Lo spettro della grazia(i)
di Enrico Cerasi
§ 1. La memoria storica della nostra civiltà europea conserva la traccia, o forse lo spettro, di due processi. Due uomini, condannati a morte per aver sovvertito l’ordine sociale stabilito. Non solo due innocenti (il loro nome, in questo caso, sarebbe legione) ma due “doni di Dio” al mondo. Nell’Apologia, Socrate definisce sé stesso dósis toû theoû – il dono dato dal dio Apollo agli ateniesi (30d 7; 31a 8). In Gv. 3, 16 leggiamo che “Dio ha tanto amato il mondo da donargli il Suo unigenito Figlio affinché chiunque creda in Lui non perisca”. Anche Gesù è un dono, o meglio il dono dato una volta per tutte (ἐφάπαξ1) da Dio non agli ateniesi o agli ebrei, ma a chiunque creda.
Nel Nuovo Testamento è esplicito che, rifiutando il Suo dono, l’umanità si è messa contro Dio stesso: “la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce” (Gv. 3, 19). Ma la predizione finale di sciagura che Socrate rivolge ai suoi nemici e alla città di Atene (39c-e), dice quasi la stessa cosa.
Non possiamo seguire in questa sede che cosa consegua, per i discepoli di Socrate, dalla morte del maestro. Notiamo solo che nel platonismo vi è l’istanza di una giustizia migliore di quella che aveva dichiarato la morte del filosofo. Platone non mette mai in questione la nozione di giustizia. Al contrario, reagendo al soggettivismo e al relativismo dei sofisti, cercò di ripristinare in modo semmai più coerente e razionale l’antica idea di Dike come legge eterna e inflessibile dell’intera natura. Non solo nella Repubblica, dov’è esplicita l’esigenza di ripensare da capo l’idea di giustizia, ma ancora nelle Leggi (Libro I, 644 c-d), l’essenza della legge consiste nella capacità della ragione d’imporsi sulla parte irrazionale della nostra natura. Tale imposizione del logos sull’irrazionale è la giustizia migliore per la città. L’ingiusta morte di Socrate non fu in alcun modo l’occasione per una messa in questione della giustizia, ma al contrario per una sua riqualificazione ancor più inflessibile e radicale. Come è stato varie volte notato, in Platone si riaffaccia la Dike dei primi filosofi.
§ 2. Venendo al caso gerosolimitano, le questioni sono più complesse. Secondo tutti i vangeli, Gesù ha subito due processi. Il primo davanti al sommo sacerdote Caifa, il secondo davanti a Pilato. Si evince che Caifa e il Sinedrio accusarono Gesù di bestemmia; Pilato di lesa maiestatis. Il titulus crucis INRI: Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, esplicita il motivo della condanna. Essendosi proclamato re dei Giudei, Gesù era colpevole di crimen lesae maiestatis: un’offesa alla maestà dell’Imperatore Tiberio – l’unico re dei Giudei. Conformemente alla Lex Iulia, si configurava la lesae maiestatis in caso di tradimento, di diserzione dall’esercito, di sollevazioni contro il dominio romano e in genere tutto ciò che pregiudicava la sicurezza di Roma e dell’Imperatore.
Fin qui è quanto possiamo presumere dal punto di vista storico. Stando alla narrazione evangelica, è interessante che Pilato (che misteriosamente sembrava augurarsi la liberazione del Nazoreo) abbia chiesto a una folla imprecisata di giudei quale dei due delinquenti avrebbe dovuto liberare: se Gesù o un certo Barabba, che molto probabilmente era uno zelota accusato di sedizione e omicidio2, come anche gli altri due condannati e crocefissi con Gesù3.
