Una strada di periferia deserta avvolta nella nebbia notturna, illuminata dai lampioni, con un ciclista in lontananza. Atmosfera noir.

“Crac”, racconto di Gianluca Ferrari
(prima parte)

tempo di lettura: 12 minuti

La corsa dell’autobus nella notte era isterica, con scatti e brusche frenate dell’autista. Le luci della strada riempivano di un giallo ittero l’interno, dando ai passeggeri l’aspetto emaciato di tanti malati di epatite. Volti scavati, occhi cerchiati come quelli dei pugili, tuffati negli schermi dei cellulari. Paolo, Paolino per tutti, ascoltava una canzone di un trapper che cantava di rivalsa, di soldi e di lasciare la periferia. Lasciare la periferia, pensava… per andare dove? Non era mai stato oltre Napoli, dove era sceso l’anno scorso con Alex, che aveva dei parenti da quelle parti. Lungo la strada, come ogni notte, passava davanti alle concessionarie, file e file di auto di lusso dai colori sgargianti che riflettevano la luna e che sembravano tanti occhi ammiccanti. Anche quella sera una Porsche gli aveva fatto l’occhiolino.

Di fronte a lui una ragazza nera si era appisolata e sbatteva la testa sul finestrino, talmente esausta da non svegliarsi neanche.

Paolo buttò uno sguardo sulle cicatrici che solcavano quel viso dai tratti marcati, le cui labbra sottili, la corporatura minuta. Si chiese chi glielo avesse fatto fare di lasciare il suo Paese per finire a ingrossare le fila di quelli come lui.

Mancava poco all’aeroporto Marco Polo, intravedeva già la salita che lo avrebbe scaricato insieme ai turisti nell’ingresso affollato di valigie con adesivi sopra, volti sorridenti, baci affrancati e abbracci di commiato o di ritrovo. Li fissava tutti con invidia e rabbia ogni volta.

Ogni volta… era una settimana appena che lavorava come addetto alle pulizie e già gli sembrava di stare lì da sempre. Poteva immaginarsi l’infarto che gli sarebbe venuto mentre spingeva l’idropulitrice verso i gate, gli occhi spenti nelle iridi ma ben spalancati verso una meta che non avrebbe visto mai.

L’autista inchiodò e Paolino cadde in avanti.

-Goldon de merda! Ma ti pol ndar vanti cussì?- gli urlò Paolino tirando una manata sul vetro divisorio dell’autista.

Neppure si voltò a guardarlo.

-Vai a fare in culo! – sputò scendendo.

L’aria della notte era umida e fredda, troppo presto persino per i turisti. Solo alcuni sonnecchiavano appoggiati agli zaini.

-Sei in ritardo!

La voce roca, bassa e grassa lo raggiunse alle spalle.

Marco lo fissava nella tuta azzurra della ditta appaltatrice: cinquant’anni, due figli che non vedeva mai e avuti da due donne differenti, esule dal centro storico di cui narrava sempre la vita:
“che era migliore rispetto alla terraferma.”

Chissà se gli sarebbe mancato quel ciccione. Domani il giudice avrebbe deciso.

La sua vita.

Vent’anni e aveva rotto più labbra di quante ne avesse baciate. E se quel giudice avesse deciso in un modo, la sua già di per sé non esaltante esistenza sarebbe stata bella che finita. L’avvocato glielo aveva spiegato bene qualche ora prima:

-Se non ti riconosce la condizionale, e la vedo dura… Se non ti riconosce la condizionale, ti daranno almeno tre anni, uno dei quali da scontare in carcere. Non è molto, alla fine…

Sapeva perché aveva detto che non “era molto”. Ma mica aveva voluto lui quell’esito, era stato Alex, come sempre, a iniziare la rissa e lui, come sempre, voleva solo finirla in fretta perché non aveva nulla contro quel tizio che ok, era alticcio, ok aveva la bocca troppo grande ma -in fondo- non gli aveva fatto o detto nulla.

Paolino lo aveva colpito con il casco dello scooter da dietro, aveva sentito il polso vibrare e un crac ad accompagnarlo, come un uovo che cade a terra dalle mani, e poi il tizio si era accasciato. Neppure ci aveva pensato a ciò che aveva fatto. Era solo l’ennesima rissa, fatta più per noia che per rabbia.

Come quasi tutte le cazzate, pensava.

L’indomani era rimasto immobile come un gatto davanti a un’auto con i fari accesi. All’articolo in prima pagina sul Gazzettino e quelle quattro lettere era trasalito:
C
O
M
A

Avevano suonato a mezzogiorno e in quartiere non si era affacciato nessuno.

Un quadrato di palazzoni tutti uguali con al centro una fontana che era un ricettacolo di siringhe e preservativi. Neppure l’attenzione del vicinato aveva avuto Paolo, Paolino per tutti. Era stato solo l’ennesimo ragazzino che l’aveva combinata più grande della sua altezza. E da quelle parti sembrava un rito di passaggio quasi irrinunciabile.

