RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Volti e risvolti della competizione. “Classici Contro” in azione a Vicenza con “Eris. Archeologia del conflitto”, di Valeria Melis

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Il cavallo di Troia. Simbolo di Classici Contro realizzato dall’artista Luciano De Nicolo

Dopo lo stop forzato dovuto alla pandemia, finalmente i Classici Contro sono tornati anche a Vicenza con Eris. Archeologia del conflitto. Il gruppo di ricerca dell’Università Ca’ Foscari Venezia, ideato dai docenti di Letteratura greca e di Filologia classica, Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani, è entrato in azione il 14 e il 15 aprile, nel pomeriggio alle Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari e la sera nello straordinario Teatro Olimpico, progettato, come è noto, nel 1580 dall’architetto Andrea Palladio su incarico dell’Accademia Olimpica. Tra i curatori degli incontri anche Stefania Portinari, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università Ca’ Foscari, e i professori del Liceo Pigafetta di Vicenza, Daniela Caracciolo e Dino Piovan.

Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani

Guai a chiamarle “conferenze”, “lezioni” o “seminari”! Quelle di Classici Contro sono azioni perché mettono in gioco parole e pensieri con una ricaduta concreta sulla società civile, un civil impact, come usa dire Alberto Camerotto, riprendendo e modificando la terminologia economica del social impact. Il tema di quest’anno è uno di quelli sempre attuali: eris, la ‘contesa’. Nel poema didascalico Le opere e i giorni, composto nell’ottavo secolo a.C. da Esiodo, il poeta spiega che sulla Terra non esiste una sola eris, ma due: una è buona, poiché, inducendo gli esseri umani all’emulazione di chi è bravo e onesto, «spinge persino l’ozioso a darsi da fare»; l’altra è cattiva, in quanto «favorisce la guerra funesta e la lotta». Come molti termini dell’universo morale greco, dunque, eris designa una realtà complessa, sfumata, che può sfociare in una ossimorica contraddizione. A Vicenza i Classici Contro ne hanno posto al vaglio le molteplici sfaccettature con quattro azioni.   

   

Egidio Ivetic e Carmine Catenacci

La prima azione, svoltasi nel pomeriggio di venerdì 14 aprile, alle Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari, è stata introdotta da Federica Bon (Liceo Pigafetta) che, nel fare gli onori di casa, ha spiegato come la complessità del concetto di eris rifletta quella dell’animo umano. Al centro sono state le riflessioni di Carmine Catenacci (Università “G. D’Annunzio” Chieti – Pescara) e di Egidio Ivetic (Università di Padova) sulle radici e sugli sviluppi delle rivalità tra Oriente e Occidente, dalle Guerre persiane fino al conflitto tra Russia e Ucraina. Muovendo dal saggio di Louis Gernet, I Greci senza miracolo (Les Grecs sans miracle, 1983), Catenacci ha mostrato come le origini del rapporto conflittuale tra Oriente e Occidente possano essere individuate nello scontro di civiltà tra Greci e Persiani. Se nel periodo arcaico le relazioni tra la Grecia e il mondo anatolico e microasiatico sono all’insegna del confronto e della compenetrazione, pur con qualche sbavatura conflittuale, a partire dalle Guerre persiane (498-479 a.C.) le ostilità tra i due popoli determinano una profonda crepa che favorisce fenomeni di deformazione nella narrazione degli eventi e il costituirsi di modelli oppositivi stereotipati perduranti fino ai giorni nostri: da una parte l’Ovest libero, razionale e democratico, dall’altra l’Est assolutistico, irrazionale, caratterizzato da primitivismo sociale e politico. Dunque, osserva Catenacci, è nel sesto secolo a.C., con l’espansione dell’impero persiano, che cominciano a configurarsi alcuni tra i principali orientalismi e occidentalismi dei nostri tempi. Essi, infatti, sono tuttora presenti nel sistema dell’informazione (l’immagine che i media hanno dato di Saddam Hussein coincide con quella tirannica offerta dalle fonti antiche sul Gran Re di Persia), nel cinema (si pensi alla caratterizzazione dei Persiani nel film The 300 Spartans, sulla battaglia delle Termopili) e nella pubblicistica.

