RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

La bella confusione. L’anno di Fellini e Visconti

[Tempo di Lettura: 13 minuti]

di Antonio Costa

«Un libro, il vostro, che si legge come un romanzo». Chissà quante volte Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, autori di Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di “destra” in un successo di “sinistra, si sono sentiti rivolgere frasi come questa. Personalmente considero Operazione Gattopardo non solo uno dei migliori saggi di storia del cinema italiano pubblicati da molti anni a questa parte, ma anche un libro dotato di ariosità espositiva e originalità di approccio che difficilmente trovano uguali nella nostra produzione saggistica corrente, almeno in campo cinematografico.

Mi chiedo se qualcosa di simile, ma di segno opposto, sia capitato a Francesco Piccolo autore del romanzo La bella confusione. Ci sarà stato qualche lettore che gli abbia detto: un romanzo, il tuo, che si legge come un saggio di storia del cinema? È del tutto improbabile che il paragone con un saggio di storia del cinema possa essere usato come un elogio, visto che gran parte della nostra saggistica cinematografica riesce ormai a concentrare in sé tutti i vezzi dell’accademia e della cinefilia più ossessiva. Ma il romanzo di Francesco Piccolo non ha né gli uni né gli altri. 

Se lo consideri un saggio di storia del cinema, devi ammettere che sa combinare leggerezza del tocco e vastità di documentazione. Se invece lo consideri un romanzo, e più precisamente un romanzo di formazione, non puoi fare a meno di sottolineare l’originalità della sua struttura, della quale qui di seguito si dirà.

In questo libro, Francesco Piccolo narra le vicende parallele della realizzazione di 8½ e Il Gattopardo. I due film sembrano non avere proprio nulla in comune e, anzi, rischiano di apparire espressioni di due antitetiche visioni del mondo, di due opposti metodi di fare cinema. Piccolo precisa al proposito che se riuscirà, con il libro che sta scrivendo, a rappresentare la «bella confusione» di nella quale s’identifica totalmente, questo succederà non con il metodo 8½, ma con il metodo Gattopardo (p.114). L’unico elemento che i due film hanno sicuramente in comune, è l’attrice Claudia Cardinale, impegnata alternativamente in ambedue i set. Attraverso le vicende biografiche dell’attrice, dei due autori e del variegato mondo di intellettuali, politici, critici e scrittori che li circonda, Piccolo non solo riesce a restituirci il clima di una stagione irripetibile del nostro cinema, ma tratteggia anche il proprio, personale romanzo di formazione: «l’autobiografia è una delle questioni fondamentali di questo libro» (p.179).

Come si può essere fellino-viscontiani

Mentre stavo scrivendo queste righe, sullo schermo del mio computer s’è affacciato un post con la notizia che Francesco Piccolo era il vincitore del premio Viareggio-Repaci 2023 per la saggistica con La bella confusione, che ha per sottotitolo L’anno di Fellini e Visconti (da ricordare che La bella confusione era il titolo di lavorazione che il film di Fellini aveva prima di diventare ).

I giurati del premio Viareggio hanno quindi optato per l’appartenenza del libro di Piccolo al campo della saggistica. Resta però il fatto che il suo libro è stato pubblicato nella più prestigiosa collana di romanzi dell’editore Einaudi e che nei risvolti di copertina esso è più di una volta chiamato romanzo.

Siamo in piena fluidità dei generi, e dei media: sembrano ormai caduti gli steccati tra fiction e non fiction, tra memoir e romanzo, tra mezzo cinematografico e parola letteraria. 

La domanda da porre non è come sia possibile vincere il Viareggio della saggistica con un romanzo, ma che significato dare a questo scavalcamento di generi. E, assieme a questa domanda, un’altra va fatta, addentrandoci meglio nel tema del libro: come è possibile essere fellino-viscontiani? Cominciamo da quest’ultima.

