E però quella barbarie produceva una
vita meno lontana dalla natura, e meno
infelice, più attiva ec. di quella che
produce l’incivilimento non medio ma
eccessivo del nostro secolo.
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 423
Quando si parla di Giacomo Leopardi, va data cieca fiducia a Rolando Damiani, autore della fondamentale biografia All’apparir del vero (Mondadori, 2002) e di molteplici scritti che ne approfondiscono le innumeri problematiche, tra cui vanno ricordati i titoli pubblicati per Longo Angelo: L’impero della ragione. Studi leopardiani (1994), Leopardi e il principio di inutilità (2000), L’ ordine dei fati e altri argomenti della «religione» di Leopardi (2014) e Da Leopardi a Artaud. Una costellazione di letteratura assoluta (2021); di questa incandescente fucina di studi leopardiani è esito soprattutto la ricca curatela, per la collana mondadoriana dei «Meridiani», dei volumi dedicati a Prose, Zibaldone, e Lettere, nonché dell’Album Leopardi.
All’uscita recente, nel mese di gennaio, di un suo nuovo contributo leopardiano, Barbarie e civiltà nella concezione di Leopardi (collana «Leopardiana», Mimesis, 2023), ci si trova dinanzi a un vero e proprio narratore onnisciente del pensiero del poeta: capace di cucire assieme fili e trame invisibili al lettore inesperto, Damiani è lucida guida nei percorsi inesplorati di cui traccia inedite mappe. Si cammina in verticale, nel paesaggio stratificato di questo nuovo saggio, con discese profonde nel tempo in cui il conte Giacomo vergava pagine intime e chiari capolavori. Ogni volta, però, la guida esperta riporta l’escursionista su sentieri in salita, affinché gli consentano di vedere, in quel tempo altro, la verità del proprio. L’itinerario tra barbarie e civiltà è infatti anche un’implicita costante attualizzazione del pensiero leopardiano, ma senza travisamento alcuno, proprio in forza della visione d’insieme che ne ha l’autore.
Delle diverse antinomie leopardiane, barbarie/civiltà è tra le più calzanti nell’essere rilette in chiave contemporanea, oltre che il frutto di una riflessione che trascende l’intero evolvere del pensiero di Leopardi, che appena ventenne annotava sul proprio Zibaldone di pensieri (22): «E però non c’è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staël ec. ma barbaro; al che noi c’incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati». Oggi, quando più che mai si acuisce l’ossimoro che è già alla radice della vita, nella Natura che non conosce pace, che non si sostanzia di purezza perché è costante conflitto, continua ibridazione, arriva il libro di Damiani. Nelle sue pagine dense, è anche la scrittura a ibridarsi di continuo: con citazioni illuminanti, puntiformi o di ampli stralci, che suscitano spesso lo stupore del lettore nel trovare sovvertite le scolastiche gerarchie, secondo cui vi sarebbero categorie precostituite, opere maggiori e opere minori, come se di una sinfonia si dovesse ascoltare solo i crescendo. No, quella di Damiani è una lettura totale, non antologica, che – dopo un capitolo introduttivo, Medioevo e Rinascimento nei corsi e ricorsi della storia, di taglio storico-culturale, in esergo al quale barbagliano i versi di Aspettando i barbari di Costantino Kavafis – restituisce luce a pagine come quelle satiriche dei Nuovi credenti nel secondo capitolo omonimo, nel quale Damiani ridà dignità a pagine per decenni declassate a «documento quasi folcloristico» per contenuto, «composizione fallimentare» per forma. Damiani invece ne comprende la centralità, in dialogo con l’acume di Mario Luzi quando si interrogava: «Quanto aveva camminato Leopardi sul cammino della morte quando scrisse I nuovi credenti?».
