Demoni
di Ernesto L. Francalanci
Sei scrigni proteggono le ultime prove dell’arte di Gazzarri, che evocano padri e maestri, ma come già suggerisce il titolo della prima opera, Kubin, Die Trauer 1903, soprattutto “lutto e dolore”, nel doppio significato che possiede la parola tedesca. Dedicate a capolavori di Kubin, Bosch, Caravaggio, Nolan, Dix e Villeneuve queste “sculture” sono deposte come offerta tragica ai piedi del Maestro. A Vedova è restituito il grido, l’Urschrei espressionista, ma non sotto forma di eco: qui la risposta si fa nemica. Appartiene all’arte dell’arcano. Rimanda al mondo primordiale, al mondo del notturno e dell’inconscio, al Die andere Seite, all’altra parte, uno dei romanzi più importanti di Kubin: là dove persino la perla si corrompe, il legno marcisce, il ferro arrugginisce, là dove comunque crescono fiori di palude che escono dal fango e dalla decomposizione. Tutto vi è morto eppure tutto mantiene forma.
Possiamo tuttavia avvicinarci all’opera che si richiama a Kubin, l’ossessionato disegnatore di Dämonen und Nachtgesichte (Demoni e visioni notturne) solo dopo aver sciolto il nodo che stringe insieme tutti questi lavori. Se essa è il “manifesto” che introduce l’intera serie, con il suo richiamo al lutto e al dolore, Villeneuve, Arrival 2016 pare una sorta di testamento, punto di arrivo dell’arte e della vita.
Film estremo di Villeneuve in cui la trama filosofica ruota attorno alla questione del linguaggio, ovvero se la lingua, e dunque l’espressione stessa, non siano in grado di influenzare il pensiero e non viceversa. In metafora è il chiedersi se lo stesso “fare arte” non possa trasformare la mente e dunque gli uomini.
Se analizziamo come queste opere sono materialmente realizzate, con lana, metallo, argilla, legno, poliuretano, pittura, colpisce la fatica della costruzione, la sapienza del fare. Nulla è casuale in queste forme che sembrano generarsi per forza autonoma. Il pensiero dell’artista con questo progetto ripensa i padri e i maestri, riflette sui debiti e sui crediti. Rilegge l’intera esperienza dell’atelier, del luogo in cui l’arte forma il pensiero, dove l’opera produce crisi con il suo stesso farsi.
Può l’arte cambiare il mondo? Può darsi arte nel tempo della povertà? Questa la domanda che l’artista rilancia, ascoltando l’urlo che emana dalle trincee della morte, e che noi ricordiamo essere il tema ossessivo di tutta l’opera sulla guerra da parte di Dix, il pittore che Gazzarri richiama con l’opera intitolata Dix Fiandre 1936. Il pittore espressionista aveva rappresentato con “nuova oggettività” il paesaggio devastato dalla ferocia della Grande Guerra, trasformato in un unico groviglio di corpi martoriati, di alberi spezzati, di ferri contorti. Nulla insegna la guerra, nulla può l’arte. A Marx che interroga Freud se mai potremo vivere una vita di pace, questi risponde che mai sarà possibile.
Questo è l’inferno in terra e il seguente riferimento di Gazzarri al pannello di destra del madrileno Trittico delle Delizie, e che dà titolo all’opera Bosch, Il tormento dell’inferno 1495-1505, lo conferma con disperata coerenza: dalla parte opposta del Paradiso rispetto al misterioso quadro centrale il paesaggio infernale non offre speranza; l’umanità non perdona e non si pente. E non è perdonabile.
Gazzarri ha modo di rivedere quotidianamente l’Inferno nella versione alle Gallerie di Venezia, e che è esposta sopra l’aula in cui insegna, collaboratore di Vedova. Quando Gazzarri inizia la serie di opere è già iniziato de facto lo scontro mondiale tra Russia e Ucraina. Il rumore di questa guerra giunge fino a noi, a quanti hanno cuore per ascoltarne il ruggito continuo. Il Maestro aveva insegnato a seguire e denunciare ogni fuoco che si accendesse nel mondo. Gazzarri ha appreso la lezione, ma deve superare la sfida e uccidere simbolicamente il padre: parlando un diverso linguaggio e liberandosi da ogni senso di colpa, dalla paura del castigo e da ogni istintività, per lentamente ri-costruire. C’è un passo emblematico nel romanzo di Turgenev, Padri e figli, terribile e illuminante: “Evitava di usare la parola ‘babbo’ e una volta lo sostituì con la parola ‘padre’, pronunciata, a dire il vero, tra i denti; con troppa disinvoltura si versò nel bicchiere molto più vino di quanto ne volesse, e lo bevve tutto”.