Piccolo dà avvio alla sua narrazione accreditando come veritiera sulla base di una ricca documentazione, la “leggenda” del conflitto tra Fellini e Visconti. Tutto era cominciato, ci racconta l’autore, alla Mostra di Venezia del 1954, quando La strada di Fellini e Senso di Visconti si trovarono in lizza per il Leone d’oro. Secondo voci di corridoio, quell’anno il premio sarebbe sicuramente toccato a un film italiano, cosa fino allora mai accaduta. L’ambìto trofeo non andò né a Fellini né a Visconti, ma a Renato Castellani per Giulietta e Romeo. Il Leone d’argento, una sorta di premio di consolazione, andò invece al film di Fellini, mentre nessun riconoscimento toccò a Visconti. Questa scelta di favorire Fellini a scapito di Visconti venne interpretata come un affronto da coloro che nel dopoguerra maggiormente si erano battuti per affermare una visione politica progressista ed un’estetica realista, identificate con l’opera di Visconti. Il quale d’altra parte si era apertamente schierato con il PC, aderendo alla sua politica in campo cinematografico e culturale. Visconti aveva esordito ancor prima della caduta del fascismo con Ossessione (1943), negli stessi anni in cui era iniziata la sua collaborazione con intellettuali quali Alicata, Ingrao, Trombadori che, dopo la fine della guerra, assumeranno posizioni di rilievo nell’ambito della politica culturale del PC. Con il successivo La terra trema (1948), Visconti aveva proposto una rilettura in chiave progressista del romanzo ottocentesco I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga, traducendo in termini di lotta di classe quella che nel romanzo era rappresentata come lotta contro il Fato. In questo ambito Senso era stato interpretato come un superamento del neorealismo e un approfondimento di tematiche realiste secondo la linea interpretativa dello storicismo gramsciano.

La strada, al contrario, appariva uno stravolgimento dell’eredità del neorealismo, nel cui ambito Fellini aveva mosso i primi passi quale assistente e sceneggiatore di Rossellini, in quanto indugiava su una visione mistica e trascendente della realtà. Alla consegna del Leone d’argento a Fellini le due avverse fazioni dei viscontiani e dei felliniani furono assai vicine allo scontro fisico e di conseguenza s’andarono accentuando le tensioni e rivalità tra i due “partiti” e, sul piano personale, tra i due registi che per lungo tempo non si risparmiarono sgarbi e frecciate di tutti i tipi.

Da provetto sceneggiatore, Francesco Piccolo organizza il suo materiale narrativo secondo la struttura dei tre atti, vivamente raccomandata da Robert McKee, guru degli sceneggiatori hollywoodiani. Dopo l’introduzione, cioè presentazione dei personaggi, ambientazione, ecc. (primo atto), viene dato spazio al conflitto e al suo sviluppo (secondo atto) e, infine, viene messa in scena la sua ricomposizione (terzo atto). Realtà o leggenda che fosse, il conflitto tra Fellini e Visconti è un ottimo collante per la tenuta narrativa del romanzo che trova la sua risoluzione nella realizzazione pressoché contemporanea dei due film, e Il Gattopardo, che porta a compimento, sia pure tra innumerevoli difficoltà e intoppi, un processo di maturazione che modifica radicalmente lo stato delle cose, non solo sul piano della rivalità tra i due registi, ma anche su quello della “battaglia delle idee” che domina la scena politica e culturale dell’Italia del dopoguerra.

Da Il Gattopardo di Luchini Visconti

Francesco Piccolo non si limita a narrare con ricchezza di dettagli le vicende attraverso le quali Il Gattopardo e hanno acquisito la forma che conosciamo e che ha consentito loro di assumere un posto ineguagliabile nella storia del cinema, e non solo del cinema. Fondamentale è lo spazio che Piccolo dedica alla difficile scelta di Fellini tra i due differenti finali di , alle incertezze e ai dubbi attraverso i quali è passato prima di allontanarsi dalla sceneggiatura originaria. Rivedendo, dopo averla girata, la scena del ristorante, egli ha la percezione che essa consegni i personaggi ad una prospettiva di morte, di annullamento; e si convince che non poteva essere questa la conclusione del film. Lascia quindi cadere la scena del vagone ristorante e “inventa” il carosello finale dei personaggi.

