RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Le bestie di Tozzi. Testo di Enrico Cerasi

[Tempo di Lettura: 11 minuti]

E capii perché un gatto, accovacciato su la porta di casa mia,
fosse scappato quando gli fui  vicino” 1

       Rileggendo Bestie di Federigo Tozzi, tornano alla mente alcune considerazioni di più celebri filosofi sui gatti. Penso ad esempio a Michel de Montaigne, il quale si chiedeva se, giocando col suo gatto, fosse lui o la bestia a condurre il gioco. “Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io non faccia con lei?”2. Chi può dire se sia l’uomo, con la sua presunta e presuntuosa superiorità, a condurre il gioco, o se non sia piuttosto l’animale a farlo? Oppure a Jacques Derrida, che nelle prime pagine de L’animale che dunque sono confessava il proprio imbarazzo nell’incrociare lo sguardo del suo gatto, quando – nudo – stava per entrare in bagno3.

Andy Warhol, Sam, from 25 Cats Named Sam and One Blue Pussy, 1954

       A dire il vero, non so che cosa Derrida avrebbe pensato della raccolta di sessantotto brevi racconti, che Tozzi pubblicò presso l’editore Treves nel 1917. Non la cita, ma suppongo che non lo avrebbe lasciato indifferente, sia pure con qualche distinguo. Per Derrida il rapporto con l’animale è una parte costitutiva dell’impresa logo-fallocentrica della metafisica dell’Occidente; le varie definizioni succedutesi nei secoli dell’uomo come “animale politico”, “animale razionale”, “animale religioso” ecc. (prima di Heidegger già messe in questione da Montaigne) tradiscono una prossimità che si vorrebbe espellere. Ad avviso di Derrida, la storia della filosofia potrebbe essere ripercorsa come il susseguirsi dei tentativi di espellere l’animale dalla condizione umana – “la parte maledetta”, come forse l’avrebbe chiamata Bataille.

Keith Haring, Untitled work from 1982, Keith Haring Foundation New York

       Ma qui il nome di Bataille forse non è appropriato. È più probabile che l’animale sia l’imprecisa trascrizione di un’indistinzione, di un’essenziale mancanza a sé che l’uomo, costituendosi come oltrepassamento, ulteriorità, finalità, ha dovuto lasciarsi alle spalle. “Animale” (o animot, come si esprime Derrida, indifferenziando le voci francesi singolare e plurale di “animal” e “animaux”) funziona nel linguaggio dell’Occidente come “parola-etichetta” che non esprime “né una specie, né un genere, né un individuo, ma un’irriducibile molteplicità di esseri mortali”, accomunati soltanto dal loro essere altro dall’uomo4. Un po’ come la metafora secondo Ricoeur5, l’animale per Derrida si palesa come quella differenza interna, espulsa ma inespungibile, che costringe a ripensare l’apparato categoriale della nostra concettualità.

       Derrida e Ricoeur, com’è noto, non erano bestie simili. Molteplici le loro divergenze, quasi su tutto. Eppure tra l’animale di Derrida e la filosofia metaforica avanzata da Ricoeur le assonanze non sembrerebbero occasionali. Non raramente gli animali si sono prestati a fornire un arsenale metaforico. Si pensi agli epiteti, nobilitanti o degradanti, testimoniati dalla letteratura classica (per non dir nulla dei proverbi e delle favole della nostra cultura). Achille è (metaforicamente) un leone – ma i compagni di Ulisse sono considerati letteralmente da Circe alla stregua di porci. Il gioco è sottile. L’uomo si definisce distinguendosi da un animale che è a tempo stesso incluso ed escluso dal suo orizzonte. La volpe, le formiche, le rane, come ben sappiamo, costellano le nostre favole introducendo metafore dure a morire. Uno degli adagi più suggestivi di Erasmo da Rotterdam s’intrattiene sui conflittuali rapporti tra un’aquila e uno scarabeo6 – senza che sia chiaro se si tratti di una metafora, di un’allegoria, di una parabola o di un discorso ad litteram. – Per non dir nulla dell’epiteto di “marrani”, maiali, con cui vennero marchiati gli ebrei convertiti nella Spagna della reconquista.    