Si riprese dai pensieri e si accese una sigaretta.

-Posso fumarne una?

Marco lo aveva squadrato con un piglio severo come risposta, muto.
Era più alto di venti centimetri, spalle larghe, pancia prominente e due mani con quattro nocche spesse e infuori. Sulle dita della mano destra aveva scritto “HARD”. Sulla sinistra “CORE”. Gli avambracci erano sbiadite miscele di colori che un tempo avevano avuto delle geometrie. La barba folta aveva ciuffi bianchi che contornavano un volto squadrato, un naso con una sagoma a forma di virgola e due ciglia folte che gli davano un’aria sempre seriosa. Diceva che da giovane era stato un punk. A Paolo venivano in mente i mohicani, chissà perché.

Una risata grassa aveva anticipato la risposta di Marco.

-Ma sì, chi se ne incula. Fuma pure. Tanto il caposquadra non c’è oggi. “Sta male” ha detto…

Gli fece l’occhiolino battendogli la spalla. Paolino abbozzò un mezzo sorriso complice.

Tutti sapevano che il caposquadra passava più tempo a pippare che a respirare, e le conseguenze dei cocainomani sono sempre uguali.

-Allora? Che ti hanno detto?

Marco si riferiva al processo dell’indomani.

Non sapeva perché, ma la prima notte di lavoro, che non sembrava finire mai, aveva raccontato tutto a quel burbero ciccione. Senza un motivo. E Marco non aveva detto nulla, aveva solo guardato avanti a un punto indefinito oltre gli schermi che annunciavano le partenze, oltre la vetrata che dava sulle piste di atterraggio, e non aveva detto niente. Silenzioso come un Toro Seduto pieno di tatuaggi. Poi però aveva parlato:

-Merda…

E fino a quella sera non aveva detto più nulla per una settimana, circa la rissa e il coma dell’uomo; che poi si era ripreso, per fortuna di Paolo. Anche se a chiederlo a lui, la fortuna non doveva averlo troppo in simpatia.

La fortuna non ti fa nascere in periferia o in provincia o se lo fa almeno non ci nasci povero. Così pensava.

-Nulla di sicuro. Dipende tutto dal giudice, se vorrà riconoscermi la condizionale. Altrimenti – fece spallucce imitando una espressione da duro -, amen. Mi farò la “boita”. Cosa vuoi che sia?

-Sei mai stato dentro?

Marco lo chiese come non aspettasse una risposta, sovrappensiero. Come se parlasse a un fantasma.

-No. Ma un sacco di “fioi” che conosco sì. Non è niente di che. Stai zitto, ti fai i cazzi tuoi e aspetti che passi il tempo. Puoi pure “fumare” se hai soldi. Così dicono…

-Così “dicono” eh? Passami la sigaretta, va’!

Aspirò una boccata lunga, il fumo si sparse nella pensilina dell’aeroporto mentre un taxi nero accostava indolente.

-Ascolta, non voglio spaventarti, ma il gabbio è un inferno. E chi ti dice il contrario non dovresti manco starlo a sentire. Ma immagino che tu di falliti e di coglioni ne stai a sentire un sacco, sennò non saresti finito nel casino in cui sei. Sbaglio?

-Tu di solito offendi quelli che conosci? – chiese secco, serrando i denti.

-Ehi! Tranquillo… non ho detto che TU sei un coglione, ho detto che sicuramente conosci solo falliti e coglioni. E mi infilo dentro tra i primi, anche se molti mi inserirebbero tra i secondi senza dubbio – rise tossendo, – ma alla tua età probabilmente avrei rifilato un pugno sui denti se mi avessero parlato così…

-Posso sempre rimediare, – Paolino fece un mezzo passo avanti, abbassando il mento.

-“Bocia”, devi distinguere tra chi ti parla in modo onesto e chi ti vuole insultare. E comunque imparerai che quelli pronti a infilartelo nel culo manco li riesci a capire. E sai perché?

-Perché?

-Perché NON sono dei falliti e dei coglioni, quelli che te lo infilano nel culo. Semplice. Prendi il “capo”, lui è a casa a grattare le piastrelle cercando gli ultimi granelli di “bamba”, ma lui ha studiato, lui è ricco e noi no.

-Ma è un coglione.

-Sicuro, ma chi definisce il tuo essere un coglione è la posizione. E la tua non mi sembra buona. Quindi, tornando alla domanda iniziale: non hai alternative al gabbio?

-Sembra di no. Che poi io quello manco volevo toccarlo, – si passò le mani ossute sul volto e tra i capelli corti, – è stato Al…
Si interruppe, evitando di finire il nome.