Francesco Piccolo arriva così a narrare lo scioglimento del film, citando tra virgolette la perorazione di Guido (Marcello Mastroianni) alla moglie Luisa (Anouk Aimée), che si conclude con queste parole: questa confusione sono io, io come sono e non come vorrei essere

Luisa (Anouk Aimée), da di Federico Fellini

Ed è su questa frase che avviene la saldatura tra la dimensione oggettiva della storia del set di e quella soggettiva della conquista di una rinnovata consapevolezza da parte del protagonista-narratore. In tal modo Piccolo riesce a portare a termine, attraverso la cronaca dettagliata del processo di produzione di due film, il proprio romanzo di formazione. Il quale finisce con le stesse parole con le quale Fellini aveva concluso il suo film: questa confusione sono io, io come sono e non come vorrei essere

Cosicché Tullio Kezich, autore di una fondamentale biografia di Fellini, può sentenziare che non c’è più incompatibilità tra Fellini e Visconti, che ci si può tranquillamente definire fellino-viscontiani. La curiosa formula è ricalcata sul titolo di un famoso articolo di André Bazin, Comment peut-on être hitchcocko-hawksien? Con quell’intervento il padre spirituale della Nouvelle Vague correva in aiuto dei suoi giovani colleghi attaccati da più parti perché avevano osato promuovere Renoir e Rossellini e, insieme, Hitchcock e Hawks (si introdusse scherzosamente la formula doppio fattore RH). Nel nostro contesto si trattava di riconoscere la piena legittimità di promuovere nello stesso tempo Fellini e Visconti, cioè due autori che, a torto o a ragione, erano diventati vessilli di due opposte concezioni del mondo e del cinema.

Vitalità e messa in scena

Come è stata possibile questa conciliazione tra gli opposti? E perché lo scrittore può riconoscersi pienamente in essa attraverso la conquista di una maggior consapevolezza di sé e del mondo circostante, meta per così dire obbligata di ogni romanzo di formazione?

Riflettendo sul libro di Piccolo, che è insieme cronaca cinematografica e narrazione autobiografica, ho più volte pensato a Zoo o lettere non d’amore (1923) di Viktor Šklovskij. Si tratta di una sorta di romanzo epistolare-canzoniere, nel quale il protagonista è perdutamente innamorato di una donna affascinante e altera che gli impone di non parlare mai d’amore nelle lettere che le scrive da Berlino dove è esiliato. Sklovskij accetta e così maschera il suo amore sotto cronache e resoconti di mostre, party letterari, riflessioni teoriche sulla letteratura e sul teatro. Allo stesso modo, Francesco Piccolo maschera sotto la cronaca dettagliata dei due set,i frammenti di un discorso innamorato (preferisco tradurre così il famoso discours amoureux di Barthes). Il segreto di questo innamoramento è la vitalità di cui sono espressione i due film e, più in generale, il cinema italiano degli anni sessanta, e più esattamente dell’anno 1963, l’anno di Fellini e Visconti. 

Raccontando la genesi dei due film, Francesco Piccolo non solo riesce a tratteggiare un momento particolarmente felice del cinema italiano e dell’attività creativa dei due autori, ma nello stesso tempo ci dà il resoconto di una straordinaria forma di identificazione tra la propria, individuale vicenda autobiografica (autobiografia di uno spettatore, per riprendere un celebre titolo di Calvino) e le straordinarie concomitanze che caratterizzano quella che Gianni Canova recensendo il libro di Piccolo ha chiamato l’età dell’oro del cinema italiano. Una stagione che si svolge all’insegna della vitalità, parola chiave del memoir di Francesco Piccolo. 