Jan Fabre, Globo, buprestidi e scarabei dalle lunghe corna su fil di ferro e ghisa (dettaglio), 1997

        Ai critici che hanno letto le bestie dei racconti di Tozzi come il mistero del gratuito, una casuale epifania che testimonierebbe dell’inspiegabilità dei fatti della vita, Vincenzo Cerami obietta che gli animali del libro non sono altro che lo specchio del narratore, il quale improvvisamente (pirandellianamente, diremmo) si vede vivere. Nessuna devozione al caso, all’episodicità. Tozzi, sostiene Cerami, ha costruito una perfetta macchina narrativa, nella quale l’irruzione improvvisa dell’animale rappresenta in modo letterario le inquietudini dell’anima della voce narrante del racconto.

       Qualche funambolo dello spirito sarebbe forse tentato di congiungere le due chiavi di lettura, suggerendo che l’animale di Tozzi antiveda ciò che Ricoeur avrebbe chiamato Soi même comme un autre. – La bestia, forse, rispecchia l’estraneità a sé del narratore. Parla dell’anima, è vero, ma come a sé estranea.

Cai Guo Qiang, Head On, 99 life-sized replicas of wolves and glass wall, installation view, Deutsche Guggenheim, Berlin, 2006

       Non vorrei tuttavia improvvisare facili armonizzazioni, che non mi appartengono e che sarebbero assai dubbie. In effetti la proposta di Ricoeur non si limita a prender atto della scissione del soggetto, ma cerca di ricomporla attingendo ai simboli, alle metafore, alle narrazioni della nostra tradizione, a cominciare da quella evangelica. Ricoeur non parla della scissione, ma della ricomposizione. Rileggendo Tozzi, mi sono chiesto piuttosto che cosa rappresentino gli animali che appaiono subitamente, per poi altrettanto inaspettatamente disparire. Metafore? Simboli? Epifanie? Semplici casualità, o forse soltanto dei pretesti lirici? 

       Non saprei. Ma vale forse la pena notare l’ambivalenza, o forse la polivalenza dei sentimenti generati dall’epifania dell’animale nell’anima del racconto (quasi sempre in prima persona). Nel settimo brano, ad esempio, il narratore è “contento” di vedere “un pettirosso che ruzzava con le sue ali, come a rianimare il paesaggio di cipressi che vede dal suo poggio (p. 34). L’animale, qui, sembra l’eco dell’anima, come forse avrebbe detto Cerami. Ma nel sedicesimo racconto, tornando a casa da una pessima notte con la fidanzata (che si felicita di non aver sposato), il narratore cerca di uccidere a sassate un usignolo posato su di un pino – rammaricandosi di non aver “avuto un fucile” (56).

Adel Abdessemed, Pigeon, 2015

       Benché il rapporto con sé stessi sia spesso controverso e dibattuto, non direi che l’animale in questo caso sia semplicemente l’amplificazione simbolica dell’anima della voce narrante. I due conigli che graffiano le mani della zia nel tredicesimo racconto non sembrano aver nulla a che fare coi sentimenti del narratore. Piuttosto, il graffio subìto dalla vedova sancisce la diffidenza della donna nei confronti dell’esterno. “Ella teneva [sempre] le mani, una dentro l’altra, nel grembo”, come a ripararsi dal mondo (p. 49); cominciava ogni discorso con la frase stereotipata: “Il mio povero marito” (ivi), suggerendo una scarsa condiscendenza a considerazioni ulteriori. Una donna chiusa, indisponibile a qualsivoglia cambiamento, come sono ancora oggi alcune vedove di paesi di campagna. Graffiandole le mani finalmente discoste dal ventre, i conigli sembrano sancire e al tempo stesso sanzionare la radicata diffidenza della donna.