È discusso se il privilegium paschale (l’usanza secondo la quale in occasione della pasqua ebraica veniva liberato un prigioniero ebreo) esistesse ai tempi di Tiberio. Qualcosa di simile esisterà nel diritto romano successivo (indulgentia criminalis). Dalla grazia, tuttavia, erano esclusi, tra gli altri, proprio coloro che, come Gesù, si fossero resi colpevoli di lesa maiestatis. Ma al di là delle ricostruzioni storiche, è chiaro che Barabba, dal punto di vista narrativo, è la figura antitetica di Gesù. La specularità è accentuata da una tradizione contenuta nel manoscritto di Cesarea di Matteo (27,26) che chiama Barabba “Gesù Barabba”.
Non sempre s’avverte l’ironia della scena: la grazia del governatore romano viene negata proprio a colui che i vangeli presentano come il dono di grazia che Dio ha concesso all’umanità. Pilato e i Giudei (ossia la giustizia politica e religiosa) negano la grazia al dono di Dio, per graziare invece un combattente politico, un nazionalista ebreo, forse uno zelota omicida. Pilato è interessato solo a sapere se l’imputato sia il re dei Giudei (“Sei tu il re dei Giudei?”: Gv. 18, 33; Mc. 15, 2; Mt. 27, 11; Lc. 23, 3) e dei pericoli che ciò potrebbe comportare, ma non si accorge del dono che Dio gli sta offrendo nella persona di Gesù.
La giustizia terrena, religiosa e politica, può anche graziare chi ha cercato di sovvertire il proprio ordinamento, ma è inflessibile nel condannare la grazia di Dio. Non sappiamo se l’episodio sia avvenuto, ma il suo significato simbolico è chiaro. Pilato esercita la giustizia nel nome di Cesare; il Sinedrio la giustizia religiosa. Entrambi i poteri si trovavano davanti Gesù, il dono di Dio per la salvezza degli uomini. Che sia stato istigato dai Giudei o abbia agito di sua autorità, Pilato condanna l’imputato alla morte di croce, la più infamante e dolorosa.
Qualcuno ha osservato che nel processo di Gesù, Dio e Cesare si sono trovati per la prima volta l’uno di fronte all’altro. Cesare rappresentato da Pilato e Dio incarnato in Gesù nazoreo. Può essere, ma si trattò di un incontro mancato. Cesare non solo ha esercitato una giustizia senza misericordia (la flagellazione, la croce), ma ha rifiutato la grazia a colui che incarnava la grazia di Dio per gli uomini, compresi Cesare e il suo governatore. È difficile allontanare il sospetto che Dio e Cesare, ossia grazia e giustizia, in quella scena si siano definitivamente separate.
§ 3. La storia europea successiva è stata, tra l’altro, il tentativo di ricomporre l’antitesi. Eppure lo spettro di tale diastasi si è allungato nei secoli. Tra i varî nomi che potremmo citare in merito, ci limiteremo a quello di Marcione, un uomo assai importante per il nostro tema. Di lui è stata conservata una sola frase, che citeremo. Per il resto, le notizie provengono dalla polemica – spesso asprissima – dei padri della Chiesa, che almeno fino al quinto secolo in Marcione hanno visto la minaccia peggiore per la fede cristiana. Che cosa insegnava di così pericoloso? Occorre essere prudenti, perché sono state conservate solo le voci degli oppositori4. Ma vi è un generale consenso su alcuni dati minimi. Marcione fu il primo a stabilire un canone degli scritti sacri per i cristiani. Il nostro Nuovo Testamento per lui era composto da un solo vangelo e dalle lettere di Paolo. Il vangelo era una versione semplificata del Lc canonico, anche se vi sono in merito difficili questioni che qui non possiamo affrontare. In ogni caso le lettere di Paolo non sono non erano problematiche, come per Gc. e l’autore della 2Pt., ma anzi erano la testimonianza fondamentale dell’evangelo cristiano.
Che cosa avrebbe insegnato Paolo, per Marcione? Che il Padre di Cristo è un Dio straniero. Un Dio non solo diverso, ma incompatibile col Demiurgo che ha creato questo mondo. Il Creatore – che egli identificava col Dio degli ebrei – non è il Padre di Cristo. Ha creato un mondo non solo imperfetto, dunque destinato alla morte, ma retto dal governo inflessibile e impietoso della legge. Ma il Dio straniero ha salvato gli uomini dalla tragedia di questo mondo di morte per Sua sola grazia.
