“Quanto segue è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata”. Con queste curiose parole, che non sarebbero sfigurate in una pièce di Beckett, inizia il film “Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo (già premiati con l’Orso d’argento a Berlino per la sceneggiatura della precedente opera prima “La terra dell’abbastanza”), esprimendo forse anche meglio del film che introducono la desolante mancanza di senso della vita contemporanea – e non solo della squallida provincia romana in cui è ambientato la storia.
Nell’aforisma 125 della Gaia scienza, Nietzsche descriveva la condizione di coloro che, come noi, hanno ucciso Dio come un eterno precipitare, “all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati”1: in nessun luogo dunque, perché con Dio è venuto meno il Senso, a cominciare dalla semplice possibilità di orientamento, la quale distingue l’alto e il basso, la destra e la sinistra, l’oriente e l’occidente. Il gelido nulla che soffia sulle nostre vite è l’altra faccia del frastornante e chiassoso disorientamento in cui versa l’esistenza contemporanea, che Luigi Pirandello già alla fine del XIX secolo considerava incurabile. “O buon Dio, e chi al presente non è un degenerato? chi può vantarsi sano? In tutti noi, ove più ove meno, possono rinvenirsi i segni o le stimmate (come le chiamano gli scienziati) fisiche o intellettuali della degenerazione!”2.
Come per Nietzsche e Leopardi, anche per Pirandello la degenerazione della vita contemporanea dipende dal nulla di senso che ormai, morto Dio, corrode le nostre esistenze. In Mal giocondo, una raccolta del 1889, il giovane poeta scriveva: “Ben io l’intesi, e ne diceano: vanno/con passo lento i secoli nel nulla/ e si portan con loro/ le umane genti”. Ovvero: “Un sogno ancora, una menzogna e poi/ la nera e fredda eternità del nulla”3. Come il film dei D’Innocenzo, anche le poesie del giovane Pirandello non erano forse molto ispirate; ma il gelido nulla che le pervadeva sarebbe stata una costante anche della sua produzione poetica più matura e stilisticamente riuscita. Penso ad esempio alla novella Canta l’epistola del 1911, nella quale si denuncia “la vanità di ogni cosa e il tedio angoscioso della vita”4. E in Notte, del 1912:
Guardando entrambi nella notte, sentivano ora che la loro infelicità quasi vaporava, non era più di essi soltanto, ma di tutto il mondo, di tutti gli esseri e di tutte le cose, di quel mare tenebroso e insonne, di quelle stelle sfavillanti nel cielo, di tutta la vita che non può sapere perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire5.
Si dirà che in queste righe, similmente al Leopardi della Ginestra e a Schopenhauer, la visione dell’universalità del dolore produce un effetto consolatorio. La scoperta che tutta la vita, organica e inorganica, umana e animale, è sofferenza, radicale insensatezza, farebbe dunque “vaporare” la nostra personale infelicità.
Non ne sarei sicuro, né per Pirandello né per le altre voci evocate. Ma anche solo limitandosi al caso dello scrittore siciliano, il discorso sarebbe complesso e articolato. Posto che tutta la sua filosofia ha ben poco a che fare col comodo e un po’ trito relativismo nel quale si suole costringerla6, in particolare nei suoi ultimi scritti non c’è spazio per alcuna consolazione. Penso in particolare a Una giornata, con la quale si concludono le Novelle per un anno (1922-1937). All’anonimo protagonista (si ricordi che già Moscarda aveva denunciato la violenza del denominare, vale a dire del fissare, del de-finire qualcosa dell’insensatezza della vita), senz’alcuna ragione accade d’esser gettato fuori, di notte, dal treno nel quale si trovava:
Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me7.
Spero si convenga sull’opportunità di leggere queste righe con una qualche disposizione allegorica. Già nella più nota novella Il treno ha fischiato del 1914 era assai chiaro il significato che la macchina a vapore ricopre nella poetica pirandelliana. Schiacciato, quasi deformato dal giogo sociale che gli è stato imposto, Belluca sente improvvisamente il fischio del treno e, con esso, l’irrompere della vita che, insofferente a ogni determinazione, annulla la logica del mondo che lo soggioga. Impossibile denominare-determinare la vita. “Ogni unità è nelle relazioni degli elementi tra loro; il che significa che variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l’unità”, noterà Pirandello in un appunto del 19348. Poiché la relazione varia a ogni istante, come Moscarda ben sapeva, ne segue che non può darsi alcun’unità, ma solo l’eterno fluire che il treno simboleggia.
