Mostra fotografica di Andrea Rizza Goldstein
a cura di Ziyah Gafić
E’ aperta fino a domenica 1° maggio a Treviso, negli spazi Bomben, la mostra fotografica Io non odio/Ja ne mrzim. La storia di Zijo, di Andrea Rizza Goldstein.
Realizzata dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche con la collaborazione della Fondazione Alexander Langer Stiftung, la mostra/reportage nasce grazie a un lavoro di conoscenza e a un’amicizia fraterna instaurata nel 2011, nell’ambito della Settimana Internazionale della Memoria organizzata in Bosnia-Erzegovina dalla stessa Fondazione Langer.
Zijo Ribić è miracolosamente sopravvissuto alla strage della sua famiglia e di tutti gli abitanti di Skocić, piccolo villaggio della Bosnia orientale, avvenuta nel luglio 1992. È il primo rom che ha portato in tribunale la questione del genocidio subito dal suo popolo durante la guerra in Bosnia-Erzegovina.
Il reportage è un long-term project, che attraverso trenta immagini in bianco/nero, scattate tra il 2013 e il 2016, racconta la storia di Zijo. «La sua battaglia per la verità e per la giustizia, la sua attenzione a definire con precisione le responsabilità senza generalizzare e soprattutto la sua scelta di perdonare hanno aperto nuove prospettive nel difficile tentativo di dialogo e confronto con il passato – afferma Andrea Rizza Goldstein – La sua storia e il suo messaggio hanno costruito dei ponti e hanno avuto la potenza, concreta, basata sulla tragedia vissuta, di dimostrare che è possibile non odiare».
La mostra è stata inaugurata l’8 aprile scorso con un incontro pubblico che, con Zijo Ribić e Andrea Rizza Goldstein (Fondazione Alexander Langer Stiftung, Bolzano), ha coinvolto la sociologa Nataša Kandić (Humanitarian Law Center, Belgrado). «Io non odio/Ja ne mrzim sono le tre parole di Zijo Ribić alle quali maggiormente teniamo – ha affermato Patrizia Boschiero, che segue questo lavoro in Fondazione Benetton – che ogni volta ci sorprendono e ci sfidano, e rinforzano la voglia di raccontare la sua storia, di sostenerlo nel dare voce alla sua battaglia per la verità e la giustizia, e per la dignità dell’essere umano».
Organizzata nel solco della campagna culturale del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino 2014 conferito ai villaggi di Osmače e Brežani, Srebrenica, Bosnia-Erzegovina, la mostra è dedicata a Ismet, Ševka, Zlatija, Zijada, Suvada, Almasa, Ismeta, Zlata e Sabrija, i genitori, le sorelle e il fratello di Zijo; è accompagnata da un quaderno con una selezione delle fotografie e alcuni testi che, con la sua storia, affrontano il contesto della guerra in ex-Jugoslavia degli anni novanta e la questione delle “pulizie etniche” e dello slow motion genocide. Tra gli autori anche Irfanka Pašagić (Tuzlanska Amica/Premio Internazionale Alexander Langer 2005), Nataša Kandić (Humanitarian Law Center di Belgrado/Premio Langer 2000), Valentina Gagić (Adopt Srebrenica), Bekir Halilović (Adopt Srebrenica).
Orari Mostra
martedì-venerdì ore 15-20
sabato e domenica ore 10-20
lunedì 25 aprile ore 10-20
ingresso libero
Ulteriori dettagli al seguente link.
Conversazione con Andrea Rizza Goldstein
di Diego Lorenzi
Prima di entrare nel dettaglio del tuo progetto di documentazione fotografica in mostra a Palazzo Bomben, vorrei chiederti di cosa si occupa esattamente la Fondazione Langer e quali sono attualmente le proposte più rilevanti.
La Fondazione Alexander Langer Stiftung si propone di sostenere gruppi e singole persone che contribuiscano con la loro opera a mantenere viva l’eredità del pensiero di Alexander Langer e a proseguire il suo impegno civile, culturale e politico; di promuovere la difesa dei diritti dei singoli e dei gruppi minoritari contro ogni discriminazione di natura economica, religiosa, razziale, sessuale; di stimolare la ricerca di soluzioni solidali, democratiche e giuste ai bisogni e ai conflitti che attraversano le società; di promuovere riflessioni ed azioni concrete in direzione di una conversione ecologica dell’economia, del lavoro e degli stili di vita.
