, attribuito dalla tradizione a Giovanni. A dire il vero, almeno dagli studi di Charles H. Dodd sulla Historical Tradition in the Fourth Gospel (1963), è diventato difficile non riconoscere che in esso vi siano anche delle tradizioni storiche attendibili e indipendenti da quelle presenti nei sinottici. Vi sono nomi (come ad esempio quello di Nicodemo) e indicazioni topografiche troppo precise per essere inventate.
Qualche scheggia di tradizione storica si è dunque conficcata anche nella dura scorza giovannea. Ciò nonostante la vis teologica del quarto evangelista produce un effetto fastidiosamente allergico negli storici di ieri e di oggi, che contro voglia e solo quando non ne possono fare a meno attingono dalla sua opera. Come si può perdonare a Giovanni di aver iniziato con quelle terribili parole: “All’inizio era il logos, il logos era con Dio, e il logos era Dio” (Gv. 1,1), che sembrano scritte a posta per sfidare gli storici? Come si può perdonargli di aver attribuito a Tommaso una confessione di fede storicamente inverosimile, quasi provocatoria: “Signor mio e mio Dio” (Gv 20, 28), come se ci trovassimo al concilio di Nicea? Come si possono leggere seriamente tutti quei discorsi teologici attribuiti da Giovanni a Gesù?
Non c’è dubbio: “per Marco, Gesù era un uomo”; per Giovanni, “Gesù era la parola di Dio fatta carne”6. In questo scostamento si gioca tutta la differenza tra storia e teologia. Nell’arco di tempo che va dal primo al quarto vangelo, la teologia (madre di ogni dogmatismo!) avrebbe irrimediabilmente fatto irruzione nel canone neotestamentario. Ne segue (ma forse, più che di una conseguenza, si tratta di un presupposto) che Marco, più vicino di Giovanni agli avvenimenti trattati, è storicamente più affidabile per i ricercatori della verità (storica) – mentre Giovanni è lasciato alle elucubrazioni dei teologi.
Questa, più o meno, la communis opinio della ricerca storica. Ma forse la contrapposizione tra storia e fede è una proiezione retrospettiva di un’epoca che ha scoperto il principio d’indeterminazione nell’ambito delle particelle elementari, ma lo ha perso in quello spirituale. Se vogliamo, tutto il quarto evangelo è una testimonianza contro questo smarrimento.
Ad esempio, reagendo alla dichiarazione che solo credendo in lui, il Cristo, quale inviato del Padre e pane della vita eterna si può ottenere la resurrezione nell’ultimo giorno, alcuni giudei di Capernaum obiettano: “Non è costui Gesù, il figlio di Giuseppe, del quale conosciamo il padre e la madre? Come mai ora dice: ‘Io sono disceso dal cielo?’” (Gv. 6, 41). Obtorto collo, gli storici rinvengono in questo passo una fonte attendibile e tutto sommato preziosa. In effetti Gesù era davvero figlio di Giuseppe e di Maria! La nascita verginale, ignorata anche da Paolo (il quale per una volta viene elevato al rango di fonte affidabile, nonostante il suo antistorico e rabbioso evangelo della croce), è evidentemente una tradizione seriore. In questo caso, la testimonianza giovannea prevale contro quella di Matteo e di Luca, chiaramente sviati da motivazioni teologiche.
Eppure si dovrebbe notare che, nel contesto giovanneo, la dichiarazione di Capernaum è il segno dell’incredulità dei suoi contemporanei. Più che fornire dettagli storici, Giovanni intende denunciare l’incredulità del mondo, o per lo meno dei giudei, non dissimile da quella dei fratelli del Signore narrata poco oltre, che lo porta a concludere come segue: “neppure i suoi fratelli credevano in lui” (Gv. 7, 5). Nemmeno in Maria, madre del Cristo secondo la carne, la fede sembra poi così sicura, almeno se è corretto intendere in questo modo le parole rivolte dal Cristo alla madre in occasione del Cana: “Che c’è tra me e te, o donna: l’ora mia non è ancora venuta?” (Gv. 2, 4).
Sembra proprio che, da Maria all’apostolo Tommaso passando per i più stretti conoscenti di Gesù, l’incredulità sia direttamente proporzionale alla conoscenza storica del Figlio abbassato. Come dire che tanto più si conosce il Cristo dal punto di vista carnale, quanto meno lo si comprende dal punto di vista spirituale. In questo senso, forse, Paolo diceva che “carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio” (1 Cor. 15, 50). Ed è possibile che sia questa la spiegazione di un altro, controverso versetto dell’Apostolo: “se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2 Cor. 5, 16).