Come è stato notato da Harnack5, la grazia di Marcione è più radicale di quella di Paolo, perché lo Straniero non è il Creatore di questo mondo. Il Creatore è il Demiurgo, il Dio degli ebrei. Il Redentore agisce per pura grazia, perché con gli uomini non ha alcun legame. Un Dio creatore, metaforicamente un Padre, ha un vincolo di responsabilità nei confronti delle sue creature. Anche se queste hanno peccato, restano opera sua.
Del resto la stessa nozione di peccato, per Marcione, non ha senso. Il peccatore è il trasgressore della legge. Ma questa è data dal Creatore. In alcune chiese gnostiche, non marcionite ma vicine al suo spirito, i grandi peccatori della storia biblica (ad es. Caino), proprio perché trasgressori della legge, erano esempi positivi cui rifarsi. Saranno loro i primi ad accogliere, nell’inferno in cui erano stati abbandonati dal Creatore, l’evangelo del Dio straniero!
Non sembra che Marcione sia giunto a tanto. Ma in un libro denominato Antitesi, in cui metteva radicale in contrasto le testimonianze del Dio dei Giudei con il Padre rivelato nel vangelo, insiste sull’idea che il Dio di Cristo era sconosciuto; Cristo stesso è venuto nel mondo all’improvviso, senza che nulla lo avesse preannunciato. Il vangelo di Marcione cominciava con queste parole:
Nell’anno quindicesimo di Tiberio Cesare, Gesù discese a Cafarnao6.
Un puro avvento, senz’alcun precedente. Si pensi, per contrasto, alla genealogia di Gesù con cui inizia Mt., che da Maria si spinge per 42 generazioni fino ad Abramo! Il Cristo di Marcione discende all’improvviso a Cafarnao, senz’alcuna genealogia; ossia, diremmo, senza storia.
Nella sua asprissima polemica, Tertulliano stigmatizzò entrambi gli aspetti della predicazione marcionita. È impossibile ipotizzare una duplicità di Dei. Ironizzando, chiede: perché due e non tre, o un qualsivoglia numero di divinità? Perché proprio due?
Marcione, sembra, rispondeva basandosi sulla parabola dei due alberi contenuta in Lc 6, 43-45. Il mondo è il frutto perverso di un Demiurgo altrettanto cattivo; mentre l’amore di Cristo giunge da un Padre del tutto Straniero. I due Dèi non sono posti arbitrariamente; sono il significato teologico dei due alberi della parabola. Come dire: gli Dei, li riconoscerete dai loro frutti! La morte sub lege da una parte, la salvezza sola gratia dall’altra.
Ma ciò implica, per Tertulliano, un’assurda e moralmente catastrofica separazione di grazia e giustizia. Nel Contra Marcionem, Tertulliano scrive:
La separazione tra la legge e il vangelo è il principale e il peculiare compito di Marcione […]. Queste sono le “Antitesi” di Marcione, cioè proposizioni di fatti contrari l’uno all’altro, le quali cercano di istituire una contraddizione tra la legge e il vangelo, al fine di poter dimostrare, sulla base della diversità delle dottrine, una diversità anche di divinità.
È impensabile che un nuovo Dio si riveli. Se un Dio esiste, dev’esser noto agli uomini. Ma ammesso che esista un Dio non ancora noto, sarebbe inferiore a quello già conosciuto, perché ciò che è più antico e più noto è migliore del nuovo. Per cui lo Straniero di Marcione, ammesso e non concesso che esista, sarebbe inferiore al Dio degli ebrei, noto a tutti. Ma ciò che fa impazzire di rabbia Tertulliano è l’idea di una grazia senza giustizia. Anche Tertulliano, ovviamente, ammette la grazia. Ma essa dev’essere conforme alla giustizia. Una grazia senza giustizia sarebbe ingiusta e quindi inaccettabile.