Oltre alla costituzione dell’archivio Langer, una delle attività che l’hanno maggiormente caratterizzata è stato il Premio Internazionale Alexander Langer http://www.alexanderlanger.org/it/2 e la correlata serie di eventi di approfondimento denominata Euromediterranea.
Dal 2005, in occasione del conferimento del Premio Internazionale Alexander Langer a Irfanka Pašagić, psichiatra originaria di Srebrenica, nasce l’idea del progetto Adopt Srebrenica, che nel corso degli anni è diventato una delle “travi portanti” della Fondazione. L’idea del progetto nasce con la volontà di mantenere viva l’attenzione internazionale su Srebrenica e di verificare, in uno dei contesti più complessi del post-conflitto bosniaco, l’attuabilità del punto conclusivo del “Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica” http://www.alexanderlanger.org/it/32/104 di A. Langer:
10. Le piante pioniere della cultura della convivenza: gruppi misti inter-etnici
Un valore inestimabile possono avere in situazioni di tensione, conflittualità o anche semplice coesistenza inter-etnica gruppi misti (per piccoli che possano essere). Essi possono sperimentare sulla propria pelle e come in un coraggioso laboratorio pionieristico i problemi, le difficoltà e le opportunità della convivenza inter-etnica. Gruppi inter-etnici possono avere il loro prezioso valore e svolgere la loro opera nei campi più diversi: dalla religione alla politica, dallo sport alla socialità del tempo libero, dal sindacalismo all’impegno culturale. Saranno in ogni caso il terreno più avanzato di sperimentazione della convivenza, e meritano pertanto ogni appoggio da parte di chi ha a cuore l’arte e la cultura della convivenza come unica alternativa realistica al riemergere di una generalizzata barbarie etnocentrica.
Nasce quindi con questa volontà di sperimentare le potenzialità di un gruppo misto (ragazzi e ragazze bosgnacchi/e e serbi/e) il percorso di dialogo e confronto con il passato Adopt Srebrenica.
Dal 2014, a seguito del Premio Internazionale Alexander Langer conferito all’associazione Borderline Sicilia, la Fondazione Langer ha cominciato un percorso di creazione di rete tra soggetti nazionali e internazionali attivi nella questione dei flussi migratori e di monitoraggio della situazione locale dei flussi (Brennero border monitoring) e dell’accoglienza, proponendosi come elemento di coagulo di diverse esperienze locali e nazionali e come elemento critico riguardo alla violazione dei diritti dei richiedenti asilo. http://www.alexanderlanger.org/it/895
Abbiamo letto com’è nata la tua collaborazione con Zijo Ribić ed il lavoro di documentazione presso il Centro Adopt Srebrenica. Ma al di là dell’assoluta importanza di un lavoro documentale, quali sono gli altri progetti che avete attivato come Fondazione per non disperdere il patrimonio storico-culturale e la “memoria” del popolo bosniaco?
A dispetto del nome – Fondazione – siamo una realtà piccola (sia in termini di organico, che di risorse finanziarie) e forse il riferimento al patrimonio storico-culturale e alla memoria del popolo bosniaco è sovradimensionato rispetto alle nostre forze e rispetto alla nostra scelta di approccio alle varie questioni che incontriamo… è un approccio “dei piccoli” e dal basso.
Dal 2010 abbiamo iniziato a proporre dei percorsi di conoscenza e formazione a diverse scuole superiori del nostro territorio, prendendo spunto da quella che abbiamo definito la “lavagna didattica” Srebrenica e da tutti gli interrogativi con i quali ti “costringe” a confrontarti: rispetto dei diritti umani, cultura della convivenza e della nonviolenza, antidiscriminazione, educazione alla pace, gestione creativa dei conflitti, conoscenza della storia europea, ecc. Con la costituzione dell’International Network for Srebrenica, al quale hanno aderito diverse istituzioni, enti di ricerca e associazioni italiane, abbiamo avuto la possibilità di proporre i percorsi formativi a istituti superiori di Trieste, Venezia, Treviso, Ferrara, Pescara, ecc. Diverse di queste scuole superiori hanno poi deciso di sostenere un viaggio di conoscenza dei loro studenti in Bosnia-Erzegovina. Sia gli incontri di formazione, che i viaggi di conoscenza rappresentano delle importanti occasioni di divulgazione – rivolte principalmente alle generazioni più giovani – della memoria recente dei conflitti jugoslavi e del genocidio di Srebrenica. In questi anni ho lavorato con alcune migliaia di studenti italiani, avendo l’opportunità di interagire con loro riguardo a un periodo storico recente che per loro è assolutamente sconosciuto e di promuovere i valori sottostanti al progetto Adopt Srebrenica.