Vuol dire forse che la fede in Cristo è incompatibile con la sua conoscenza storica? È questa la prova del sospetto di Nietzsche, secondo il quale Paolo, mosso dalla sua volontà di potenza (altri direbbe dalla sua forte fede), ha falsificato la storia di Cristo, per non parlare di quella di Israele e dell’umanità intera? Vuol dire, insomma, che Paolo non ha più nulla a che fare con la fede di Gesù, del Gesù storico, avendo nel frattempo inventato la fede in Cristo? Dovremmo concludere che Paolo ha sostituito la fede in Cristo alla fede nel Dio di Israele del Gesù storico?
Alla “buona novella” seguì immediatamente la peggiore tra tutte: quella di Paolo. In Paolo si incarna il tipo antitetico alla “buona novella”, il genio nell’odio, nella visione dell’odio, nella spietata logica dell’odio. Che cosa non ha sacrificato all’odio questo disangelista? Innanzitutto il redentore: lo inchiodò alla sua croce. La vita, l’esempio, la dottrina, la morte, il senso e il diritto dell’intero Vangelo – nulla di tutto ciò esistette più quando questo falsario comprese, per odio, unicamente ciò di cui lui poteva aver bisogno. Non la realtà, non la verità storica… E ancora una volta l’istinto sacerdotale degli Ebrei perpetrò un identico, grande delitto contro la storia – egli cancellò, né più né meno, lo ieri, l’avant’ieri del cristianesimo, inventò per sé una storia del primo cristianesimo. E più ancora, falsificò di nuovo la storia d’Israele, affinché apparisse come la preistoria della sua azione: tutti i profeti hanno parlato del suo “redentore”… La Chiesa falsificò, più tardi, perfino la storia dell’umanità facendone la preistoria del cristianesimo…7.
I toni sono un po’ accesi, politicamente poco corretti, ma non sono in pochi, anche tra i più miti storici odierni, a pensarla in questi termini. Paolo e Giovanni hanno falsificato la storia, soffocandola sotto la spessa coltre della loro teologia! “Luca è […] colui che ha meglio compreso l’essenza del suo [di Gesù] messaggio; le lettere di Paolo, con le loro elucubrazioni sulla Legge e sulla Grazia, sono molto lontane da lui. Giovanni lo avvicina troppo alle religioni misteriche…”8. Eppure Paolo ben sapeva che il Cristo in cui credeva è “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne” (Rm. 1, 3), ed era in grado di distinguere chiaramente (e onestamente) quando si trattava di comandamenti di Cristo e quando si trattava invece di suoi, di Paolo, consigli o comandi alla comunità.
“Ai coniugi poi ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito […] e che il marito non si separi dalla moglie” (1 Cor. 7, 10. Corsivo mio.). “Ma agli altri dico io, non il Signore: se un fratello ha una moglie non credente ed ella acconsente ad abitare con lui, non la mandi via” (ivi 7, 12. Corsivo mio).
Che avesse conosciuto o meno Cristo secondo la carne, secondo l’enigmatica (dal punto di vista storico) dichiarazione di 2 Cor. 5, 16, Paolo era dunque a conoscenza delle tradizione storiche su Gesù; esattamente come lo era Giovanni, a prescindere che il suo nome vada o meno ricondotto a quello del discepolo amato. Paolo e Giovanni, probabilmente, disponevano di molte tradizioni storiche, sconosciute ai nostri storici di professione. Le hanno occultate? Le hanno falsificate? Le hanno distorte alla luce della loro teologia? Erano incapaci di distinguere tra verità storica e convinzioni di fede?
Così sembrerebbe, stando alla maggior parte degli scritti specialistici o divulgativi sull’argomento. Paolo e Giovanni come i grandi falsificatori della fede ebraica di Gesù, al posto della quale è stata introdotta la fede in Cristo. Alla pura religione ebraica di Gesù è subentrato il cristianesimo con la sua fede nella redenzione di Cristo. Eppure Paolo era in grado di distinguere tra i comandamenti del Signore e i suoi, di Paolo, precetti; eppure Giovanni sapeva che Gesù era figlio di Maria e di Giuseppe e che i suoi conoscenti non credettero in lui. Sembra strano, ma anche senza essersi formati nelle moderne facoltà umanistiche, i primi cristiani erano in grado di distinguere tra storia e fede.