La vita è l’essere che vuole se stesso. Che si dà una forma. È dunque l’infinito che si finisce. In ogni forma c’è un fine e dunque una fine. In ogni forma è una morte. Dunque l’essere si uccide in ogni forma, o si nega. Diceva in questo senso Spinoza che ogni affermazione è una negazione. Perché l’essere vivesse bisognerebbe che s’uccidesse di continuo ogni forma; ma senza forma l’essere non vive. Ecco l’eterna contraddizione9.
Non sono convinto che Spinoza si sarebbe riconosciuto in questa riflessione, ma accade spesso che la grandezza dei filosofi si accompagni a ingenui errori storiografici (per non dir nulla di quelli politici). Tornando alla novella, dopo essersi riavuto dallo sbalordimento, l’anonimo personaggio, provvisto solo di un “lanternino cieco”, “spettrale”, cerca ora di orientarsi nella città in cui senza volerlo è stato gettato. Per quanto poco consolante, almeno una cosa gli sembra tuttavia certa: “La città mi è però certamente ignota”10.
Non che sappia molto altro. Non si ricorda più da dove sia partito, né dove fosse diretto, né che cosa avesse con sé. Non sa nulla, o quasi. Il suo stesso corpo gli sembra estraneo. Non è nemmeno certo che egli “esista e che tutto questo sia vero”11. Ma sa che la città in cui si trova gli è straniera. Titubante, s’inoltra in essa, per le sue vie, nelle quali incontra persone apparentemente sicure di loro stesse, dei loro movimenti, dei loro scopi. Una città straniera, ma ben congeniata, che produce un effetto straniante in un uomo che non sa più nulla. “Ma considerato che, se non so neppur come, né di dove, né perché ci sia venuto, debbo aver torto io certamente e ragione tutti gli altri che, non solo pare lo sappiano, ma sappiano anche tutto quello che fanno, sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno”12. Non è per falsa modestia che l’attonito personaggio attribuisce agli altri la ragione e a sé stesso il torto. Vi è ragione e logica là dove vi sia un cosmo, un ordine, un’intesa; dove le cose siano determinate, e l’alto e il basso, la destra e la sinistra ben stabiliti. Colui che vive nella morte del Senso, per definizione, non può aver ragione. “Il torto è mio, il torto è mio, se non capisco nulla, se non riesco a raccapezzarmi”13.
Ma ciò che più lo sorprende è che anche lui, pur anonimo, incerto, sbigottito, sembra ben inserito nell’ordinamento sociale. I passanti per strada gli fanno cenni d’intesa. Lo salutano. “Mi avranno salutato per sbaglio. Ma no, salutano proprio me”14. La circostanza produce in lui una certa vanità, sia pure illusoria. È dunque un uomo noto, conosciuto, perfino stimato? Sia come sia, è ormai passato mezzogiorno e, titubante, entra in una trattoria. “Con maraviglia, anche qui mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola, invitandomi a prender posto”15.
La meraviglia è notoriamente all’origine della filosofia, intesa come ricerca della verità dell’essere. Ma prima che questo accada, prima che l’essere si mostri allo sguardo del suo cercatore e amante – ammesso che tutto ciò possa accadere –, la meraviglia è l’effetto d’un trauma, di un tremendo sbigottimento. “Tu capisci? Mi obbligano mentre vivo a rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita. Mi guardano, mi seguono, mi osservano; e così mi richiamano di continuo a me stesso, mi costringono a sorvegliarmi; ogni mossa, ogni gesto allora mi s’irrigidisce. Io mi vedo vivere come davanti a tanti specchi quanti sono gli occhi che mi stanno a guardare”16. Il trauma, che Blumenberg poneva all’origine sia della filosofia sia del mito, per Pirandello deriva dalla scoperta d’esser stati gettati in un ordinamento apparentemente logico ma in realtà del tutto insensato. La vita non ha in sé alcun senso, né può sopportare che qualcosa di simile le venga imposto. Donde nasce l’ordine che ci viene imposto? Che cos’è questa necessità che ci costringe?