Vettor Pisani, Il Coniglio non ama Joseph Beuys, 1975-2014. Ricostruzione della performance originale “Il coniglio non ama Joseph Beuys”, 1976, versione presentata alla 37. Biennale di Venezia

       Altre volte l’animale sembra provocare una reazione emotiva inaspettata. Nel diciassettesimo racconto il narratore fuma una sigaretta dopo l’altra in una scura sera d’estate. A quanto sembra, desirerebbe la vicinanza d’un amico, per condividere il silenzio della notte. Si palesa improvvisamente il suono di un grillo, che non riesce a localizzare. Ciò lo inquieta. “Dovetti andarmene, e mi misi a piangere” (p. 57). Nulla prima dell’apparizione dell’animale avrebbe suggerito una simile reazione emotiva.

Luigi Viola, Oceanic yellyfish, laserprint on plexiglass and aluminium, 2011

       Derrida cominciò la sua riflessione sull’animale confessando di provare vergogna per la sua nudità, di fronte all’enigmatico sguardo del suo gatto. In uno dei racconti di Tozzi, leggiamo di un giovane che malvolentieri andava “a dottrina” dal prete, infastidito, tra l’altro, dagli occhi “inaciditi” della perpetua che lo accoglieva. Ma nella triste sala d’attesa v’era una gabbia con un canarino, il quale, saltellando all’interno della sua prigione, faceva muovere un poco le tende della stanza.

Io mi vergognavo di lui [del canarino], che mi vedesse con il mio libricino sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l’osservavo sempre, quando il prete m’interrogava, prima di rispondere.
Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe (102).

William Kentridge, Learning the Flute, encyclopedia pages mounted on 110 sheets of paper, 2003

       Non era questa, naturalmente, la reazione che Derrida avrebbe voluto suggerire confessando il suo rapporto con l’animale. Ma per restare alla vergogna, in un racconto precedente si descrive la fortissima emozione prodotta nella voce narrante dall’“estate accecante”. Nelle pagine di Tozzi l’ambiente senese, gli ampi movimenti del cielo toscano, conosce risonanze della terra le quali sono sempre lì a produrre o a ricevere l’eco dell’anima eccitata del narratore. Ma poi accade l’animale.

Sopra un muricciolo, vidi un ramarro. Mi fermai, perché non mi scappasse. Allora, guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti, provai una delusione dolorosa; e feci il viso rosso di vergogna (90).

Brandon Ballengee, DFA 18: Triton, 2001/07

       Ma non credo che l’epifania animale sia univoca. In un altro racconto, leggiamo dell’orgoglio del padrone di un grosso podere di campagna, che s’illude di farsi obbedire finanche dal grano e dalla natura.

         Come odiai uno de’ miei pavoni, che capii più orgogliosi di me! (84).

       L’apparizione dell’animale, qui, amplifica e rappresenta plasticamente l’anima del narratore. Ma in altri casi assistiamo piuttosto a un contrappunto. In un altro racconto, la voce narrante è immobilizzata a letto, malata di tifo. Perfino le coperte, a quanto sembra, lo schiacciano quasi fossero montagne, impedendogli ogni gesto, finanche di alzarsi. Ma improvvisamente… “Entrò un’ape… con un ronzio così dolce che mi fece subito un effetto di benessere” (96). Qui, evidentemente, l’apparizione dell’animale rovescia lo stato d’animo del narratore, determinando un’interruzione, segnando un’imprevista discontinuità.

        In un racconto successivo, leggiamo d’una coppia di sposi che ormai s’odiano in modo implacabile; al punto di scagliarsi violentemente l’un l’altra, semplicemente a motivo di una zuppa non sufficientemente salata. All’improvviso appare una formica giunta sul punto d’introdursi nella fiasca di vino.

La rabbia finì subito. Ella la prese con le mani e la scaraventò lontano.
Io dissi:
– Per fortuna l’hai vista! Avremmo dovuto buttar via tutto il vino!
E il pranzo finì bene, quella volta (100).