Ivetic ha preso in esame il continuo ridefinirsi dell’Ovest e dell’Est dell’Europa, assumendo la prospettiva teorica formulata da Samuel Phillips Huntington in Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, 1996). Per Huntington la divisione tra Occidente e Oriente è di natura identitaria, culturale e religiosa. Due sono le tradizioni storiche europee in opposizione, quella latina occidentale e quella post bizantina: tra Europa occidentale ed Europa orientale corre una faglia lungo la quale si verificano scosse che disintegrano le comunità politiche circostanti. Nel periodo in cui Cirillo (827-869) fa viaggiare la cristianità verso oriente, “conquistando” i popoli slavi culturalmente, dando loro la liturgia, l’Europa come noi la intendiamo ancora non esiste, identificandosi solo con la cristianità. Dal 1240 al di là della Polonia si trovano i Mongoli. L’Oriente d’Europa non c’è: c’è solo la cristianizzazione, che termina con l’Ungheria. La situazione muta radicalmente tra il Duecento e il Trecento, quando la Lituania, ancora pagana, si lega all’attuale Kiev per trecento anni. È in nome di questo legame che l’Ucrania nega di condividere le sue origini con la Russia. Quest’ultima, dopo il processo di europeizzazione voluto da Pietro il Grande e la modernizzazione incoraggiata dall’ideologia comunista, è tornata alla vecchia retorica del percorso storico separato da quello europeo. Riconquistare l’Ucraina significa, per la Russia di Putin, realizzare il “sogno” della riconquista delle proprie origini.

Cinzia Bearzot e Miguel Gotor

Il preludio alla seconda azione, svoltasi tra le eleganti architetture palladiane del Teatro Olimpico, è stato condotto da Dino Piovan (Liceo Pigafetta – Accademia Olimpica). Piovan non si è limitato a illustrare il mito dei Sette contro Tebe, che sarebbe andato in scena di lì a poco, ma ha problematizzato il concetto di stasis, la ‘guerra civile’, mostrandone i possibili risvolti positivi: la fine di Tebe comporta l’inizio di una polis, cioè di una città intesa come comunità politica. L’azione teatrale, intitolata Sette contro Tebe, messa in scena dagli studenti e dalle studentesse del Liceo Pigafetta e curata da Andrea Dellai, ha dato corpo alle parole del conflitto attraverso uno dei suoi archetipi mitici più significativi: la contesa tra i gemelli Eteocle e Polinice per l’eredità di Edipo e la successione al regno di Tebe. Al dinamismo e alla concitazione degli eventi che precedono la reciproca uccisione dei fratelli si oppone la calma luttuosa successiva alla loro morte. Una pioggia che cade idealmente sulla scena bagna le gote di Antigone, intenta a dare sepoltura al fratello Polinice, nonostante il divieto del re Creonte.

Una scena di Sette contro Tebe (Liceo Pigafetta)

Il tema della stasis è stato al centro degli interventi di Cinzia Bearzot (Università Cattolica Milano) e Miguel Gotor (Università Tor Vergata Roma). Bearzot ha mostrato come, nella Grecia antica, la stasis, pur essendo di base giudicata negativamente, sia stata rivalutata e giustificata quando ha assunto le vesti della “lotta per la democrazia”. Il valore più comune del termine, quello negativo, è evidente nelle riflessioni che lo storico Tucidide svolge sul violento scontro tra gli oligarchici e i democratici di Corcira (427 a.C.): mentre il polemos, cioè la guerra tout court, scatena le passioni popolari, la stasis determina il sovvertimento dei valori comuni cancellando la omonoia (‘concordia’) e lasciando dilagare la pleonexia e la philotimia, cioè l’avidità di guadagno e di potere, senza riguardo per l’interesse collettivo. Nel 411 e nel 404 a.C. anche Atene fu teatro di violente lotte intestine che portarono per un breve periodo di tempo al rovesciamento della democrazia e all’instaurazione di un regime oligarchico. Le vicende del 411 sono descritte da Tucidide nell’ottavo libro delle Storie, quelle del 404 sono narrate da Senofonte e da Lisia. Fatto particolarmente interessante, quest’ultimo, perché Senofonte, sostenitore degli oligarchici, è solito riferirsi a quegli eventi con il termine neutrale polemos, mentre Lisia, di orientamento democratico, non si fa alcuna remora a designare il conflitto tra le due fazioni usando la “scomoda” parola stasis. Sebbene il valore negativo di questo termine risulti predominante, è proprio in occasione della descrizione dei colpi di Stato del 411 e del 404 che ha luogo una sua rivalutazione e giustificazione: Tucidide e Lisia suggeriscono, infatti, che la guerra civile possa essere non già buona, ma almeno accettabile, quando è combattuta in nome della libertà.