Domande inquietanti. Nel frattempo l’appetito fa sentire al nostro eroe più prosaiche esigenze, ma per potersi sedere nella trattoria (almeno questo gli è noto) si deve poter pagare il conto all’oste. Sfortunatamente l’anonimo personaggio è, tra le altre cose, del tutto al verde. Ma non c’è problema. L’oste gl’indica la banca di fronte, presso la quale egli gode di ampio credito. “Fingo di aver compreso; mi metto in tasca qualcuno di quei biglietti e un libretto che mi dànno in sostituzione di tutti gli altri che lascio, e ritorno alla trattoria”17. Terminato il pranzo, vi è un’automobile che lo aspetta, con tanto d’autista, che si leva il cappello in sua presenza e gli apre lo sportello invitandolo a entrare, conducendolo niente meno che a casa sua. “Ma sì, una bellissima casa, antica, dove certo tanti prima di me hanno abitato e tanti dopo di me abiteranno. Sono proprio miei tutti questi mobili? Mi ci sento estraneo, come un intruso”18.
Eppure, nonostante lo straniamento, deve riconoscere che sì, son proprio suoi tutti quei bei mobili. Deve riconoscere che l’ordine, la determinatezza delle cose s’impone. Nel frattempo s’è fatta sera. Una sera invernale, pungente: “ho freddo e mi sento stanco”, esclama19. Non si tratta d’una rilevazione metereologica, ma teologico-metafisica. “Non si è fatto sempre più freddo? Non seguita a venir notte, sempre più notte?” si chiedeva l’uomo folle di Nietzsche una cinquantina d’anni prima20? Il “gelido nulla” profetizzato dal filosofo e dallo stesso giovane Pirandello comincia ad alitare il suo orrore sull’attonito personaggio. Ma c’è una camera da letto che lo accoglie. Un letto caldo e polveroso, appositamente disposto per i bisogni “di ben regolate e utili abitudini. Io ne ho sempre avuto orrore. Voglio fuggire”21. Ma fuggire non è possibile. Ormai è vecchio e stanco. “Io, già vecchio? Così subito? E com’è possibile?”22.
Più che possibile, è necessario: “Perché l’essere viva è necessario che egli uccida di continuo ogni forma, nell’attimo stesso che la crea, cosicché ogni affermazione di vita è nello stesso tempo una morte; una morte-vita”23. La determinazione è necessaria, ma altrettanto necessario è che perisca. L’ordine che uccide, subito si estingue da sé. Così, impotente perché necessitato dal giogo del senso imposto, il personaggio si rassegna. Non fugge – non può fuggire. “Questo è un incubo”24, certo; ma un incubo in cui scopre d’aver moglie e figli. “I miei figli?”25. Peggio ancora: dei nipoti. Pare “spaventoso”, ma è così. Ci sono figli, nipoti; ci sono case e (quando va bene) conti in banca. In ogni caso c’è un ordine irremovibile, che però non ha alcun senso, senza che in alcun modo possa esser trasceso. La vita è insensata, ma non c’è un senso ulteriore, metafisico o religioso, che possa giustificarla. Siamo gettati in un ordine che non ci appartiene, provenendo – né prima né dopo, senza tempo – da una vita del tutto priva di Senso. “Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo. Già finita la mia vita?”26.
Non credo sia il caso di leggere in termini onirici, o peggio ancora surrealistici questa tarda novella, in tutti i sensi conclusiva. Non è d’un sogno che Pirandello ci parla, ma della realtà della vita nell’epoca della morte di Dio o del Senso supremo. Come per gli antichi gnostici, anche per lo scrittore girgentino siamo gettati in un mondo crudele e ostile, o forse semplicemente – come la Natura di Leopardi – indifferente. Ma diversamente da quei primi eretici, per Pirandello proveniamo da un altrove sconosciuto e inconoscibile, che in alcun modo può giustificare astruse mitologie o speculazioni salvifiche.
Al massimo possiamo giocare con le etimologie, come quando Pirandello nota che “Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvasu dagli abitanti di Girgenti […], corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xáos”27. Resta il fatto che ognuno di noi, anche senza esser nato a Girgenti, proviene da quell’assoluta mancanza di senso che, uccidendo Dio, la filosofia moderna ha portato alla luce. Ognuno di noi è figlio del Caos.