Chiarito questo punto, quasi apicale, della salita al pensiero di Giacomo Leopardi, nel terzo capitolo scende nelle profondità in cui, giovanissimo, il poeta aveva iniziato a svilupparne i fondamenti: Barbarie e civiltà opposte e coincidenti è una visita guidata alla cava da cui il Recanatese ha spietrato la materia prima di tante sue architetture supreme, pensate per avere come sfondo quell’infinità universale che, nello «studio matto» della giovinezza, lo aveva portato a compilare una Storia dell’astronomia, in cui Damiani riconosce altri frammenti ingenui del mosaico maturo nel capitolo Il primo sapere. L’antinomia barbarie/civiltà si amplia poi all’orizzonte linguistico nel capitolo Regolarità e decadenza della lingua, dove l’autore propone una sosta fiorentina, a scandagliare i rapporti di Leopardi con la Crusca: una diversa concezione del lessico rispetto alle tesi prevalenti nel suo tempo, ancora in polemica tra ieri e oggi, senza farsi mancare potenti sferzate contro i mostri sacri della nostra storia della lingua; sono pagine attuali allora come ora, quando viviamo dibattiti surreali sulla lingua da usare o disusare, e nemmeno per bocca di consumati linguisti, come erano invece molti degli interlocutori cui Leopardi indirizzava le proprie critiche…
Nel sesto capitolo il discorso, fin qui imperniato principalmente sull’umano, accelera verticalmente con una virata verso quell’assoluto di cui Rolando Damiani conosce i principi primi e che sa indagare scientemente solo chi, come lui, intende la letteratura come la intese già Roberto Calasso in La letteratura e gli dèi. Sotto il titolo Gli angeli dell’immaginazione sonda, misurandosi ancora con giacimenti leopardiani poco esplorati come l’Inno agli angeli e il poemetto I Re Magi, il rapporto col divino o, meglio, il luogo d’incontro tra fisico e metafisico, da cui scaturiscono le giovanili illusioni e lì dove si generano le immaginazioni.
Si approda così a uno dei lidi prediletti della ricerca del Damiani leopardista, l’analisi dell’inutile in contrapposizione al dominio dell’utile, uno dei filoni più attuali sottesi alla ricerca leopardiana, riassunto nell’aforisma necessario: «Il dilettevole è più utile dell’utile». Ne parla trattando La religio dei Canti, a partire da una citazione introduttiva d’obbligo (l’epigrafe della Ginestra o il fiore del deserto, tratta da Giovanni, III, 10: «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce») e pronunciando i principi di un credo necessario che si sostanzia di pessimismo, per salvarsi da quelle credenze contraffatte già inquadrate nella parte introduttiva di Barbarie e civiltà nella concezione di Leopardi.
È in questo senso che il capitolo finale, Civiltà del bon ton, si configura anche come una lezione di filosofia della vita moderna, che ha senso soltanto nel «risorgimento» di una joie de vivre «ellenista», se si vuole guardare a una civiltà vigorosa che non ceda agli svilimenti della barbarie. La guida pratica che fornisce Leopardi è innervata nel suo stesso esistere, nella sprezzatura con cui sovrintende ai rapporti con gli uomini e la realtà del proprio tempo. Damiani spiega che «Leopardi concepisce il bon ton come un principio quasi “religioso” di concordia discors fra individui di una società stretta, necessaria nella stessa modernità dei propri costumi a condurre e mantenere una nazione a un alto grado civile», accompagnandoci dunque nella lettura del bugiardino della medicina leopardiana contro la malattia che fa il mondo «un serraglio di disperati, e forse anche un deserto». Così, confrontandosi con pagine e con nomi necessari – e tra gli altri entrando in dialogo con una sensibilità vicina a quella del già citato Mario Luzi, Cristina Campo – perviene, dal buio delle tenebre che spegnevano i fiochi lumi di civiltà allora come ora, alla luminosa scelta ultima di Leopardi, con la tragica leggerezza della «semplicetta farfalla al lume avezza» cantata da Francesco Petrarca: contemplare la luce e nella luce morire.
Immagine di copertina
“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”, foto di Paolo Steffan
*
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.