Dove risiede dunque una speranza di salvezza dal fuoco che sta divorando il mondo? L’artista si appella all’azione eroica che fu fatta nei primi giorni del giugno 1940 – rievocata nello stupendo film di Nolan che dà titolo all’opera Nolan, Dunkirk 2017 –, quando una flotta improvvisata di navi da pesca e da diporto e di semplici barche si provarono a salvare le truppe alleate bloccate nelle acque davanti alla spiaggia di Dunkerque sotto un cielo di bombe (nell’opera che vediamo è possibile distinguere le barriere innalzate dal nemico sulla riva del mare). Questa la speranza, dunque: nel soccorso da parte di un’umanità che si fa guerriera di pace e che si riscatta dal silenzio e dall’inanità, e di cui oggi abbiamo ancor più bisogno.
Il Caravaggio, Decollazione di Giovanni Battista 1608 è, forse, dell’intera serie, l’opera che potremmo ritenere più autobiografica. Gazzarri porta all’estremo compimento l’esecuzione del santo: la decapitazione ha avuto luogo, la testa di Giovanni è un orribile resto, forma della vita che si è trasformata nell’informità della morte. È Nachtmar, incubo, che non può che esprimersi in quell’informe che ci pone sempre davanti all’indefinito, all’incerto, all’insicuro. Al dia-bolico, qualcosa che si mette sempre di traverso e che impedisce la soddisfazione piena. L’informe produce fantasmi; senza questo riconoscimento non possiamo comprendere tutta la serie di queste opere: protette come ex voto nelle loro teche, sono un esorcismo contro la morte, che poco dopo giungerà tuttavia a ghermire l’artista.
Gazzarri ci riporta nella dimensione che Cacciari aveva indicato con il testo del Prometeo (nell’allestimento stupefacente, navale, di Piano e la regia luministica di Vedova): l’ineluttabilità del tragico, che è crisi e coscienza dello scandalo. Gazzarri, come Prometeo, decide la condizione che gli era stata assegnata e ci pone di fronte all’evidenza del dramma in un testamento di accusa, di verità e di orrore. Gazzarri, in questo teatro di figure, rielabora il pensiero che fu in Nietzsche e in Schopenauer: manifestare il dissenso, contraddire il dio e il padre. Non come macerazione, afflizione, malinconia e interiorità, ma come es-pressione, es-posizione, denuncia, riportando le cose finalmente nel vento contrario, dall’invisibile e dall’ineffabile al visibile e alla storia.
Gazzarri si fa aedo di quel perturbante, pensato da Freud come un qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato. Liberata da ogni credito e da ogni controllo ognuna delle opere di questa serie è una prova di lettura e di scavo: partorita dall’abisso ci offre la sua sostanza oscura, magma infernale che rompe la tranquilla superficie della terra quotidiana, condensandosi in filamenti, nodi, vene, tumori, coaguli e fiori maligni. Opere che sgorgano dal cratere per condensarsi tra cielo e terra, in un regno intermedio popolato, come nel romanzo di Kubin L’altra parte, di fantasmi, maghi, geni, fate, streghe, coboldi, parassiti e ombre, luci, serpenti, spugne, licheni in rapporto con la notte, la foresta, la palude, i miasmi e i cadaveri.
Ognuna di queste opere produce necessità di critica, sia in quanto produttrice di crisi sia per il suo stesso rifarsi direttamente e indirettamente alla crisi culturale europea più importante, quella crisis della modernità che a Vienna aveva fatto domicilio e cura, già perfettamente studiata da Cacciari, e che è evocata anche solo per il riferimento all’artista della Neue Sachlickeite, Alfred Kubin, cui la prima opera di Gazzarri è dedicata. E a questa “scultura” in particolare bisogna porre attenzione.
Il riferimento primario a Kubin nella serie di queste opere riapre la stanza del seminario, delle lezioni di Cacciari e di Franck (“con una forza invincibile si viene attratti dalla spaventosa atmosfera del crudele vuoto che si sprigiona dai disegni di Kubin, che, tra questi veggenti del declino, questi poeti al tramonto, ha un posto in primo piano”, 1983-84, aula IUAV ai Tolentini), nonché le mie, sulla comprensione dell’intera complessità dell’Espressionismo, che nutrì il pensiero artistico di Vedova da cui oggi si allontana Gazzarri nella sua più pura invenzione: priva di uno “stile” la sua opera segna la conquista di una originalità primigenia, che supera e si vendica di accademie, scuole, maestri e di padri. Dobbiamo aver presente cosa ha rappresentato Kubin nel tempo della finis Austriae per capire il senso della scultura di Gazzarri a lui dedicata. La famiglia di Kubin è Goya, Füssli, Böcklin, Klinger, Ensor, Munch e l’Hoffmann di Die Elixiere des Teufels (Gli elisir del diavolo)! Nella oscura contorsione materica con fantasmi di Kubin, Die Trauer 1903 tutte queste voci risuonano.
