Nei tempi andati, osservò un grande musicista, il calzolaio faceva le scarpe per gli altri: oggi, invece, le fa solo per sé. Nella sua disarmata semplicità, questa citazione riassume lo sviluppo delle arti negli ultimi due secoli, da quando, appunto, si consumò il divorzio fra l’autore e il suo pubblico. Infatti, a cominciare proprio dalla musica, tale distanza si è talmente ampliata da costituire, in molti casi, una barriera invalicabile, che ha escluso l’ascoltatore medio dalla possibilità di un godimento estetico. Questo per dire come molta parte della produzione artistica risulti oggi estranea ai “normali” fruitori. Ciò vale anche per la poesia, che è andata inesorabilmente allontanandosi dal gusto medio.
Il preambolo ci porta alla domanda: come invitare ad un’opera complessa come quella di Yves Bonnefoy, uno dei maggiori poeti del secolo scorso, morto ieri all’età di 93 anni? Partiamo dicendo che, oltre ai suoi versi, egli ha composto saggi che spaziano dalla critica d’arte alla storia della letteratura, con interventi su Giacometti o Piero della Francesca, su Ariosto, Shakespeare, Leopardi o Baudelaire. Con lui scompare un poeta che, pur provenendo da una matrice speculativa, volle sempre aderire alla realtà, in maniera concreta, materica.
Diamo allora uno sguardo alla sua formazione. Tra le letture predilette troviamo da una parte Plotino, Hegel, Cèstov, Kierkegaard, dall’altra Dante, Racine, Mallarmé, Bataille, e molti testi arcaici quali il Popol-Vuh, Il Libro dei morti egizio o il Kalevala finnico. A ciò si aggiunga l’influsso dell’esistenzialismo e della fenomenologia. Si è parlato al riguardo di una suspense metafisica, di una teologia negativa, di una concentrazione che ricorderebbe il dialogo agostiniano dell’anima con se stessa. Tuttavia, tale legame fra poesia e filosofia non deve far dimenticare la ricchezza delle opere in prosa. Al pari di poeti quali Auden, Brodskij o Paz, Bonnefoy ha cioè offerto avvincenti testimonianze di “saggistica creativa”.
E dunque, rispondendo alla domanda iniziale, forse un lettore non specialista dovrebbe proprio partire da questi libri, per poi passare al nucleo centrale dei versi. Si pensi al Giacometti del 1991, un testo che, definito “biografia di un’opera”, meriterebbe l’appellativo di romanzo. Basti un esempio. Un giorno l’artista rimase a casa di un’amica per badare al figlio. Al ritorno, la donna li trovò in un silenzio glaciale. Cosa è successo? “Non ha voluto disegnarmi un coniglio”, dice il bambino in lacrime. “Non so disegnare un coniglio”, rispose tetro l’improvvisato baby sitter. Nascosto alla fine del volume, in qualche modo l’aneddoto ne costituisce il fulcro. A ben vedere, infatti, tutto il libro non è che un illuminante commento a tale incapacità di rappresentare la vita naturale. Ma se un artista non sa disegnare conigli, e rifiuta il richiamo del vero, quale sarà l’oggetto della sua arte? La risposta sta appunto nello sguardo del poeta-biografo, che tramite il doppio registro psicoanalitico e fenomenologico incrocia la vita di Giacometti con la sua arte.
Nato a Tours nel 1923 da padre operaio e da madre insegnante, Bonnefoy studia filosofia (prima alla Sorbona, poi con Gaston Bachelard) e si avvicina al surrealismo, stringendo amicizia con scrittori e pittori quali Paul Celan, Philippe Jaccottet, André Frénaud, Balthus e Pierre Klossowski. Tra le sue raccolte di versi dopo il grande successo di Du mouvement et de l’immobilité de Douve (1953), si segnalano Hier régnant désert (1958), Pierre écrite (1965), Dans le leurre du seuil (1975), Ce qui fut sans lumière (1987), La vie errante (1993), Les Planches Courbes (2001) e L’heure présente (2013). Da segnalare la cura di un Dizionario della mitologia in tre volumi (poi edito da Rizzoli nel 1989). Fra le prose, L’Arrière-Pays (1972) e Rue Traversière (1977). Sposato nel 1968 con la pittrice americana Lucy Vines, nel 1972 ha una figlia, Mathilde, oggi regista. Dal 1981 viene nominato alla cattedra di “Studi comparati della funzione poetica” al Collège de France. Una curiosità: nel romanzo di Leonardo Sciascia Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, compare proprio Bonnefoy (autore, non a caso, di un testo intitolato Un sogno fatto a Mantova, tradotto da Sellerio nel 1979).
Ma torniamo all’avventura surrealista. Dopo una prima adesione al movimento, già nel 1947 Bonnefoy rifiuta di formare un manifesto surrealista. Motivo del distacco è il rimprovero, rivolto a Breton e compagni, di sostituire alla realtà una surrealtà. Eccoci al centro della sua ispirazione: attingere ad una sorta di infanzia linguistica, per ritrovare, come è stato detto, la nativa vicinanza delle parole e delle cose minacciata dalla concettualizzazione e dall’astrattezza. Da qui la violenta polemica con Valéry. La sua indagine vuole restare ancorata alla sfera mondana, e lo dimostrano sia il titolo della prima raccolta (Anti-Platone), sia l’intento di “restituire all’oggetto terrestre la sua vocazione all’assoluto”.
Come mi capitò di notare, il suo universo lirico pare ridursi ad alcuni elementi primordiali (pietra, fuoco, sangue, spada, vento, albero, schiuma, acqua, ferro, terra, lampada, alba, uccello, riva, stella), “sostanze” che formano un dettato chiuso e sigillato, spesso ermetico, benché animato da misteriose, vivissime presenze. Possiamo dire insomma che la sua scrittura, in versi o in prosa, abiti una dimensione fatta di enigmi e presagi, come si legge in uno dei suoi capolavori, L’Arrière-Pays (1972), ossia L’entroterra, uscito da Donzelli nel 2004. Quando una strada si leva scoprendo in lontananza altri percorsi nelle pietre; quando il treno si infila in una stretta valle, all’imbrunire, passando davanti a certe abitazioni dove per caso si accende una finestra; quando la nave segue da vicino una costa, mentre il sole ha un bagliore su un vetro distante; quando il mistero tocca per un attimo cose umili quali uno specchio consunto, un cucchiaino di stagno, un giardino scorto attraverso una siepe – ebbene, quando ciò accade, allora la realtà sembra dischiudersi e divaricarsi come a un bivio. Che nome hanno quei villaggi laggiù? Perché sta ardendo un fuoco su quella terrazza? Chi è che ci fa segno? A chi è rivolto quel saluto?
Epifanie, apparizioni, presentimenti, costituiscono un tratto inconfondibile della sua ricerca, e a partire da questa idea di soglia della percezione, Jean Starobinski ha individuato il sussistere di un atteggiamento gnostico, rimpianto di una perdita originaria: “In simili occasioni, è rapida in me una particolarissima emozione. Credo di essere vicino, mi sento chiamato alla vigilanza. Basta un cenno perché l’essere e la sua luce si divida, e io mi senta in esilio”. Ecco, Bonnefoy ci ha lasciato, ma lasciandoci un inesausto desiderio di senso e insieme di fratellanza verso il Creato.
*testo di Valerio Magrelli apparso in La Repubblica di sabato 2 luglio e pubblicata in Finnegans per gentile concessione dell’autore
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