Rafael Gomez Barros, Casatomada, vetroresina colorata installazione Palazzo del Congresso Nazionale Bogotà, 2010

       Nelle pagine di Tozzi, l’offerta sacrificale dell’animale non redime per sempre. Tutto rimane precario, sospeso, fino alla fine. Tutto è alterabile, esposto all’eccitazione dell’anima. Ma l’offerta sacrificale dell’animale non è insolita. Nel ventiduesimo racconto la voce narrante confessa la propria aridità, incapace di voler bene a chicchessia. L’intero paesaggio appare metallico, ostile.

Una cicala, sopra un nocchio d’ulivo, canta: la vedo. Mi ci avvicino, in punta di piedi, stando in equilibrio da una zolla all’altra. La stringo. Le stacco la testa (67).

Matilde Sambo, Cantus ab aestu, ottone, 2018

       Altrove, nel quarto racconto, leggiamo dell’indecisione della voce narrante intorno all’incombenza matrimoniale. Nell’infermità della moglie d’un pizzicagnolo del piano superiore, il narratore vede proiettati tutti i dubbi intorno alla sua decisione sentimentale. Sporgendosi verso una meretrice, l’io narrante provoca lo schianto a terra di “una gabbia con un merlo” (26). Di nuovo, un’espiazione sacrificale. Una provvisoria soluzione dell’inquietudine.

       In altri casi, invece, i racconti sembrano testimoniare una sincera pietas nei confronti degli animali. Nel quindicesimo, la sola apparizione d’un ragno appeso al suo filo sembra placare l’angoscia della voce narrante (cfr. pp. 53-54). Nel ventesimo racconto l’improvvisa visione di una lucertola morta genera una pietas che stempera l’odio precedentemente accumulato (cfr. p. 63). Nel successivo, un ragazzo precipitato in una pericolosissima involuzione esistenziale è risollevato da un’inaspettata gioia apprendendo di aver contratto i pidocchi. Più avanti leggiamo d’un altro ragazzo sprofondato nella malinconia di un perduto amore. Ma ogni suo sentimento sembra dileguarsi di fronte al volo impazzito di una rondine (p. 74). 

Peju Alatise, Flying Girls, mixed-medium installation at the Venice Biennale in June 2017

       Nel racconto seguente la morte è invocata come soluzione di tutto. “Morte che non mi farai udir più le rane quando è vicino a piovere” (75). Il fastidio prodotto dall’animale è tutt’uno con la fatica di vivere – con la sporcizia di un’esistenza malata.

       Almeno in questo sono d’accordo con Cerami; tutto ciò non andrebbe visto come una mera collazione di episodi irrelati. L’opera di Tozzi ha un’armonia, o se non altro, una naturalezza che s’impone al lettore (un po’ come accade nei romanzi di Thomas Bernhard, quando non riusciamo a separarci dalla sua esasperazione, ossessivamente riproposta per decine di pagine).

Maurizio Cattelan, The Ballad of Trotsky, 1996, taxidermized horse, leather saddlery, rope, pulley, Castello di Rivoli, photo: Paolo Pellion di Persano

       Che cosa sono dunque queste bestie, al di là delle diverse occorrenze in cui si presentano? Quale nome potremmo inventare per l’interrogativo che ci presentano? “Perché quel pesce rosso, nascondendosi sotto le alghe, guizzò?” (p. 78). La domanda non equivale a quella classica, “perché l’essere e non piuttosto il niente?” Benché ci sia anche in Bestie una dimensione metafisica – uno scarto improvviso tra la descrizione naturalistica e qualcosa che bruscamente l’interrompe –, la domanda non è metafisica, e forse nemmeno filosofica.