Risuonano sotto forma di Nachtmar, di incubo: “Ovunque l’attenzione si poggi, si compongono esseri antropomorfi o zoomorfici (…). Il mondo mi appare come un labirinto in cui voglio orientarmi”, scrive Kubin nel romanzo Disegnatore di sogni. Nel mondo intermedio, tra la materia e il cielo, tra la carne e lo spirito, “un essere mostruoso e enigmatico si manifesta in tutta la sua potenza”. Una nuova materia si appresta ad apparire nel mondo. Questo il messaggio estremo dell’artista vissuto nella Venezia che fu vedova dell’ultimo Maestro.
Angeli
a cura di Ernesto L. Francalanci
Nella previdente regia di Bastianello le “opere in nero”, i “Demoni”, dell’artista Fabrizio Gazzarri sono esposte in terraferma, nella bella galleria adiacente al museo M9, nello stesso periodo in cui vi è presente una retrospettiva del maestro Vedova, mentre, al di là del lungo ponte, che fa di Mestre un sestiere mondano della Serenissima, le opere pittoriche, le “opere in giallo”, sono esposte nel luminoso spazio d’arte di Calle de l’Aseo.
Queste opere dalla predominante presenza del giallo vendicano il colore quasi introvabile, e comunque impossibile, nelle tavole e nelle tele del Maestro; certo il giallo vi compare, ma è sempre un incidente. Compare nel cielo delle opere di Absurdes Berliner Tagebuch come nota sonora in un teatro sinfonico di figure semoventi. Compare anche altrove, come, per esempio, in un sol punto, in alto a destra, nel forte contrasto bianco-nero di Varsavia, un occhio di luce che si fa strada tra le nubi elettriche di un cielo in subbuglio. Il giallo entra nell’opera di Vedova come momentanea emersione di una vena d’oro dalla oscura profondità di una miniera, giacimento stratigrafico mosso da bradisismi perenni. Si cerca di portarlo alla superficie, di condurlo alla piena luce, come fa Orfeo con Euridice: ma, come Orfeo, Vedova riguarda il bene prezioso che profetizza la salvezza, e lo abbandona: non è ancora il tempo della luce. Quel luminoso è contradditorio. Contraddice l’umore nero, atrabiliare, pessimistico. Malinconico. Gazzarri recupera il giallo che fu abbandonato e ne fa, in pittura, unica sostanza di racconto e di speranza.
Della presenza del giallo, dell’incidente del giallo, più che della furente presenza dei rossi, nelle opere di Vedova bisognerà scrivere, perché vi si dimostri l’estremo tentativo di citare l’icona. Bisognerà scoprire, dunque, che in Vedova l’opposto del nero non è il bianco, bensì quel puro colore che Beato Angelico rende abbagliante e insostenibile nella Incoronazione degli Uffizi. Puro colore che finge la luce e che contende al cinabro del Serafino e al lapislazzulo della Madre la testimonianza del Divino. Questa solarità assoluta e fantastica è lo raggio / de l’alta luce che da sé è vera; questo il colore segreto, finale, assoluto, che è il dio: non il bianco newtoniano, somma di tutti i colori, ma l’oro accecante di un Sole che tutto intride, pervade, attraversa, foco che quinci e quindi igualmente si spiri. Questo, dunque, il colore irrisolto, in Vedova. Eccedente, eccessivo, inaccettabile: non vi è pace nel mondo, le nuvole fosche delle eterne guerre coprono il cielo. Tutte le opere di Vedova sembrano cancellazioni della volta celeste, dell’orizzonte e del paesaggio dell’anima.
Il giallo, in questa opera numinosa di Gazzarri, Hazard 1, su cui mi soffermo, racconta dell’Angelo, con cui possiamo, anche se vanamente, confidarci. L’intero ciclo di opere, qui esposte, è fondato su questo colore impossibile, che Gazzarri utilizza nella sua ideale vendetta, come altrettanto polemiche furono le nere sculture diaboliche, i demoni. Il daimon e l’angelo, alla fine, non sono che identiche prove di “qualcosa di mezzo tra dio e mortale”, come dice Platone nel Simposio. Tra i due cicli di opere, quelle “in nero” e queste “in giallo” vi è dunque la stessa testimonianza. Testimoniano, gli angeli di Hazard 1 – pittura e micro sfere di vetro, lacrime nella pioggia – che “è tempo di morire”. L’angelo piange, come ricorda l’Apocalisse di Paolo, perché la presenza dell’uomo è un tormento per le anime pure. Wenders ne offre una interpretazione definitiva in quell’angelo silenzioso, sceso finalmente tra di noi, che tutto ascolta e nulla può fare.