Piccolo racconta che, quando va a Parigi per intervistare Claudia Cardinale, la protagonista assoluta della sua narrazione, comincia a leggere Yoga, il best seller di Emmanuel Carrère. E, inaspettatamente, questa lettura gli fa capire che si tratta di un libro che ha a che fare con e che la vitalità è la caratteristica più potente del film di Fellini. Non mi sono stupito: il clima suggerito dal Come si può essere hitchcocko-hawksiani? che ho sopra evocato rende familiari voli di questo tipo. Come quando Truffaut, in uno degli articoli di I film della mia vita, annota che Fratelli messicani di Ulmer è il primo film che gli dà l’impressione che una versione cinematografica del romanzo Jules e Jim di Henri-Pierre Roché sia possibile. O come quando Francesco Piccolo fa risalire alla lettura di La famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg l’idea di scrivere un libro su Fellini e Visconti: «e se un’opera ti sta suggerendo qualcosa, devi seguirla» (p. 113).

Burt Lanchester e Claudia Cardinale, in Il Gattopardo, di Luchino Visconti

Piccolo s’interroga più volte sull’estrema vitalità (la definizione è sua) di , un «incomprensibile mistero» che egli enuncia in questi termini: «come sia possibile che un film che parla di un uomo che non sa più cosa fare, che è in crisi su tutto, che scappa da tutto, dia come risultato un film che ha nella vitalità la sua evidenza maggiore, che ti fa uscire dalla visione con una forza e una voglia strepitosa di aggrapparti alla vita».

Se questa idea di vitalità è la chiave per comprendere il significato della totale, incondizionata adesione di Piccolo a , ma anche dell’accostamento tra i due film che egli propone, la stessa idea di vitalità è una componente altrettanto essenziale della messa in scena di Visconti. Ne troviamo una significativa traccia in una dichiarazione di Visconti rilasciata al figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa.  Giovacchino Lanza Tomasi. Anile e Giannice nel loro già citato libro su Visconti, libro è stato fonte d’ispirazione e guida preziosa per Piccolo, richiamano la nostra attenzione su questa dichiarazione (pp. 211-212). Visconti osserva come Tomasi veda la storia esclusivamente dal lato del principe, mentre è sua intenzione mostrare non solo lo splendido tramonto del principe, ma anche il fermento di vita di tutto quel mondo (personaggi, ambienti, paesaggio), di tutta quella collettività che lo circonda e che è d’altronde la causa del declino del Gattopardo. Ed ecco così enunciata con estrema semplicità e efficacia l’idea centrale della messa in scena di Visconti: una sorta di dissolvenza incrociata tra un mondo che si va spegnendo e un nuovo mondo che si espande con la sua rinnovata vitalità. Dare spazio a questo mondo: questa è la via scelta da Visconti per portare a compimento il romanzo incompiuto di Tomasi di Lampedusa, come preciserò meglio più avanti.

Testo e contesto

Se come ci mostra Piccolo quello della vitalità è un passaggio obbligato per la comprensione del senso della messa in scena dei film di Fellini e Visconti, esso è altrettanto importante per definire il clima di quella impareggiabile stagione del cinema e della cultura italiana.

Non sarà difficile registrare altre presenze della parola vitalità in testi contigui a . Vediamone alcune. Per esempio nella recensione che Moravia dedica al film di Pasolini La ricotta, episodio del film collettivo RoGoPaG, rigorosamente contemporaneo di : il film di Pasolini esce il 19 febbraio 1963, mentre quello di Fellini il 14 dello stesso mese. Inoltre ambedue sono dedicati alla narrazione di un film in fase di allestimento, sono cioè dei metafilm, come si cominciava già a dire nei primi anni sessanta.

Moravia afferma in modo perentorio che il film di Pasolini presenta i caratteri della genialità, per precisare subito dopo come per genialità egli intenda una certa qualità di vitalità allo stesso tempo sorprendente e profonda. E, per chiarire meglio il suo pensiero, Moravia aggiunge una notazione che ha il valore di un’intuizione critica della massima importanza. In sostanza, egli ci dice che La ricotta ha la complessità, ricchezza di toni e varietà di livelli delle poesie di Pasolini. E subito il nostro pensiero corre al poemetto Una disperata vitalità che occupa la parte centrale della raccolta Poesia in forma di rosa, che sarà in libreria l’anno successivo alla recensione di Moravia.