       Eppure le domande, nel libro di Tozzi, sono molteplici, quasi ossessive. “Sapevo forse spiegarmi quel che fosse avvenuto? Non potevo io aver ucciso molta gente? Di che cosa temei, all’improvviso? Perché non morii in quel momento di dolore?” (p. 52). “Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto?” (80) “E chi dirà la gioia quando, grattandomi i capelli con l’unghie, la mamma mi disse che m’avevano attaccato i pidocchi?” (p. 65). “Perché, dunque, io vi soffrivo? Perché la mia anima non vi è mai voluta stare? Lo sapeva, forse, quella mia tartaruga che riuscii a tener chiusa in casa una sera, e la mattina dopo non la trovai più” (87).  “Ma chi può vedere, ne’ suoi occhi [d’una farfalla], l’espressione del suo dolore violento e improvviso?” (91).  “Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia?” (116).

Luigi Viola, Trumpeldor’s turtle, laserprint on plexiglass and aluminium, 2011

       Domande retoriche? E che cosa sarebbe una domanda retorica? Una domanda che contiene in sé la risposta? E chi l’avrebbe, la risposta? L’autore? Il lettore? Il critico? Oppure la bestia? Forse che Bestie è rivolto agli animali che misteriosamente appaiono al termine di ogni racconto? Sono loro i silenziosi interlocutori di Tozzi? O forse non esiste più una netta distinzione tra uomini e bestie, tra spirito e natura, come sembrerebbe emergere da alcuni racconti?

       Non direi. Non mi pare che Bestie anticipi il finale di Uno, nessuno e centomila, nel quale la falsa identità chiamata “Vitangelo Moscarda” finalmente si dissolve nel flusso indistinto del divenire. Il mondo umano, in Tozzi (non solo in Bestie) non mi sembra prossimo alla dissoluzione, nonostante le incertezze, gl’improvvisi collassi, le esitazioni. “Qualche volta mi viene da piangere ricordando il tempo ch’è passato. Ma non piango. Subito la forza della mia esistenza mi rimette con la realtà attuale; e, allora, le mie sensazioni sono anche più profonde”7. “Quando m’è venuta voglia di morire, allora ho vissuto più intensamente”8.

Damien Hirst, Shark, The physical impossibility of death in the mind of someone living, 1991, the Metropolitan Museum of Art, New York

        Il mondo di Tozzi, direi, non è segnato dalla dissoluzione ma dall’esitazione che abbisogna di un’improvvisa epifania per scuotersi.

Pensiamo alle esitazioni dell’anima. […] Quali sono le peggiori? Non c’è una legge generale, ma una regola speciale ad ogni singola anima. Perché l’anima è molto più proclive all’ordine di quanto può sembrare. Onde ogni anima ha una figurazione, secondo la quale dipendono anche i più lievi movimenti.
Un’anima può dare importanza a cose che non siano tali. E allora il peso delle conseguenze deve cercarsi là. Un’anima può essere lieta di quel che attrista e incattivisce l’altra. Una può essere piena di ombra mentre l’altra è ridente come un prato in fiore.
Ciò che è motivo all’una del soffermarsi, all’altra è spinta verso il suo destino.
Ma quando manca ogni motivo, l’anima se lo procura. E se non può ottenerlo, la maggior parte delle volte soffre. Perché l’immobilità è la cosa più dolorosa dell’anima. Non di meno, dovrà attendere che qualcuno la smuova; prima sentendosi essa soltanto chiamata.
Ma non tutte le anime obbediscono volentieri a sé stesse. Ce ne sono alcune che divengono come fiumi; altre sono proterve come le bestie che non vogliono oltrepassare qualche punto di una strada.
Ma bisogna riflettere che il tempo nelle nostre anime diventa infinito, e che noi siamo sotto l’ombra di qualche dio.
Dunque bisogna essere pronti ai comandi. Che importa se possono sembrare cattivi? L’anima è sempre in tempo ad avvedersene, a trarsi in dietro.
[…] I pensieri sono fitti come gli sciami; e, dopo un certo tempo, lasciano un poco di stordimento. Ma quante esitazioni si gonfiano? Poi la vetta si abbassa e si piega. E allora giunge il momento fatale per l’anima. Più nessuna aspettazione, nessuna riflessione che rivolga l’anima su sé stessa!
Ecco: le esitazioni ci guardano da lontano9.