Neppure le opere di Gazzarri sono, dunque, pacifiche. Anch’esse, come quelle del Maestro, pongono espressionistici interrogativi: espressionistici, dal momento che tutto nasce nel crogiuolo mitteleuropeo della officina vedovaniana e anche se questa temperie culturale è in Gazzarri ricontrollata su testimoni dell’astrazione americana. Ebbene, Hazard 1, chi interroga? Hazard pone al Passante l’eterna domanda: sei in grado di parlare all’Angelo, sei capace di farlo tuo e di rendere testimonianza? Riesce il viandante a porre la domanda a colui che, a sua volta, lo possa rivolgere al dio? Ma il dio è muto. La risposta ad ogni domanda è solo in noi. Su noi insiste la continua e disperata interrogazione: sul nostro Dasein, sul nostro essere e sul nostro esserci, qui e ora. Siamo la sfinge e il viandante. In questo, pur nelle differenze, Vedova e Gazzarri si complementano l’un con l’altro.
Le verticali spinose di Hazard 1 si ergono a protezione, ad interporre uno schermo tra lo spettatore e il fondo giallo, che finge l’oro del cielo. Sono figure intermediarie: vengono dall’oscurità, perdendo il nero pigmento che abitava le opere del maestro; le ali si fanno spighe di rinascita, vengono ad annunciare la fine del caos, la liberazione dall’istintivo e dall’istinto. Annunciano geo-metria, ordine e ritmo. Annunciano la Primavera, la stagione del grano dorato, della Spiga, dell’eterno ritorno. Su questo campo giallo che Gazzarri ha voluto ingenuamente rivivere ad Auvers, regna Mot, il dio fenicio della mietitura, che muore sull’aia con le sue Spighe, per rinascere nella futura stagione. Ma Mot, come ricorda Jean Luc Nancy, rimanda sia a parola (motto) sia a silenzio (muto). Il giallo è muto rispetto al sole, alla luce e al divino. Questo il tragico errore impressionista, di credere di poter rappresentare la luce mediante il colore. Questa, anche, l’estrema verità annunciata dai corvi sul campo di grano.
Non ad Auvers, ma nella campagna bretone, dovevi andare, Fabrizio. Tre donne sono in raccoglimento ai piedi del Cristo giallo di Gauguin. Il corpo possiede lo stesso colore dei campi di grano, poiché un destino comune lega il racconto divino alla storia naturale. Le pie rimangono in eterna attesa di una rinascita promessa: questa è la condanna dell’angelo di vanamente annunciare, mentre la vita si invola. Lieve sussurra nel campo il giallo frumento. / Dura è la vita e il contadino cala la sua falce d’acciaio (tr. dell’A), canta Georg Trakl nello Stundenlied, il Canto delle ore, nel ’12, lo stesso anno della composizione scenica kandinskiana, Der Gelbe Klang (Il suono giallo). È nella rivoluzionaria anticipazione di questo “teatro totale”, di una sorta di Wort-Ton-Drama, di Kandinskij – parole, testi, rumori e suoni, luci, danza – che possiamo scoprire come il giallo può vivere solo alla condizione di partecipare ad un mondo di totale invenzione. Tale, alla fine, il pro-blema che Gazzarri ci scaglia contro e che dobbiamo affrontare, se il colore giallo nulla può dire della luce e del sole.
Nonostante il loro destino incompiuto, gli angeli continuano ad essere messaggeri, messaggeri del Logos, come li definisce Cacciari, a segnare la soglia tra mondo terrestre e realtà spirituale su questo confine ergendosi come guardiani: sono per l’appunto quelle figure che fanno barriera e nello stesso tempo protezione alla infinitezza della luce. Da dove giunge l’Angelo richiamato da Hazard? È un angelo opaco, che appartiene al mondo. Produce ombra e il gatto indietreggia impaurito: il divino si è manifestato come reale. È la risposta “moderna”, nella Annunciazione lottesca di Recanati, alla fede espressa dalla pala Malchiostro del Duomo di Treviso, dipinta da Tiziano solo una decina d’anni prima. La Vergine volge le spalle all’apparizione, al Libro e all’ombra che ha visto stagliarsi improvvisa sulla porta: persino il dio, che proietta ombra, è dunque corpo, materia, concretezza di storia. Il gesto scandaloso della Vergine è di due mani che hanno sciolto l’intreccio della preghiera e che si aprono verso di noi, inquadrando uno sguardo che ci ammalia: è questo sguardo il segreto stesso del quadro. Lo sguardo più malizioso della pittura manierista, complice con lo spettatore della potente presenza dei corpi che non appartengono più alla sostanza del sogno, ma a quella che intride il pavimento di rosa e che perfettamente disegna il baldacchino, il candido letto, i libri, il candeliere e lo sgabello con la clessidra, che segna il tempo terreno e umano, e la carne del dio e dell’angelo.