-Cambia poco per “quelli”. Giudici, avvocati e sbirri sono tutti dalla stessa parte e quella parte sta dietro di te, ragazzo. Però chissà. Magari puoi ancora giocarti delle mani.

-Lavorando qui? – rispose abbozzando un sorriso.

-Oh, qui no di sicuro, – rise tossicchiando, – ma chissà… e ora andiamo che dobbiamo timbrare, altrimenti ci scalano mezz’ora di lavoro.

L’ufficio per gli addetti alle pulizie era uno stanzone di quattro metri per quattro, con un armadietto in ferro arrugginito e le serrature scassinate; dentro qualcuno si azzardava a tenerci del cibo, che finiva immancabilmente per marcire.

Scope, macchinari e detersivi stavano ammucchiati su vari scaffali e su uno vi era scritto “aut.op.”. Paolino si chiese cosa significasse quella sigla, poi si infilò la divisa, azzurra, le scarpe antinfortunistica e iniziò a spingere l’idropulitrice verso l’esterno. Gettò uno sguardo all’orologio appeso al muro, sullo sfondo c’era il logo di una marca di caffè: erano le due di notte.

Si infilò le cuffie e tornò a immergersi nella trap. Il trapper cantava di fare soldi con le “panette”, si vantava di pistole e pestaggi. Paolo si immaginò a cantare una roba simile, d’altronde lui le viveva davvero quelle situazioni. Tranne i “ferri”, quelli come i coltelli li evitava. Karim, un amico di Jessy, la sua ex ragazza, era al Due Palazzi per 15 anni: aveva ammazzato un altro tizio rifilando una “lamata” a caso. Perché un po’ di pugni, pensava, li prendiamo tutti. Prima o dopo. Ma ammazzare uno per difendersi…

Poi realizzò che a lui era a mancato pochissimo per levare una vita. Senza neppure la scusa di doversi difendere. E a domandargli cosa provasse, avreste ricevuto uno sguardo spento e confuso.

Se ci si sente morti dalla nascita si può essere assassini? Avrebbe voluto domandarselo, avesse trovato le parole giuste. Ma leggere lo annoiava; lo incuriosiva, ma inevitabilmente dopo poche righe tornava al cellulare. Un libro però lo aveva letto, tutto d’un fiato. Grazie a quella professoressa della prima superiore, che poi era la classe a cui si era fermato, aveva letto “Il conte di Montecristo”. E quello sì che era uno con i coglioni, ma poi diventava buono con i nemici e si era trovato a pensare che il Conte si “rinminchioniva”. E lui, col cazzo che avrebbe perdonato la tipa che lo aveva venduto. Ad avercela una ragazza, che con Jessy era finita da poco e lui ne era ancora innamorato ma aveva continuato gli studi, lei, e si era messa con un coglione ricco di Mestre. E lui la vedeva sempre meno in quartiere, si diceva che forse si sarebbe sposata e che non parlava neppure più in dialetto. Però quella “prof” era una a posto, gli aveva fatto leggere un libro intero. Per essere una “zecca” era a posto, pensava.

E alla fine sospirò.

“Troppa roba per te, Paolo”

-Che cosa ascolti? –

Marco gli alitava vicino all’orecchio, sapeva di birra a basso prezzo.

-Bof. La DPG.

Marco lo fissava stranito come avesse recitato una formula della cabala.

-DPG? Ah, quella roba trap che ascoltate voi ragazzi. Ai tempi miei avevamo i Negazione, I Wretched o i Black Flag. Ma non cantavano di marchi e fica… però, sai che in fondo forse siete più svegli di noi? Alla fine, è tutto una questione di fica e di soldi. Non credi? Guarda quella, per esempio…

Indicò con il mento una ragazza di forse una decina d’anni più grande di Paolo, almeno a lui sembrava avere quell’età. I capelli rossi le scendevano sino alle spalle come tendaggi da teatro e la vita era più stretta della cassa toracica, su cui svettavano due seni prominenti strizzati in una camicia a righe. Stava seduta su una sedia con le gambe appoggiate su un trolley di Vuitton.

-Quella, ragazzo mio, gioca in un campionato dove quelli come te e me manco arrivano agli spalti. Voglio dire, – sputò sulla striscia di sapone dell’idropulitrice, – che a noi non ce le concedono mica quelle così. Perché le “nostre” a trent’anni sono già distrutte dal lavoro, dagli spritz e dai figli che quelli come noi gli rifilano in pancia prima di scappare coi coglioni di cui ti parlavo. E così in avanti, per generazioni e generazioni. Guarda i suoi tratti invece, scommetto che nessuno le ha mai lasciato un pupo dentro scappandosene poi in Thailandia.

Paolino aveva l’impressione che stesse parlando di sé stesso. Ma tacque.