Ma Marcione ragionava sulla base di un diverso paradigma. Di lui possediamo un’unica frase, la seguente:
O meraviglia delle meraviglie, estasi, forza e stupore che non si possa dire nulla sul Vangelo, nemmeno paragonarlo a nulla7.
La pura grazia del Dio straniero è indicibile perché non ha metro di paragone con questo mondo di morte. È solo “estasi, stupore”, esperienza del puro miracolo.
Ireneo, anch’egli da annoverare tra le principali fonti anti-marcionite, ammette che l’annuncio di Marcione si basi, sia pure con molte forzature, sugli scritti di Paolo. Ma fa valere un’esigenza che in seguito si rivelerà fondamentale. Le lettere dell’Apostolo sono scritti sacri, certo, ma vanno armonizzate con gli altri libri della Bibbia. Con i quattro vangeli, in primo luogo, e poi con il resto del canone, che proprio in Ireneo trova una delle sue prime espressioni.
Nella polemica di Ireneo e Tertulliano possiamo scorgere le due principali strategie anti-marcionite. Da una parte, l’esigenza di bilanciare la radicalità della grazia di Paolo; ad esempio col ricorso a Mt., in cui Gesù afferma di essere il compimento e non l’abrogazione della legge (Mt. 5, 17). Il canone biblico è essenzialmente anti-marcionita. Dall’altra l’impossibilità teo-logica e morale di separare giustizia e grazia. Non può e non dev’esserci una grazia senza giustizia! Sarebbe la fine di ogni agire morale. Da qui provengono le fonti che stigmatizzano l’immoralità delle chiese gnostiche e marcionite. Rapporti sessuali promiscui, in primo luogo, ma poi tutta una sequela di atti immorali che agli occhi della Grande Chiesa erano di per sé una confessione di eresia.
Non sappiamo se queste accuse fossero vere; di certo erano perfettamente logiche perché, ripetiamolo, una grazia senza giustizia non può nemmeno esser concepita. Almeno per Tertulliano, per Ireneo e in fondo per l’intera storia del cristianesimo, in questo senso concordemente anti-marcionita.
§ 4. La storia del marcionismo è un fiume carsico, che nel Novecento è emerso con forza. Per limitarci a qualche esempio, nel 1921 uscì la grande monografia di von Harnack: Marcion, das Evangelium vom fremden Gott, a conclusione di una serie di scritti specialistici, soprattutto di area tedesca8. Un anno prima, recensendo il Römerbrief di Karl Barth, Jülicher – influente professore di esegesi a Marburg – classificò il commentario come nuovo marcionismo9. Probabilmente si sbagliava, ma lo spirito di Marcione era nell’aria e apparve esplicitamente in Ernest Bloch. Già in Geist der Utopie (1918) e poi in Das Prinzip Hoffnung (1959)10, Marcione è iscritto d’ufficio nella storia dello spirito utopico. Opposto il punto di vista di Buber, che nel primo dei quattro Reden über das Judentum (1952) parla di Marcione come “antisemitismo metafisico” sorto nell’ambito della guerra antigiudaica di Roma. Sentenzia Jakob Taubes: “Su Marcione, gli spiriti si dividono”11.
Ma forse lo spirito dell’eretico del Ponto è presente anche là dove non venga fatto il suo nome. Se aveva ragione Tertulliano nell’indicare nell’antitesi di grazia e giustizia l’evangelo fondamentale di Marcione, tornano alla mente le seguenti parole di Friedrich Nietzsche:
La giustizia, che ebbe il suo inizio con “tutto è suscettibile di saldo, tutto deve essere saldato”, finisce per perdonare e per lasciar andare l’insolvente – finisce, come ogni cosa buona sulla terra, per sopprimere sé stessa. Questa autosoppressione della giustizia: è noto con qual nome essa viene chiamata – grazia; essa resta, come va da sé, la prerogativa del più potente, meglio ancora, il suo al di là del diritto12.