È dunque un “angelo necessario”: necessario per riportare alla terra la sua necessità. In questo senso è portatore di conoscenza; trasferisce ciò che Cacciari nel suo mirabile lavoro sull’Angelo, definisce la testimonianza del “mistero in quanto mistero” e dell’“invisibile in quanto invisibile” in una controprova: trasporta il mistero e l’invisibile nella diretta conoscenza e nella più immediata visibilità. Il non-dove, che è il regno dell’Angelo, si traduce nel dipinto lottesco e nella più acuta intuizione di tutto il Manierismo nel territorio della povera terra. Mi si conceda una citazione inflazionata sull’angelo più famoso della letteratura moderna, l’angelo benjaminiano, l’entità che volgendo le spalle al passato è spinta dal progresso nel futuro, mentre le sue ali di parole reggono a mala pena il tragico volo: dove atterrerà questo angelo, se non sui bastioni del circo, a fare da comparsa per uno spettacolo senza spettatori nell’America di Kafka. Su quegli stessi bastioni in cui i personaggi, nel Giuseppe in Egitto del Pontormo, diventano statue che imitano persone vive e figuranti che una magia egizia immobilizza per l’eternità in improbabili pose.
Gli angeli di Hazard, grigie ombre che hanno perso colore, sono in ascolto del suono giallo che promana da quello sfondo sul quale vigilano: sono in ascolto del suono stesso della pittura, della “verità in pittura”. A quell’ascolto Kandinskij dedica per l’appunto Il suono giallo, traduzione nello spazio a quattro dimensioni del godimento bidimensionale della pittura, inserendolo all’interno dell’almanacco Der Blaue Reiter, e di cui Schönberg si dimostrerà profondamente ammirato. All’apparizione del grande fiore giallo, nel Quadro secondo, dal lungo gambo sottile e dall’unica foglia, due note si alzano, un si filiforme e un la “molto profondo”. Quando, nel Quadro terzo, la luce gialla si farà più e più intensa, fino a giungere ad un abbagliante giallo-limone, la musica scende in toni più bassi, divenendo “sempre più cupa”. È di quel giallo che nello Spirituale nell’arte si era detto: Il giallo limone stridente continua per parecchio tempo a fare male all’occhio, come lo squillo acuto di una tromba all’orecchio.
Tenebrosa luce, tenebroso suono: il giallo si mostra per quello che è, squillo acido, corrosivo, tagliente. Il sax di Charlie Parker. Il giallo è Giuda, come insegna Falcinelli. È un colore escludente. Nel suo rifulgere nell’icona il giallo “respinge”, acceca. Attrae per la sua violenza, non per la dolcezza, che è invece demandata all’azzurro che il lapislazzulo distende sul manto della Madre. Il giallo è, per riprendere un pensiero di Kandinskij, “tipicamente terreno”, malsano, indicatore di furore, di follia cieca, di delirio. Tutta la nostra passione per questo colore solare sparisce di fronte alla consapevolezza della dissonanza del giallo.
Poco si è approfondito sulla vera rivoluzione operata da Kandinskji nella sua composizione scenica (Voci, Figura nera, Il sipario viola sono le altre straordinarie opere del progetto di sintesi di tutte le arti): essa non è espressionista, ma dada. Almeno nel senso del dada originario, che si aprirà in un cafè di Zurigo. Ma dada è del ’16, il Suono giallo del ’12, anzi iniziato nel 1909, l’anno del manifesto futurista. L’opera prende senso solo se la inquadriamo come una profezia del nonsense, se affidiamo ad essa il primato di un totale rivolgimento della tradizione del testo e della scena. Attori ”marionette”, “zolle con domande colme di enigmi”, “sogni di pietra” … Bisogna attendere addirittura il surrealismo per rincontrare il paradosso e l’acidità ludica della provocazione assoluta. Per questo Kandinskij, con la sua immensa complessità, fu il fantasma che aleggiò nelle aule di Vedova e che avrà indiretta influenza anche su Gazzarri.