       Ho parlato di epifania. Ma se le bestie non sono né cose né persone, non sono nemmeno epifanie del divino. Eppure, come tutte queste, giungono dall’esterno. Non sono nell’anima; non fanno parte dell’infinito gioco del soggetto con sé stesso; non appartengono ai suoi inesauribili autoinganni. Non sono buone, né cattive – soprattutto non sono umane, in nessun senso, nemmeno metaforico, del termine. Non decostruiscono l’anima, come in Montaigne e in Derrida; non si oppongono alla chiusura logo-fallocentrica del soggetto. In fondo non recano nemmeno un messaggio, probabilmente non dicono nulla. – Eppure, sì, sono un richiamo. Significano, senza nulla significare. Quasi fossero un avviso privo di sintassi e di semantica che l’anima riceve da un altrove indisponibile alle definizioni, come avrebbe osservato Derrida; eppure rivolto a noi, alla nostra anima esitante a rispondere.

Lucien Freud, Eli, etching, 2002

       Che genere di avviso? Difficile precisare. Le bestie sono mute e incomprensibili. Non dicono nulla – nemmeno lo cercano. All’improvviso appaiono e dispaiono. Ma forse nelle loro apparizioni vi è una richiesta, un appello. Un’esortazione alla conversione, alla trasformazione della nostra mente, senza che nulla d’altro si possa precisare. Una conversione a nulla, potremmo dire. A ciò che nella nostra vita vien meno.

       Potrebbe essere. “Mi vien da gridare, e chiedo perdono a Dio di esistere”10. Forse le bestie sono un appello, un’improvvisa richiesta di perdono. Forse hanno un significato – preziosissimo. O forse sono solo vane ombre di un altrove ormai dissoltosi. Chi può dirlo?

Note

1. F. Tozzi, Bestie, a cura di V. Cerami, Theoria, Roma-Napoli, 19933, pp. 51-52.
2. M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini con un saggio di S. Solmi, Adelphi, Milano, 20055, vol. 1, p. 584.
3. Cfr. J. Derrida, L’animale che dunque sono, Rusconi, Milano, 2021.
4. Sul tema, cfr. A. Tagliapietra, L’animale o la metamorfosi interdetta, “Giornale critico di storia delle idee” 4/2010, ora disponibile anche nel sito www.giornalecritico.it
5. Cfr. P. Ricoeur, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio della rivelazione, Jaca Book, Milano, 1983.
6. Cfr. Erasmo da Rotterdam, Lo scarabeo dà la caccia all’aquila, in Scritti teologici e politici, a cura di E. Cerasi e S. Salvadori, Bompiani, Milano, 2011.
7. F. Tozzi, Cose, ora in Opere, a cura di M. Marchi, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1987, p. 646
8. F. Tozzi, Persone, in ivi p. 711.
9. F. Tozzi, Barche capovolte, in ivi pp. 725-726.
10. F. Tozzi, Cose, cit., p. 631.

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  • Enrico Cerasi, docente di Filosofia della religione presso l’Università Vita-Salute san Raffaele di Milano, ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale per la seconda fascia in Filosofia teoretica e in Storia della Filosofia. Con Stefania Salvadori ha curato per Bompiani gli Scritti teologici e politici di Erasmo da Rotterdam. Si è occupato della teologia di Karl Barth, della questione della demitizzazione, del linguaggio religioso e della filosofia di Pirandello, sulla quale ha pubblicato due monografie (Quasi niente, una pietra. Per una nuova interpretazione della filosofia pirandelliana, Prefazione di E. Severino, Padova, 1999, e La vita nuda. L’anarchismo filosofico di Luigi Pirandello, Milano, 2016) e alcuni articoli in rivista e sul web. Sulla filosofia di Pirandello ha discusso anche in un programma condotto dal regista Fabrizio Falco e ideato da Felice Cappa, trasmesso il 28 giugno 2017 da Rai cinque cultura.

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