Da qui proviene la degenerazione moderna, e non solo quella romanesca girata dai fratelli D’Innocenzo. Nulla di consolatorio. Al contrario, i filosofi “furono, sono e saranno in ogni tempo dei gran poltroni” e io “avrei senz’altro cominciato dall’escludere per primo Platone dalla sua repubblica ideale”28. Poltroni degenerati, i filosofi, che hanno messo a nudo la nostra disperata condizione d’esser tutti figli del caso e della mancanza di senso, dovendo nel frattempo sopportare l’unico ordine possibile, quello – fittizio e ingiusto – socialmente imposto. A questo i filosofi hanno ridotto la vita: a un “atomo astrale incommensurabilmente piccolo, una trotterella volgarissima lanciata un bel giorno dal sole e aggirantesi intorno a lui, così, per lo spazio, su immutabili orme. Che è divenuto l’uomo? Che è divenuto questo microcosmo, questo re dell’universo? Ahi povero re!”29. Alle filosofiche lamentazioni giovanili fanno eco le ultime novelle dello scrittore di Girgenti. Come la terra, ognuno di noi è gettato in un mondo incomprensibile e insensato.
In un articolo precedente abbiamo commentato la frase dell’avvocato di Wall Street nel racconto di Melville: Ah Bartleby! ah umanità! Quell’improbabile e labile redenzione che in Bartleby lo scrivano era forse ancora possibile, in Pirandello è ormai venuta meno. O buon Dio, chi al presente non è un degenerato? chiedeva lo scrittore siciliano. Interrogazione ironica, perché si aspetta da Dio la risposta a una domanda posta proprio dalla Sua inesistenza.
Foto di copertina
Il fotogramma della locandina del film Favolacce dei Fratelli D’Innocenzo
Note
1. F. Nietzsche, La gaia scienza, a cura di G. Colli e M. Montinari, traduzione di F. Masini e M. Montinari, Mondadori, Milano, 19793, p. 125.
2. L. Pirandello, “Arte e coscienza d’oggi”, in “La Nazione letteraria”, 1893, ora in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Mondadori, Milano, 19774, p. 893.
3. L. Pirandello, Mal giocondo, in Saggi, poesie, scritti varii, cit., pp. 474.489.
4. L. Pirandello, Canta l’epistola, in Novelle per un anno, Mondadori, Milano, 197510, vol. I, p. 446.
5. L. Pirandello, Notte, in ivi p. 526.
6. Ho cercato di mostrarlo, tra l’altro, in E. Cerasi, La vita nuda. L’anarchismo filosofico di Luigi Pirandello, Itallian Path of Culture, Milano, 201
7. L. Pirandello, Una giornata, in Una giornata, Mondadori, Milano, 19832, p. 114.
8. L. Pirandello, “Foglietti”, in Saggi, poesie, scritti varii, cit., p. 1258.
9. Ivi pp. 1275-76.
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10. L. Pirandello, Una giornata, cit., p. 115.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ivi p. 116.
14. Ibidem.
15. ivi p. 118.
16. L. Pirandello, “Foglietti”, cit., p. 1270.
17. L. Pirandello, Una giornata, cit., p. 119.
18. Ibidem.
19. Ibidem.
20. Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 126.
21. L. Pirandello, Una giornata, cit., p. 120.
22. Ibidem.
23. L. Pirandello, “Foglietti”, cit., p. 1276.
24. L. Pirandello, Una giornata, cit., p. 120.
25. Ibidem.
26. Ibidem.
27. L. Pirandello, Frammento d’autobiografia, 1893, ora in Saggi, poesie, scritti varii, cit., p.1281.
28. L. Pirandello, Arte e coscienza d’oggi, cit., p. 896.
29. Ibidem.
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Enrico Cerasi, docente di Filosofia della religione presso l’Università Vita-Salute san Raffaele di Milano, ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale per la seconda fascia in Filosofia teoretica e in Storia della Filosofia. Con Stefania Salvadori ha curato per Bompiani gli Scritti teologici e politici di Erasmo da Rotterdam. Si è occupato della teologia di Karl Barth, della questione della demitizzazione, del linguaggio religioso e della filosofia di Pirandello, sulla quale ha pubblicato due monografie (Quasi niente, una pietra. Per una nuova interpretazione della filosofia pirandelliana, Prefazione di E. Severino, Padova, 1999, e La vita nuda. L’anarchismo filosofico di Luigi Pirandello, Milano, 2016) e alcuni articoli in rivista e sul web. Sulla filosofia di Pirandello ha discusso anche in un programma condotto dal regista Fabrizio Falco e ideato da Felice Cappa, trasmesso il 28 giugno 2017 da Rai cinque cultura.
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