Si apre qui il ricordo di un incontro fondamentale avvenuto negli anni Ottanta in Accademia, a Venezia, nell’aula di Vedova, quando vi si riunirono in seminario regolato da Metzger, Messinis, Cacciari ed altri spiriti grandi a riaprire il discorso sulla dissonanza e sull’impegno scientifico dell’ascolto della musica dodecafonica e post dodecafonica: in effetti sulla possibilità di una ancora possibile armonia dopo gli esiti di Stockhausen e della “Nuova Musica”, che Adorno aveva contribuito a far crescere a Darmstadt e che Nono, tra gli altri, reifica a Venezia (Alvise Vidolin rimanendone il grande erede). La lezione di Schönberg, richiamato da Kandinskij nello Spirituale, aleggiava in lontananza. In un certo qual senso, ad un’opzione conciliatrice tra armonia e rottura si dirigerà quell’Alfred Schnittke, fantasma romantico, come dice Alex Ross, che concederà la sua musica “polistilistica” alla messa in scena del Suono giallo a Parigi nel 1975, nell’Abbazia di Saint Baume.
Gazzarri, nella violenza espressionista dell’aula vedovaniana, aveva segretamente coltivato l’opzione romantica; all’irruenza del gesto ha contrapposto l’altrettanto estrema fatica del meditativo; ha ripensato la lirica e quel “poetico” che confligge, infine, con il “politico” del Maestro. Sceglie con Rilke il canto dell’Angelo: “Ogni angelo è tremendo. E tuttavia, / ahimè, io canto a voi, quasi mortiferi / uccelli dell’anima. Di voi sapendo (…) / Se l’arcangelo adesso, / il pericoloso, da dietro le stelle / si sporgesse all’ingiù verso di noi / solo di un passo, con innalzato battito / ci abbatterebbe il nostro stesso cuore. Chi siete”?
Il mondo come libertà
di Luigi Viola
Nelle opere che Fabrizio ha realizzato in questi ultimi densi anni, con straordinaria abbondanza quasi a voler colmare l’incolmabile, scorrono profonde, silenziose, mobilissime e immateriali correnti di energia spirituale a lungo incrementate e preservate, che innervano e definiscono tanto il gesto e la poetica della sua pittura come in Algoritmo dell’anima del 2018 o nei Rossori del 2019, quanto l’approccio alla scelta dei materiali delle sculture e delle installazioni dove anzitutto emerge con significativa evidenza il valore emblematico degli elementi caldi, emotivi ed intimi che, per molti versi, stabiliscono un elemento di continuità e di sottile relazione sentimentale con le caratteristiche dei primi lavori, grandi puzzle pazientemente costruiti con tanti piccoli tasselli di mollica, ricavata dai resti del pane, un bene che tradizionalmente, nella cultura popolare, non si butta ma si reimpiega. Qui il pane non consumato, rimasto sulla tavola dopo il pasto, viene infatti rimodellato con gesto giocosamente memore dell’infanzia, cogliendo la duttilità della materia e celebrandone il valore di nutrimento non solo per il corpo ma per lo spirito.
Egualmente per la lana che sembra alludere nell’immaginario a quegli incantevoli, morbidi gomitoli colorati, dipanati da mani esperte, che sono parte dell’esperienza famigliare e materna delle persone come me e Fabrizio, quando le mamme ancora creavano da sé i maglioni o le sciarpe per il nostro inverno, quegli stessi fili di lana che formano le robuste trame delle corde colorate e intrecciate dell’installazione Rosario delle assenze nella sede dell’Università di Verona nel 2019, presenti anche nella composizione delle sei Teche W&W realizzate tra il 2020 e il 2022.
L’elemento caldo peraltro agisce sia dall’interno, senza apertamente palesarsi come nelle Teche W&W che – in un necessario, inevitabile contrappunto con il freddo, dato dal metallo, dal colore o altra materia – nell’incontro/scontro di opposti capace di generare le segrete vibrazioni e le impercettibili tensioni che, sapientemente governate dal rigore intellettuale e dalla sensibilità poetica dell’artista, danno vita a imprevisti equilibri e dischiudono ad una percezione autenticamente rinnovata dello spazio-tempo.
Tutti elementi questi di una memoria attiva capace di inscrivere l’opera entro un solido orizzonte etico che, anche per Fabrizio Gazzarri, costituisce lo sfondo obbligato e la ragione stessa del fare artistico.
È infatti la pietas dell’artista per l’umanità sofferente, è il suo sguardo acutamente puntato sulle tragedie della Storia a dare la principale chiave di lettura di opere radicalmente influenzate dal sentimento di dolorosa condivisione per la sorte dei più deboli, dei perdenti, di quelli che, con Primo Levi, potremmo chiamare “i sommersi”.
L’arte in ogni tempo ha reso tangibile testimonianza della propria vocazione a farsi carico di tale condizione di fragilità, di debolezza, di afflizione di cui la guerra è certamente una delle massime rappresentazioni, raggiungendo in ciò vertici espressivi molto alti.