Nel poemetto Una disperata vitalità, Pasolini mette in scena un percorso in auto da Fiumicino a Roma, dopo aver accompagnato l’amico Moravia all’aeroporto. Adottando un procedimento simile al flusso di coscienza adottato da Fellini in , egli alterna osservazioni sul paesaggio, considerazioni su resti e rovine che ormai nessuno più comprende, dei flash-back di una sorta di “diario intimo” degli anni di Casarsa e una divertente prefigurazione di un’intervista che sta per concedere a una giornalista di destra, Gianna Preda, che peraltro era stata sua compagna di scuola al Liceo Galvani di Bologna. E qui ritroviamo gli accenti e le impennate dell’intervista di Orson Welles con il giornalista Pedoti, inviato di «Tegliesera» che gli ispira l’indignata invettiva contro l’«uomo medio» nel film La ricotta). Il poemetto, con le sue strofe iniziali scandite dall’anafora «Come in un film di Godard» che produce un effetto di accumulo e di crescendo, ci appare come un corpo a corpo tra la forma poetica e la sintassi cinematografica.

Vitalità era anche la parola chiave della recensione di Pasolini a La dolce vita di Fellini. Per quanto non accreditato nei titoli di testa, Pasolini aveva collaborato alla scrittura del film di Fellini. Pasolini, dopo aver definito la miriade di personaggi che popolano la Roma di Fellini cinici, meschini, egoisti, viziati, presuntuosi, vigliacchi, inaspettatamente dichiara che essi portano una ventata che a suo modo è pura e vitale. E richiama in causa il concetto di vitalità affermando in modo perentorio di non aver mai visto un film in cui tutti i personaggi siano così pieni di felicità di essere. E precisa che anche le cose dolorose e la tragedia si configurano come fenomeni carichi di vitalità, come spettacoli, suggerendo in tal modo una sorta di coincidenza tra vitalità e spettacolo.

Da Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti

Epilogo ovvero il non finito

Il romanzo incompiuto (o se si preferisce non finito) di Tomasi di Lampedusa viene portato a compimento dal film di Visconti. Qui bisogna intenderci bene sul significato di incompiuto. Il fatto che il romanzo dia un’interpretazione dell’epopea risorgimentale limitata al punto di vista del principe, è, secondo le dichiarazioni di Visconti l’aspetto più vistoso di questa incompiutezza. Portarlo a compimento non può significare aggiungere o immaginare capitoli o paragrafi mancanti. Anzi: Visconti va in tutt’altra direzione, tralasciando per esempio il capitolo della morte del principe.  La soluzione non sta nell’aggiungere o immaginare qualche paragrafo o qualche capitolo mancante, ma nell’adottare una prospettiva capace di filtrare le qualità stilistiche del testo e di assorbirle nel processo della messa in scena cinematografica.

Questo era l’intento di Visconti e La bella confusione diventa il romanzo di formazione del film, anzi dei due film, cioè la narrazione di come i due film hanno preso forma. Ed è osservando le fasi di questo processo di formazione di ciascun film che il narratore fa la storia della propria formazione grazie alla scoperta del cinema dei primi anni sessanta narrati come se si trattasse del primo giorno della creazione. È come se l’autore avesse deciso di evitare le sabbie mobili dell’autobiografia e di narrare il proprio romanzo di formazione attraverso il romanzo di formazione di due film. Ed è questa la vera novità di questo romanzo.