Se, come ha affermato Gotor, «il conflitto è il sale della democrazia e della vita», negli anni Settanta del Novecento l’Italia di sale ne ha avuto parecchio. Ma è un capitolo su cui non si vuole tornare: «Non vogliono che su quel periodo si posi la serenità di un giudizio storico: c’è chi quei fatti li ha vissuti e vi identifica la sua giovinezza e, poi, c’è la magistratura che sui fatti di quegli anni non indaga». Gli anni Settanta, in Italia, sono una luna con due facce. La prima è quella della violenza politica, fatta di conflittualità profonde, insistite, incessanti: la violenza giovanile lungo un crinale fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo; la violenza stragista di stampo neofascista che coinvolge i comuni cittadini; la violenza di origine terroristica e internazionale, che ha per mandante “lo straniero” e per sfondo la guerra mediorientale, la crisi energetica e il traffico d’armi. Ma c’è anche una faccia positiva della luna: quegli anni di tensione sono anche anni di grandi innovazioni e di forti spinte riformiste, dall’emanazione dello statuto dei lavoratori al diritto all’aborto e al divorzio, dalle riforme della scuola all’introduzione del sistema sanitario nazionale. Due sono i giudizi solitamente formulati sugli anni Settanta in Italia: per alcuni è stato un momento di spinte riformatrici, il cui completo compimento è stato impedito dalla violenza; per altri è stato il periodo dei grandi ideali e della “meglio gioventù”, i cui propositi sono sfumati nel nulla non si sa a causa di chi. Ma Gotor si dichiara poco convinto da queste “letture”, a suo avviso fondate sull’idea che gli Italiani non sappiano fare i conti con il loro passato e su un tentativo di deresponsabilizzazione dovuto a una presunta “innocenza” del popolo italiano. Come che sia, L’Italia è riuscita a superare l’incredibile eris e la stasis che l’hanno attraversata negli anni Settanta. Certo, ne è uscita modificata, ma la democrazia ha retto grazie ai partiti di massa, ai sindacati e anche grazie a una «certa saggezza del popolo». 

Le “protagoniste” della terza azione (da sinistra a destra): Federica Leandro, Raffaella Viccei, Katia Barbaresco, Anna Baldo, Ludovica Consoloni

La terza azione, svoltasi nel pomeriggio del 15 aprile alle Gallerie d’Italia, è stata introdotta dalla storica dell’arte contemporanea Stefania Portinari (Università Ca’ Foscari Venezia) che ha passato in rassegna alcune delle maggiori rappresentazioni contemporanee delle Amazzoni, dalle Amazzoni di Ubaldo Oppi a quelle di Massimo Campigli fino alle suggestioni “amazzoniche” in Summerspace di Merce Cunningham. E alle coraggiose guerriere è stato dedicato l’intero pomeriggio.

Nel suo denso intervento, Raffaella Viccei (Università Cattolica di Brescia) ha evidenziato, innanzi tutto, lo stretto rapporto tra le Amazzoni e la contesa: è la dea Eris in persona a consegnare a Pentesilea – regina di queste guerriere poste ai limiti del mondo conosciuto – le armi con cui combatterà a Troia. La studiosa spiega che «i corpi dipinti o scolpiti delle Amazzoni che, spesso a cavallo, coraggiose e brutali, lottano con gli uomini, appartengono a un immaginario comune che affonda le radici nell’arte greca». Pentesilea è una delle prime a comparire nell’iconografia. Due sono le linee iconografiche principali: quella che rappresenta il momento dell’uccisione di Pentesilea da parte di Achille e quella che associa le Amazzoni ai Persiani che avevano tentato di invadere la Grecia. Il fulmineo innamoramento di Achille quando scopre il volto di Pentesilea, che ha appena colpito a morte presso le mura di Troia, è rappresentato in tutta l’intimità del momento nell’anfora attica di Exekias (540-530 a.C.). E ancora più intimo è lo scambio di sguardi tra i due nello splendido specchio in bronzo proveniente da Vulci e datato tra il 500 e il 450 a.C. La linea iconografica che “persianizza” le Amazzoni si mostra in tutta la sua potenza nelle amazzonomachie scolpite sull’acropoli di Atene e in quella dipinta da Micone, forse nella Stoà Poikile, «divenuta tanto esemplare da essere evocata nella Lisistrata di Aristofane». Volta a esprimere la speranza di vita dopo la morte è, poi, la rappresentazione eroica del mito delle Amazzoni che campeggia in una loutrophoros attica attribuita a un pittore del gruppo di Polignoto (440 a.C). Un cratere a volute apulo del pittore della nascita di Dioniso (400-380 a.C.) mostra come, nella rappresentazione dell’amazzonomachia, vi sia continuità tra Oriente e Occidente sul piano iconografico, ma non iconologico: nel mondo occidentale, infatti, persiste la connotazione “persiana” delle Amazzoni, vero e proprio simbolo dell’“altro”. Il viaggio attraverso la polisemia iconografica delle Amazzoni si chiude con le immagini del cratere a colonnette apulo del Pittore di Ariadne (400-380 a.C.), dove una coraggiosa Amazzone si difende e contrattacca, del Sarcofago delle Amazzoni da Tarquinia (370-350 a.C.), che rappresenta lo scontro tra Achille e Pentesilea, e del vaso attico del pittore di Diosphos (seconda metà del VI – inizio del V sec. a.C.), legato alla filatura e a quegli ambienti chiusi femminili, rispetto ai quali il mondo matriarcale e ginecocratico delle Amazzoni svolge un ruolo di rovesciamento.