Ecco quindi che l’installazione Rosario delle assenze ci mostra un’ispirazione che trae origine da una tragica esperienza e dall’impatto che essa ha avuto sull’artista.
Fabrizio stesso ce ne ha parlato, raccontando come nei primi giorni di settembre 2004 fosse venuto a conoscenza della strage della scuola n.1 di Beslan, in Ossezia, quando un gruppo di feroci terroristi ceceni mise a ferro e fuoco la scuola sequestrando per tre giorni mille bambini costretti ad assistere all’esecuzione di alcuni di loro, provocando complessivamente la morte di 330 piccoli innocenti. Fabrizio si trovava – di ritorno da una vacanza con la figlia – in una trattoria di Naxos in attesa del traghetto per Atene quando venne a conoscere dalla locale televisione la terribile notizia. Ne rimase sconvolto immedesimandosi nei genitori di quei bambini, immaginando il loro immenso dolore, la sofferenza per quelle brevi vite verso le quali non c’era stata alcuna pietà e pensò allora di realizzare un lavoro loro dedicato con profonda empatia e partecipazione emotiva, in contrasto paradossale con il suo stato di padre felice in vacanza con la propria bambina. Ne venne un progetto che prevedeva di segnare su un muro o altro supporto i nomi e l’altezza di quei bambini, evocando quello che molti di noi, come in un gioco complice con il proprio bimbo, fanno segnando periodicamente su una porta di casa l’altezza raggiunta nella crescita. In questo caso fermata per sempre. Inoltre avrebbe voluto tagliare “delle corde colorate, ognuna di misura uguale all’altezza di un bimbo, con le quali avrei realizzato dei nodi e dopo averle collegate tutte insieme le avrei arrotolate attorno a una struttura di acciaio che si sarebbe mossa lentamente su sè stessa ala velocità della Terra in un punto vicino al Polo Nord. Il titolo Rosario deriva proprio da questo aspetto che mi vedeva concentrato nell’atto di annodare e legare insieme in una sorta di preghiera partecipe questi pezzi di corda.” Il progetto, con alcuni cambiamenti, è stato realizzato nel 2018 a Verona, con inalterata attualità, avvalendosi delle musiche composte per l’occasione da Nicola Cisternino.
Nelle apparentemente pacifiche, perfino naturalistiche rappresentazioni della natura – una natura però annerita, ischeletrita ed arsa – cui rimandano le Teche W&W emerge con forza la dinamica interiore e la cornice di riferimento entro cui tali paesaggi devono essere interpretati e il titolo viene in immediato soccorso, indicandoci la strada.
W&W significa infatti Water & War, acqua e guerra, rimandando da una parte alla metafora dell’acqua intesa non nel comune significato positivo come sorgente di vita, ma piuttosto come pericolo incombente, minaccia di disastri e calamità ambientali senza proporzione, come possono essere le grandi inondazioni o gli tsunami sempre più frequenti, dall’altra chiamando in causa esplicitamente il tema della guerra.
La guerra, la più grave sciagura umana, apre all’esperienza radicale dello strazio fisico e spirituale che colpisce alla cieca, senza ragione e oggettività alcuna le proprie vittime, apre all’incontro violento e senza rimedio con la morte, come Fabrizio ci invita a ricordare citando nel titolo di una Teca Fiandre di Otto Dix, un dipinto del 1934-36 oggi alla Nationalgalerie di Berlino, memoria vivente e simbolo perenne della catastrofe della guerra in trincea, dell’uso dei gas nervini nella prima guerra mondiale, presagio di una ancor più intollerabile disumanità a venire di lì a pochi anni.
Ancora alla guerra, all’esperienza claustrofobica dell’assedio, alla brutalità delle armi e alla fuga dal nemico rinvia una seconda teca il cui titolo fa riferimento al film di Christopher Nolan del 2017 Dunkirk ambientato durante la seconda guerra mondiale, che racconta l’evacuazione di Dunkerque nel maggio del 1940, mentre alla straordinaria tela di Caravaggio Decollazione di San Giovanni Battista dipinta nel 1608 fa riferimento una terza teca. L’opera, come è noto, rappresenta la brutale esecuzione del Santo nella totale indifferenza morale del carceriere che assiste alla scena e del boia ed è lo stesso quadro di fronte al quale, dopo l’abbandono dell’isola di Malta da parte del Caravaggio poco dopo averlo terminato, fu letta la bolla con cui il pittore veniva radiato dall’ordine dei Cavalieri.
Ed ancora la menzione di un’opera di Alfred Kubin, Trauer del 1903 anno della morte dell’amatissima moglie dell’artista, che fu sempre esasperatamente sensibile ai temi della morte, del macabro, del dolore, dell’angoscia.