Chi potrà mai essere il “più potente” cui allude il filosofo? Forse il sovrano di volta in volta regnante? Quale sarà il suo “al di là del diritto”? La grazia intesa come mera cancellazione della pena inflitta legalmente a un condannato, come già accadeva nelle monarchie assolute del XVII sec. e che tuttora molti regimi costituzionali (tra i quali l’Italia) attribuiscono esclusivamente al capo dello Stato? Se non si tratta di questo, dove mai vi sarebbe traccia di quest’autosoppressione della giustizia, che – a sentire il filosofo – ebbe nella vendetta la sua origine? Che cosa dovremmo dire del sogno, o forse dello spettro d’un mondo libero dalla giustizia intesa come la ritorsione della società verso l’insolvente? Di che cosa si tratta, insomma? Del mondo del Dio straniero in cui credette Marcione? O di questo mondo liberato dalla colpa, dal risentimento e dalla condanna, cui alludono alcune indimenticabili pagine di Nietzsche?
Immagine di copertina
Il mosaico del Cristo Pantocratore nel Duomo di Monreale (Wikimedia Commons)
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Note
1. Rm. 6,10; Eb. 7, 27; 9,12; 10,10
2. Cfr. E. Nofke, Cristo contro Cesare. Come gli ebrei e i cristiani del I secolo risposero alla sfida dell’imperialismo romano, Claudiana, Torino, 2006; L. Garofalo, Gesù. Il processo, Solferino, Milano, 2020; G. Zagrebelsky, Il “crucifige” e la democrazia, Einaudi, Torino, 1995; C. Cohn, Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico (1997), trad. it. a cura di G. Zagrebelsky, Einaudi, Torino, 1997
3. Il termine greco tradotto in italiano con “ladroni” è lestai, che negli scritti di Giuseppe Flavio è usato per coloro che avevano dedicato la propria vita alla lotta armata contro l’occupazione romana (cfr. B. Corsani, L’Apocalisse e l’apocalittica del Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna, 1996, pp. 50 s.
4. Cfr. J. M. Lieu, Marcion and the Making of a Heretic. God and Scripture in the Second Century, Cambridge, 2015, trad. it. Marcione. Come si fabbrica un eretico, Paideia, Brescia, 2020
5. Cfr. A. von Harnack, Marcione. Il vangelo del Dio straniero, trad. it. Marietti, Genova, 2007
6. Cfr. C. Gianotto e A. Nicolotti (edd), Il vangelo di Marcione, Einaudi, Torino, 2019
7. Cfr. A. von Harnack, op. cit.
8. In Italia ve ne fu un’eco grazie alla mediazione Buonaiuti
9. Cfr. A. Jülicher, Un moderno interprete di Paolo, “Christliche Welt”, 1920, ora in J. Moltmann (ed), Le origini della teologia dialettica, ed. it. a cura di M. C. Laurenzi, Queriniana, Brescia, 1976, p. 126
10. Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Brescia, 20093, pp. 1466 s.
11. J. Taubes, Messianismo e cultura, a cura di E. Stimilli, Garzanti, Milano, 2001, p. 376
12. F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, 1887, trad. it. Genealogia della morale, a cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano, 19913, p. 56
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(i) L’articolo riprende il testo della lectio magistralis tenuta dall’autore al Festival della filosofia di Modena del 2022
Enrico Cerasi è professore associato di filosofia teoretica presso l’Università Pegaso, titolare degli insegnamenti di Filosofia del linguaggio e di Filosofia della religione. È docente a contratto di Filosofia della religione presso l’Università Vita e Salute – San Raffaele di Milano. Si è occupato della teologia di Karl Barth, della questione della demitizzazione, del linguaggio religioso e della filosofia di Pirandello. Con Stefania Salvadori ha curato per Bompiani gli Scritti teologici e politici di Erasmo da Rotterdam.
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