Come si fa, nel 2000 e (parecchio) rotti, a suonare come i CSN, i Byrds e i Doors senza apparire gli ultimi, patetici paladini di una (sia pur gloriosa) tradizione che annovera una ormai processionale sequela di stucchevoli epigoni? Magari bisogna giocare di sponda, confondere le acque, coltivare una “misurata irrequietezza” e, insomma, fare un po’ come fanno i newyorkesi Woods.
Solo una dozzina d’anni fa, per dire, si affacciavano sul mercato discografico con un gracchiante esordio freak-folk grossolanamente autoprodotto: svagati bozzetti d’indolenza lisergica drappeggiati da dodici corde sommariamente accordate su stonato hipster catatonico, tra rumorini e interferenze di eterogenea natura “ambientale” a certificare la ruspante immediatezza della instant take e quel tanto di percussioni giocattolo buttate lì un po’ a casaccio, che Moe Tucker in confronto sembra Keith Moon. Però facevano sul serio, e già molto meglio, solo un paio di anni più tardi, quando At Rear House (2007), pur senza abdicare all’ortodossia lo-fi, bonificava la proposta da sporcizie assortite e cazzeggio freak, recuperando innanzitutto una scrittura pop più robusta e più lineare. In At Echo Deck (2010) e nel successivo Sun and Shade (2011), poi, hanno ripulito ulteriormente il sound e levigato la struttura dei brani per ormeggiare ad un porto sicuro, quello del folk rock westcoastiano, fase di cui i successivi Bend Beyond (2012) e With Light and With Love (2014) sono l’ultima formidabile sintesi.
Come tanti altri collettivi germogliati nel sottobosco della bassa (talora infima) fedeltà, anche i Woods hanno intrapreso il proprio viaggio di formazione sotto l’egida di un progressivo recupero delle radici, di una graduale “normalizzazione”, dove la maturità espressiva collima inesorabilmente con il docile riflusso nel solco, ampio e accogliente, tracciato dal grande cantautorato nordamericano. E pur tuttavia compiono un piccolo miracolo perché, nel momento stesso in cui riconoscono una discendenza, consolidano un’identità stilistica precisa e meno derivativa di quanto possa apparire in prima battuta, e questo proprio in virtù di una eterogeneità di riferimenti stilistici davvero vasta e ambiziosa, capace com’è di spaziare con estrema disinvoltura dai più bucolici acquerelli di folk-rock pastorale, impreziositi da deliziose armonizzazioni vocali, alle più destrutturate reminiscenze di acid-free-folk, che deragliano i brani lungo imprevedibili fughe strumentali psichedeliche. Neil Young e Flaming Lips, Beach Boys e Violent Femmes, Byrds e No Neck Blues Band: il campo d’azione dei Woods si espande sempre e comunque, incorporando e riverberando sempre più cose. Che, e qui sta il prodigio, non somigliano mai a posticci e ridondanti ammiccamenti buoni solo a movimentare il canovaccio; ma appaiono perfettamente integrati alla coerenza di un discorso espressivo che fluisce compatto, armonioso, naturale.
E ancora nulla, tuttavia, lasciava presagire l’ultima, vertiginosa ed esponenziale metamorfosi attuata con City Sun Eater In The River Of Light (2016), ad oggi l’ultimo tassello di una discografia già piuttosto generosa, che arricchisce la loro tavolozza cromatica di ulteriori sfumature consacrandoli come una delle realtà più interessanti dell’odierna scena alternative rock. Dove la quadratura del cerchio sembra essere la provvidenziale contaminazione con certe sonorità funky-soul, talvolta insaporite di jazz o di un tocco quasi reggae, con l’approdo ad un suono ancora più rotondo, più prodotto, (ri)strutturato in forma canzone definitiva attraverso provvidenziali iniezioni ritmiche e lussureggianti intuizioni in sede di arrangiamento. Ennesimo scarto di una vivacità creativa stupefacente, che si attende al varco di nuove, mirabolanti sorprese alla vigilia dell’imminente Love Is Love, la pubblicazione del quale è prevista per maggio. Chi vorrà, potrà pregustarne il valore dal vivo in occasione delle quattro date del loro minitour italiano: il 31 marzo allo Spazio 211 di Torino, il 1 aprile al Monk di Roma, il 2 aprile al Bronson di Ravenna e il 4 aprile al Serraglio di Milano.
Giovanni Di Vincenzo
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