Nel lavoro del grande boemo non trova però spazio la vicenda della guerra come in Otto Dix, ma quella personale e famigliare con i suoi devastanti traumi, segnati primariamente dalla morte della madre (Kubin ebbe a dire infatti: “Gli innumerevoli cadaveri e morti che popolano la mia opera sono anch’essi figli di questo giorno triste”), dai maltrattamenti subiti a lungo dal padre prima di una loro tarda riconciliazione, dal tentativo di suicidio fortunatamente fallito sulla tomba della madre.
Infine il riferimento al film di Denis Villeneuve Arrival del 2016 che presenta un complesso intreccio narrativo in cui, in uno scenario di guerra tra mondi e di scontri di potere tra le nazioni della Terra, la storia di Hannah, figlia della filologa Louise, dalla sua nascita fino alla morte precoce per malattia a dodici anni, si interseca con la vicenda dell’arrivo sul nostro pianeta di navicelle aliene.
L’insegnamento profondo del film, cui indubbiamente la Teca W&W di Fabrizio rimanda, lo riassume lo stesso regista: “Cosa succederebbe se sapeste in che modo state per morire e quando morirete? Quale sarebbe il vostro rapporto con la vita, l’amore, la famiglia gli amici e la vostra società? Essere maggiormente in relazione con la morte, in modo intimo con la natura della vita e le sue sfumature, ci farebbe diventare più umili. L’umanità adesso ha bisogno di questa umiltà.” E dobbiamo credere che proprio questo sia il messaggio nodale da recepire nella sua radicale verità, un messaggio che muta in imperativo morale e che ci sollecita ad assumere, come artisti e come uomini del nostro tempo, il compito e la responsabilità morale che ci riguardano per restituire l’umanità a maggiore empatia, umiltà e capacità di ascoltare e vedere il prossimo.
Ciò è reso possibile – come scriveva Federico Chiacchiari in Sentieri selvaggi il 17 Gennaio 2017 parlando del film – dal linguaggio che “ci cambia e ci può mettere in contatto non solo con gli altri ma anche con parti di noi nascoste o dimenticate. E nell’angolo sperduto del nostro io ci troviamo a confrontarci con la presenza invisibile, all’inizio della vita, poi sempre più incombente della morte. Ecco, questo contatto con la morte, quello di Louise con la figlia perduta, si trasforma in un contatto con la vita, perché riuscirà attraverso questa sua mutazione a rivivere esperienze del passato come del futuro, saltando i nostri piani spazio temporali, in una dimensione nuova dove non c’è quasi distinzione tra l’onirico e il reale”.
Fabrizio, da sua parte, ha voluto confermarci con il suo lavoro l’importanza vitale di questo contatto con la morte, attraverso il quale solo possiamo tentare di comprendere il significato dell’esistenza, oltrepassando i piani del tempo e dello spazio, attraversando heideggerianamente le soglie stesse dell’essere, con “uno sguardo che può esserci solo perché, abitando la contemporaneità, si pone in relazione con il mondo delle “ultime cose”, con ciò che è finale e, in virtù di questo rapporto con ciò che è terminale, consente di cogliere il mondo come libertà.” (Simona Venezia).
Fabrizio: nel nome del pane
di Nicola Cisternino
Le prime opere di Fabrizio che ebbi modo di conoscere nella sua casa veneziana, erano fatte di centinaia di cubetti di mollica di pane di piccolissime dimensioni, sapientemente impastate e composte secondo forme geometriche primarie, mattoncini-pixel di un rigore formale che dallo sguardo rimandavano alla morbidezza della materia prima, la mollica del pane. Un esercizio primario della Virtus umana fatta di dedizione, perseveranza e pazienza che esprimono trinitariamente un’attitudine alla conoscenza, al rigoroso quanto libero esercizio del pensiero che in Fabrizio si esprimevano sempre con gentilezza e trasparenza, lucidità e rigore nell’ascolto dell’altro. Idee e concetti intrecciati in un continuo logos e ricerca di senso Oltre… riconoscibile in tutte le sue manifestazioni, dalle sue numerose opere realizzate (molte delle quali riparate dal segreto) alla dedizione maieutica con gli allievi in Accademia, all’immersione sorgiva in apnea per circa un cinquantennio nella vita e nelle opere di Emilio Vedova, scorza della sua mollica. Usando al meglio il Tempo che gli era stato dato.
Immagine di copertina: Fabrizio Gazzarri, Teche W&W (9) Dix Fiandre 1936, 2020 – 2022, Lana, pittura acrilica, pittura alla nitro, argilla, legno, poliuretano, metallo, 105 x 55 x h 80 cm.
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