Aveva imparato presto, in quartiere e per strada, che mostrare i propri pensieri era un lusso pericoloso. Il suo vecchio glielo ripeteva sempre: non far mai capire a nessuno cosa ti passa per la testa.

Qualche faccia iniziava ad affollare la sala d’attesa, gli schermi lentamente aggiungevano gli orari di partenza degli aerei, ma i negozi avrebbero aperto più tardi lasciando i manichini a scrutarlo, avvolti in abiti che costavano a volte quanto un suo stipendio; se fosse arrivato a vederlo. Sia che l’indomani si fosse deciso che la sua residenza sarebbe stata a Santa Maria Maggiore, sia che continuasse a vivere libero, il lavoro sembrava volerlo soffocare. Non trovava giusto, seppure il suo concetto di giustizia si limitasse a un pugno in risposta a un insulto, dover sgobbare così tanto per non arrivare neppure a poter possedere quella cintura avvolta alla vita del manichino.

Si domandava che mondo fosse quello in cui dei manichini, dei pupazzi di plastica, vestivano meglio di chi era vivo. O forse erano morti quelli che cercavano affannosamente di dimostrare il contrario, con i loro abiti costosi, le loro auto di lusso e i loro gioielli?

Si trovò stupito a farsi certe domande. Ma pulire è un’attività che lascia molto spazio alla mente, forse troppo, pensava.

La ragazza si era addormentata e lui continuava a girarle intorno con la pulitrice, tenace come una lumaca e chiara nella traccia come lei.

-Vuoi chiedermi qualcosa?

La ragazza non aveva neppure aperto gli occhi e ora che la osservava da vicino Paolo notava che era donna da un pezzo, probabilmente aveva dieci anni più di lui. Delle piccole macchie sugli avambracci mostravano una permanenza poco accorta alle esposizioni solari.

Le mani erano lisce e con anelli dorati che, poteva scommetterci, non erano finti come quelli delle sue amiche.

-Scusa?-, non gli era uscito di meglio che una domanda camuffata.

-Mi giri attorno da un’ora e a occhio il tuo collega si sta sobbarcando tutto il lavoro,

-Mi giri attorno da un’ora e a occhio il tuo collega si sta sobbarcando tutto il lavoro, quindi o ci tieni particolarmente a pulire questa zona o vuoi domandarmi qualcosa…

-… e perché dovrei voler domandare qualcosa, a te?

La ragazza allungò le gambe in avanti, vibrando con tutto il corpo come un gatto.

Possibile non sappia chi sono? Si domandò lei.

-Hai ragione. Non ne avresti motivo.

Aveva una voce leggermente roca, e sillabava scandendo ogni lettera e a Paolo sembrava quasi finta nel suo dialogo.

-Comunque, signorina, mi scusi… ora mi levo di torno.

-E perché? Mi conciliavi il sonno con quella macchina, continua pure.

Paolo obbedì al consiglio – o era stato un ordine? Fuori era ancora buio, le luci delle torri lampeggiavano e i facchini fumavano già stanchi in attesa dei primi arrivi.

-Be’? Che ti ha detto?

Marco appoggiato a un cestino dei rifiuti lo osservava, passandosi le dita, H A R D, sulla barba ispida.

-Nulla, mi ha chiesto se volessi domandarle qualcosa…

-E tu?

-Io nulla, devo lavorare, non chiacchierare con la gente.

A sentirsi gli pareva fosse stato il capo a parlare al posto suo.

-Non sei sveglio con le donne, eh? – Marco sorrideva con gli occhi stretti.

-Ne ho quante ne voglio.

-Come quella? Non credo mica, piuttosto penso che quel cazzetto tu lo abbia usato poco. E non con una così di sicuro. Avesse parlato a me, guarda, mi sarei fatto licenziare ma – fanculo! – non me la sarei lasciata scappare. Sei ancora un ragazzino, eh? Dannazione, vorrei riaverla io quella fiducia di essere eterno…

-Ma di cosa stai parlando? Non ti seguo.

-Parlo del fatto che come tutti i ragazzi non acchiappi le occasioni, perché pensi che ne arriveranno altre. Pensi che avrai ancora tempo in futuro. Non ce l’hai ragazzo, il tempo… quando inizi a pensarci, intendo, ti è già passato dietro.

Il viso di Paolino si scurì. Il tempo, ma di cosa stava parlando? Il tempo, dice lui, a me il tempo me lo stanno per scippare.

-E so cosa stai pensando. Se andrà male sarà un anno. Vorrei dirti che non sarà un anno gettato nel cesso, ma non è così. Però non devi per forza farti la galera per capire la lezione di quella donna. Ecchecazzo! Non lasciare mai rimpianti. Voglio dire, sei abbastanza uomo per farti incastrare da un coglione in una rissa e non lo sei per…- allungò il collo, – per quella? (continua)

Gianluca Ferrari

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Foto di Davide Carraro

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