Ma forse, più che limitati da una mancanza, in loro vi era la consapevolezza di quello che abbiamo chiamato “principio di indeterminazione nella realtà spirituali”, che formulerei in questo modo: “è impossibile conoscere al tempo stesso la realtà completamente storica e completamente spirituale di Cristo”. È impossibile sintetizzare storia e fede. Chi si ostina a conoscere Gesù solo secondo la carne, non lo conosce secondo lo spirito. Il figlio di Giuseppe e di Maria non può affermare di essere venuto dal cielo, a meno di non essere completamente invasato, posseduto dal demonio (Gv. 8, 48) o – in termini politicamente più corretti – “posseduto dallo spirito”9!
Da ciò non segue, almeno non per gli autori del Nuovo Testamento, che si debba scegliere tra la conoscenza puramente storica e quella puramente spirituale di Gesù. Non si tratta di un aut-aut, quasi che si dovesse tollerare la lettura credente dei vangeli nella liturgia ecclesiastica, per poi bandirla nell’ambito degli studi specialistici. L’intero Nuovo Testamento è incompatibile con questa “divisione del lavoro” nell’ambito spirituale. Negli Atti degli apostoli, gettato a terra dalla luce sfolgorante del Risorto, Saulo domanda alla voce che lo interpella: “‘Chi sei, Signore?’ E il Signore: ‘Sono Gesù, che tu perseguiti’” (At. 9, 5). Come notò Hans Frei in The Identity of Jesus Christ (1975), il Risorto, in tutta la maestà della sua gloria, è lo stesso Gesù perseguitato e crocefisso. La carne e lo Spirito non possono essere separati né confusi, come del resto fu affermato dal dogma di Calcedonia, se letto cun grano salis.
Implicito in tutto il Nuovo Testamento, questo principio è esplicito soprattutto nell’evangelo giovanneo, nel quale Cristo è il figlio carnale di Giuseppe e al tempo stesso il Logos di Dio incarnato. I suoi fratelli, i suoi famigliari, gli abitanti del suo villaggio non possono credere in lui perché in lui riconoscono solo l’uomo che hanno visto crescere, del quale conoscono a menadito i genitori, gli studi, il mestiere – tutto ciò che farebbe la gioia degli storici di oggi. La donna samaritana, al contrario, crede che lo sconosciuto ebreo che le si presenta davanti sia il Cristo atteso, pur non sapendo nulla di lui (Gv. 4, 7-29). Nicodemo, che lo ha conosciuto e ha creduto, ma che è trattenuto da pregiudizi socio-religiosi, è indeciso (Gv. 3, 1-21). Tommaso, che pure fa parte di coloro che hanno lasciato tutto per seguirlo, oscilla e dubita (Gv. 20. 25). Maria di Magdala riconoscerà il Maestro amato nella figura che le sta davanti, nei pressi del sepolcro vuoto, e solo allora potrà credere nella Resurrezione e nella Vita (Gv. 20, 11 ss.). Sua madre lo seguirà e crederà, ma solo in seguito a indicibili sofferenze (Gv. 19, 25 ss.).
Giovanni scrive tutto questo per dei lettori ai quali è chiesto di credere pur senza aver conosciuto il Cristo secondo la carne (G. 20, 30 s). Ad essi non è rivolto il puro kérygma che Gesù è il Cristo e Figlio di Dio, prendere o lasciare, ma nemmeno un racconto storico cosiddetto obiettivo, al quale poi il lettore potrebbe eventualmente conferire un significato spirituale, a seconda della sua sensibilità, com’è sottointeso oggi, alla luce di tre secoli di studi storico-critici. Che cosa ha scritto, allora, Giovanni? Un racconto della passione quale interpretazione della fede sulla base di un nucleo storico, secondo l’opinione di Mario Pesce, in coda a un ampio seguito di studiosi storici? Sembrerebbe plausibile, se non che in tal modo storia e fede vengono posti come ambiti astrattamente separati, di per sé evidenti, che gli evangelisti (e Giovanni in primo luogo) avrebbero confuso, per corrispondere al bisogno di fede dei loro lettori. Gli evangelisti confusero ciò che invece deve rimanere separato. Ormai istruiti dagli studi storici, noi dobbiamo conoscere la verità storica degli avvenimenti del primo cristianesimo e, semmai, credere al significato spirituale di quei fatti. Ma dobbiamo distinguere tra storia e fede, se non vogliamo ricadere nel fanatismo di un tempo10.