Le trenta foto scelte per la mostra a Palazzo Bomben sono certamente frutto di un’accurata selezione, che segue un determinato percorso narrativo. Ce lo puoi descrivere brevemente?
Lavorando in Bosnia-Erzegovina dal 2010 ho avuto l’opportunità di sviluppare un percorso di ricerca fotografica di lungo termine… sia riguardo a storie di persone, che riguardo ai luoghi, che per me rappresentano lo scenario in cui si svolgono i fatti e le storie delle persone. Il corpus di materiale fotografico è piuttosto consistente e anche riguardo alla storia di Zijo, che ho iniziato a documentare dal 2013, stiamo parlando di circa duemila fotografie. L’editing è una competenza specifica nella costruzione di un reportage e in questo progetto mi sono affidato alla sensibilità di Ziyah Gafić, fotografo bosniaco di fama internazionale. Ho conosciuto Gafić nel 2012 a Bolzano, quando con il Circolo Fotografico Tina Modotti lo abbiamo invitato a presentare alcuni suoi lavori e a raccontarci il suo modo di fare fotografia. In quell’occasione ci siamo trovati in sintonia su alcuni aspetti fondamentali – per me – di intendere lo strumento fotografico e negli anni successivi abbiamo collaborato ad altri progetti – come per esempio il reportage per il Premio Carlo Scarpa 2014 della Fondazione Benetton Studi Ricerche o la video documentazione del progetto di teatro-territorio a Tuzla nel 2015 (il Don Quijote realizzato da Teatro Zappa Theater di Merano in collaborazione con l’Accademia di Arti Drammatiche di Tuzla e Festival ArTZ). È stata quasi una scelta naturale quella di chiedere a Gafić di editare il reportage: lui è bosniaco e il contesto gli appartiene, conosce Zijo e abbiamo una visione molto vicina riguardo al modo di costruire un reportage.
Una particolarità di questo reportage è che si tratta della biografia di un amico, con il quale abbiamo condiviso l’idea di raccontare la sua storia. Man mano che procedeva la scelta delle fotografie, il protagonista è stato coinvolto e quindi possiamo dire che è stato un processo partecipato e condiviso. Io ero particolarmente curioso della reazione di Zijo di fronte al prodotto finale… un conto è vedere le foto selezionale a monitor, ma è molto diverso vedersi rappresentato in un’esposizione fotografica. Il feedback più bello, per me, è stato vedere Zijo che si riconosceva e si piaceva nella scelta narrativa che abbiamo fatto con Gafić. Questo è uno dei sensi della narrazione fotografica che avevamo condiviso con Gafić… l’utilità di quello che fai come fotografo, ovvero la funzionalità concreta rispetto all’obiettivo narrativo che ti sei posto quando hai iniziato a ideare il progetto.
Alcune foto rappresentano profondamente il dramma vissuto dalla popolazione bosniaca, cogliendo l’intimità del dolore nella sua declinazione più autentica e nello stesso tempo più naturale: la desolazione dei luoghi, del paesaggio, dei sopravvissuti. Una natura e una vita che tuttavia hanno il sopravvento sulla catastrofe. Il bianco e nero come scelta espressiva che attesta l’estetica e la raffigurazione simbolica della rappresentazione del dolore. Un reportage fotografico come una registrazione “dal vero”, senza filtri ed enfatizzazioni. E’ davvero così?
La scelta del bianco-nero è un ritorno – almeno estetico – alle atmosfere che si producevano in camera oscura. Io vengo da lì e mi è sempre piaciuto di più stampare che fotografare. Per me il reportage è in bianco-nero, però è un gusto personale senza nessuna pretesa di giudizio nei confronti del colore. Il colore è una competenza specifica nei linguaggi narrativi visuali e dovrebbe rappresentare una modalità consapevole di acquisizione delle immagini.