Resta ora da chiederci se i giudici del Viareggio-Repaci hanno fornito un buon servigio a La bella confusione, attribuendogli il premio della saggistica. Certo, un premio è sempre un premio. Ed anche questo Viareggio-Repaci 2023 avrà un effetto benefico sulla diffusione del libro di Piccolo e di una migliore conoscenza dell’«avventurosa storia del cinema italiano» da parte di un pubblico più vasto di quello che abitualmente segue la saggistica cinematografica. Non sono però sicuro che il premio contribuirà alla comprensione dell’originalità dell’opera di Piccolo, consistita nello scrivere un romanzo di formazione sotto forma di una cronaca cinematografica. Quella che ci viene raccontata è la cronaca di due set che interferiscono con la vita reale e interferiscono tra di loro, al punto che a causa del contemporaneo impegno di Claudia Cardinale nel Gattopardo e in ,è potuto accadere che il personaggio da lei interpretato nel film di Fellini non compaia in due sequenze in cui avrebbe invece dovuto esserci: la scena dell’harem e il carosello finale. E non può comparire perché gli impegni sottoscritti con la produzione di Visconti le impediscono di fare un sia pur rapido ritorno sul set di Fellini.

L’idea fondamentale del libro di Piccolo sta nell’assumere l’evento casuale, imprevisto come principio strutturale della composizione filmica, e in particolar modo di . In questo sta, a giudizio di Piccolo, la superiorità del film di Fellini. E in questo sta la differenza tra la narrazione dei set dei due film e un libro di critica. 

Da una parte, ci fa intendere Piccolo, c’è la critica cinematografica, che presuppone unità d’intenti e coerenza strutturale. E sono tali presupposti che stanno alla base dell’eccezionale esito di Il Gattopardo

Dall’altra c’è la narrazione che assume come proprio oggetto la vita reale, con i suoi ostacoli, imprevisti, incoerenze: «non sono degli ostacoli, ma gli elementi stessi di cui il film viene via via componendosi»; e ancora: «non solo fanno parte del viaggio, ma sono il viaggio stesso» (p.176). Nella narrazione di Piccolo ci mostra come la vita reale irrompa nella dimensione dell’opera e ne condizioni forma e contenuti: a confermarlo è l’assenza di Claudia nelle due sequenze citate.

Riferimenti 

Alberto Anile e M. Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di “destra” in un successo di “sinistra”, Feltrinelli, Milano 2014. 

André Bazin, Comment peut-on être hitchcocko-hawksien?, in Cahiers du cinéma», n. 45, 1955; trad. it. in Giovanna Grignaffini (a cura di), La pelle e l’anima. Intorno alla Nouvelle Vague, La Casa Usher, Firenze 1984. 

Gianni Canova, 1963: l’età dell’oro del cinema italiano, in «Ottoemezzo», n. s., n. 69, autunno 2023, pp. 72-73.

Edgar G. Ulmer, Fratelli messicani (The Naked Dawn, Usa, 1955).

Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano 2002.

Pier Paolo Pasolini, La dolce vita: per me si tratta di un film cattolico, in «Il reporter», 23 febbraio 1960; riprodotto in Antonio Costa, Federico Fellini. La dolce vita, Lindau, Torino, pp. 178-186.

Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964; poi in Id., Le poesie, Garzanti, Milano 1975, pp. 325-547. 

Francesco Piccolo, La bella confusione. L’anno di Fellini e Visconti, Einaudi, Torino 2023.

Viktor Šklovskij, Zoo o lettere non d’amore [ed. or. 1923], a cura di Maria Zalambani, Sellerio Editore, Palermo, 2002

Tomaso Subini, Pier Paolo Pasolini, La ricotta, Lindau, Torino 2009.

Immagine di copertina, Claudia Cardinale in  di Federico Fellini

  • Antonio Costa

    Antonio Costa (Feltre, 1942), saggista e storico del cinema. È stato a lungo collega di Giuliano Scabia all’Università di Bologna dove ha insegnato Storia del cinema e dove ha diretto il Dipartimento di Musica e Spettacolo dal 1995 al 1998. Successivamente è passato all’Università IUAV di Venezia dove ha insegnato Cinema e arti visive presso la Facoltà di Arti e Design. Tra i suoi libri più recenti, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock (Einaudi 2014, Premio Efebo d’oro) e Il richiamo dell’ombra (Einaudi 2020) e Il cinema italiano (Il Mulino/Farsi un’idea, 2021).

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