Bella anche la serie di interventi delle studiose del gruppo di ricerca Aletheia Ca’ Foscari, che hanno esaminato il mito delle Amazzoni attraverso un poeta epico non molto noto, Quinto Smirneo (terzo secolo d.C.), autore dei Posthomerica, c’est-à-dire del “sequel” dell’Iliade di Omero. Federica Leandro e Ludovica Consoloni hanno offerto una panoramica sul modo in cui Quinto descrive le Amazzoni. Esse sono dodici, guidate dalla regina Pentesilea, le cui movenze leggiadre ricordano quelle di una dea. Le donne giungono a Troia perché Pentesilea ha involontariamente ucciso sua sorella ed è, dunque, perseguitata dalle Erinni. Ma la ragione principale della loro venuta è la brama di combattere. Quinto attribuisce alle Amazzoni nomi da uomini e si sofferma sui particolari della vestizione delle armi, come avviene per gli eroi omerici. Dipinte con tratti virili, esse sono, però, pur sempre donne e, dunque, nel confronto bellico con gli uomini, non possono che essere destinate alla sconfitta. Katia Barbaresco ha concentrato l’attenzione su un episodio particolare dei Posthomerica. Al di fuori delle mura di Troia la guerra impazza e le Amazzoni, giunte in soccorso della città, stanno combattendo. Le donne troiane, vedendole, interrompono le consuete attività domestiche e si affacciano dall’alto delle mura per osservare le gesta di quelle straniere. Si apre, così, un dibattito che assume la veste dei dissoi logoi, cioè dei discorsi “duplici”, usati dai sofisti per argomentare tesi diametralmente opposte. Una giovane troiana incita le altre a mettere da parte i loro strumenti muliebri e a scendere in campo armate come Pentesilea e le sue compagne. Ma il suo entusiasmo viene spento dalla moglie di Antenore, Theano, che ribadisce la divisione dei ruoli tra uomo e donna su cui è fondata la società civile, cui le Amazzoni sono estranee. Tutto l’episodio è inquadrabile come una if not situation, cioè come una narrazione “di quel che accadrebbe se”, ma che poi non avviene per il prevalere della condizione “normale”. E non può accadere, infatti, che le donne del mondo civilizzato combattano, perché, come afferma Theano, riecheggiando un motto attestato fin dall’Iliade di Omero, «saranno i nostri uomini a occuparsi della guerra». Anna Baldo ha mostrato come Quinto Smirneo, nonostante inizialmente si soffermi sugli aspetti virili delle Amazzoni (ad esempio, attribuendo loro gli epiteti tipici degli eroi omerici), ne ribadisca la natura muliebre nel momento drammatico dell’uccisione di Pentesilea: la regina, infatti, è colpita nella sua parte più femminile, il seno, e si accascia al suolo compostamente, preservando il suo pudore, come una vergine. Achille, non appena s’accorge di aver ucciso una donna, non procede alla consueta spoliazione, levando solo l’elmo, e si pente di essersi vantato della sua vittoria, rendendosi conto che avrebbe voluto condurre Pentesilea, bella come Artemide, a Ftia per farne la sua sposa.