Io ragiono ancora in bianco-nero, nonostante il passaggio al digitale. Per la storia di Zijo il bianco-nero mi sembrava la scelta più essenziale, lineare e meno invasiva rispetto alla storia stessa. Togliere le informazioni colore per me ha significato potenziare l’essenza del reportage, che è la storia di Zijo.
Riguardo alle tracce di quello che è successo in Bosnia-Erzegovina venti anni, fa queste sono ancora visibili… nei luoghi, nei paesaggi urbani e naturali, nelle persone. La guerra lascia traumi di lungo termine. Il trauma è una interruzione violenta e repentina della continuità identitaria… in ex-Jugoslavia questo strappo fa parte del modo di vivere il tempo. Tutto è riconducibile al paradigma “prima e dopo la guerra”. Sia i luoghi, che la vita delle persone. Anche la ricostruzione – visibile – delle infrastrutture rappresenta, nella sua schizofrenia, una cesura nella continuità identitaria dei luoghi. Lo Stari Most di Mostar, per esempio, è una protesi, che nella sua artificiale funzionalità comunque rappresenta la tragedia di se stessa. Riguardo alle storie delle persone non si può parlare di ricostruzione. Non si possono “ricostruire” le perdite umane. Il dolore rimane segnato per sempre sui volti di chi ha visto e ha subito la violenza della guerra. E anche di chi ha commesso violenza.
La nostra rivista ha impostato la sua piattaforma culturale sulla promozione del valore del dialogo interculturale. Il conflitto balcanico degli anni novanta nelle repubbliche dell’ex- Jugoslavia e i drammi attuali in quelle regioni sembra abbiano spezzato ogni tentativo di confronto. Le varie comunità sono ancora rinchiuse nella difesa delle loro identità religiose e politiche, o c’è invece secondo te un’apertura ed uno sforzo per superare le barriere dell’odio? IO NON ODIO è a questo proposito un messaggio davvero rivoluzionario e in controtendenza.
Penso che le identità – religiose, politiche, etniche, nazionali, linguistiche, culturali – siano un artificio, una truffa ideologica, funzionale ad altro… principalmente funzionale a giustificare il pensiero suprematista (in senso etnico, razziale, culturale, ecc.) e le divisioni tra “noi” e gli “altri”. Condivido l’evocazione dell’immagine “difensiva”… ma non delle identità, che sono appunto degli artifici ideologici e che in ex-Jugoslavia sono state usate ad arte come carburante per mobilitare le masse, quanto invece degli interessi specifici di chi ha il potere di trarre vantaggio da tali divisioni, o ha tratto vantaggio – in termini economici e di potere – dalla guerra. Attualmente in Bosnia-Erzegovina è in atto un conflitto di narrative per il controllo della verità sul passato, condotta dalle élite politiche – fondamentalmente gli stessi conglomerati di interessi e di potere che hanno provocato il conflitto degli anni ’90 – attraverso i media. È stato completamente saltato il lavoro di “decontaminazione della matrice culturale” dalle atrocità ideologiche che hanno “giustificato” i crimini di guerra. L’aggressiva retorica nazionalista e il controllo delle narrative collettive, sta impedendo alle nuove generazioni di creare i presupposti per costruire un futuro di dialogo e confronto con il passato, che sono i presupposti per iniziare a ragionare in termini di riconciliazione e di convivenza interetnica.
Se a livello politico non c’è nessuna volontà di creare i presupposti per avviare un dialogo interetnico collettivo e un confronto con il recente tragico passato – che per le élite politiche e le lobby economiche del post-conflitto vorrebbe dire fare i conti con le proprie responsabilità e finire davanti alla giustizia – a livello della società civile esistono diversi tentativi di scardinare questa “logica dei blocchi”. Il gruppo misto Adopt Srebrenica è uno di questi – l’unico a Srebrenica che entra profondamente nel merito del confronto con il passato e della responsabilità trans-generazionale – e il messaggio di Zijo, “Io non odio”, è un messaggio che crea dei ponti e mette in condizione chiunque di ascoltare la sua storia. È un “meta-messaggio”, universale, non accusatorio, che crea immedesimazione nella “storia dell’altro”, che poi, alla fine è la storia di ognuno di noi.
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