Ma esiste la possibilità che storia e fede s’indeterminino l’un l’altra? È contemplato il caso in cui tra i fatti e le interpretazioni esista una zona d’indiscernibilità, e non per difetto o parzialità dell’osservatore? Lo affermò Nietzsche come principio generale dell’ermeneutica, pur contestandolo a Paolo come espressione della sua volontà di potenza sacerdotale.
Nel caso del principio d’indeterminazione di Heisenberg, l’aporia riguarda l’osservatore, non la realtà in sé (posto che questa distinzione sia ancora frequentabile) delle particelle elementari. Ma nel caso di Cristo è probabile che tale distinzione non sia possibile nemmeno in sé, e non solamente per gli osservatori.
Se questo fosse il caso, verrebbero meno diversi problemi tipicamente “storico-critici”, primo tra i quali quello della cosiddetta “coscienza messianica”. Gesù si considerava il Messia? Lo considerarono tale solo i discepoli? Dopo o prima la resurrezione? O forse solo al momento della redazione dei vangeli, quando le tradizioni storiche erano già sottoposte alle interpretazioni della fede? E da dove venne tale fede? Dalla mistificazione, dalla volontà di potenza, da un’epoca non ancora educata al rigore dello studio storico? Mentre gli storici continuano a rispondere a queste domande, che ormai anche i giornalisti televisivi pongono loro per la soddisfazione dei lettori “incuriositi”, la scienza più rigorosa ha imparato a rispondere che non è possibile conoscere la posizione e la quantità di moto delle particelle elementari. Saremo capaci di ristabilire qualcosa di analogo anche per le realtà spirituali?
Foto di copertina
Tiziano Vecellio, San Giovanni Evangelista a Patmos (1550 circa), 237,6×263 cm – National Gallery of Art, Washington
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Note
1 Werner K. Heidenberg, Indeterminazione e realtà (1942), Guida, Napoli, 1991, p. 128
2 L’evangelo più antico, quello secondo Marco, inizia appunto con queste parole: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio” (Mc 1,1)
3 A. Schweitzer, Storia della ricerca sulla vita di Gesù (1906), a cura di F. Coppellotti, Paideia, Brescia, 1986, p. 71
4 A. von Harnack, L’essenza del cristianesimo (1901), a cura di G. Bonola e P.C. Bori, Queriniana, Brescia, 2003, p. 67
5 Ivi p. 77
6 C. Augias, M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo?, Mondadori, Milano, 2019, p. 92
7 F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo (1888), a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1990, p. 55
8 M. Pesce, C. Augias, Inchiesta su Gesù, cit., p. 221
9 “Si verifica un fenomeno che potremmo definire ‘di possessione’. Gesù è posseduto dallo Spirito di Dio che lo trascina nel deserto […]” (ivi p. 218)
10 “Lo storico non vuole impadronirsi di feticci che trasmettono un potere particolare. Egli rintraccia con maggiore o minore certezza eventi e documenti del passato mettendoli a disposizione dei suoi contemporanei. Sta poi a ciascuno valutarli, facendone l’uso che crede, sulla base delle proprie conoscenze e della propria libera volontà” (ivi p. 233).
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Enrico Cerasi, docente di Filosofia della religione presso l’Università Vita-Salute san Raffaele di Milano, ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale per la seconda fascia in Filosofia teoretica e in Storia della Filosofia. Con Stefania Salvadori ha curato per Bompiani gli Scritti teologici e politici di Erasmo da Rotterdam. Si è occupato della teologia di Karl Barth, della questione della demitizzazione, del linguaggio religioso e della filosofia di Pirandello, sulla quale ha pubblicato due monografie (Quasi niente, una pietra. Per una nuova interpretazione della filosofia pirandelliana, Prefazione di E. Severino, Padova, 1999, e La vita nuda. L’anarchismo filosofico di Luigi Pirandello, Milano, 2016) e alcuni articoli in rivista e sul web. Sulla filosofia di Pirandello ha discusso anche in un programma condotto dal regista Fabrizio Falco e ideato da Felice Cappa, trasmesso il 28 giugno 2017 da Rai cinque cultura.
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