Elisabetta Gola ed Elisabetta Biondini

L’ultima azione dell’edizione vicentina dei Classici Contro 2023 si è svolta al Teatro Olimpico. Brillante e acuta l’introduzione di Daniela Caracciolo (Liceo Pigafetta), che ha messo in luce i due volti principali di Eris: da un lato, essa è la dea della lite e della discordia, quella che, come racconta Esiodo nella Teogonia, indignata per non essere stata invitata alle nozze di Peleo e Teti, fa rotolare la fatidica mela d’oro con la scritta “alla più bella”, scatenando tra Hera, Afrodite e Atena una contesa da cui ha origine la guerra di Troia. D’altro canto, però, come dice lo stesso Esiodo ne Le opere e i giorni, Eris ha anche un volto positivo: essa, infatti, quando assume la forma del confronto e dell’emulazione spinge gli uomini a migliorarsi e a superare i propri limiti. È una dea «bifronte», conclude Caracciolo, «e quindi, per indagarla a tutto tondo, non poteva certo mancare uno sguardo attento sul rapporto, a volte ambiguo, delle donne con Eris».  Il sogno di Giocasta, azione teatrale curata da Andrea Dellai, ha visto di nuovo protagonisti gli studenti e le studentesse del Liceo Pigafetta. I personaggi del mito dei Sette contro Tebe si sono moltiplicati in una coralità di voci, ripercorrendo in maniera del tutto inedita, a tratti con tocchi di amara ironia, le vicende di Edipo e la fatale lotta per il potere tra Eteocle e Polinice. Al centro la figura di Giocasta. Madre e moglie di Edipo, la regina di Tebe segue anche lei il suo destino di morte. 

Una scena de Il sogno di Giocasta (Liceo Pigafetta)

Il primo intervento della serata, tenuto da Elisabetta Gola (Università di Cagliari), ha riguardato il tema spinoso delle “parole delle donne”. I dibattiti che, fin dall’antichità, hanno riguardato la natura del rapporto tra le parole e la realtà si ripetono ancor oggi quando si discute circa la necessità di rendere il linguaggio maggiormente inclusivo (sebbene “inclusivo”, osserva Gola, non sia il termine giusto, perché implica comunque una forma di esclusione). Tre sono i casus belli: la femminilizzazione dei nomi di mestiere (“sindaca”, “ministra” …), la reduplicazione dei nomi (“studenti e studentesse”, “colleghi e colleghe” …), l’uso di segni, come l’asterisco e lo schwa. La questione dei nomi di mestiere al femminile è probabilmente quella di più semplice risoluzione, sebbene sia anche la più dibattuta, soprattutto per via delle posizioni assunte da alcune figure di spicco, come Beatrice Venezi e Giorgia Meloni, che hanno dichiarato recentemente di preferire per loro i titoli al maschile (“Direttore d’orchestra” e “Signor Presidente del Consiglio dei Ministri”). Diverse e contrapposte sono le opinioni in merito: da chi afferma che i nomi di mestiere al femminile “suonano male” a chi osserva che sono grammaticalmente ineccepibili, posizione quest’ultima cui la Gola aderisce. C’è poi la questione della reduplicazione dei nomi: mentre per alcuni si tratta di una inutile lungaggine, per altri è comunque un modo per ribadire dal basso che il problema della discriminazione di genere esiste. Quanto, invece, all’uso di simboli come l’asterisco e lo schwa, Gola ha osservato come esso sorga dall’esigenza di superare il binarismo di genere, sentita soprattutto dalle giovani generazioni, più sensibili al fatto che i generi sono fluidi e vanno molto oltre il binomio uomo/donna. In generale, l’argomentazione più diffusa a favore delle posizioni “conservatrici” è che le parole non sono importanti, perché a contare sono i fatti. Tuttavia, osserva Gola, il problema linguistico è strettamente legato alla realtà, in quanto le istanze poste sul piano del linguaggio incoraggiano e supportano quelle legate alla realtà dei fatti. In ogni caso, osserva Gola, più che imporre soluzioni (che non abbiamo) è importante «confrontarci, parlare senza chiusure e senza la pretesa di imbrigliare il linguaggio». Il dibattito non deve essere una guerra, ma un viaggio: «Importante non sarà la destinazione, ma ciò che avremo imparato lungo il percorso».

Elisabetta Biondini (Aletheia Ca’ Foscari) ha affrontato la questione degli stereotipi di genere e della discriminazione nei confronti delle donne attraverso un’attenta disamina sociolinguistica della Lisistrata di Aristofane. In questa commedia, rappresentata in Atene nel 411 a.C., in piena guerra del Peloponneso, le donne greche, guidate dall’ateniese Lisistrata, si coalizzano per occupare l’acropoli, ove è custodito il denaro che foraggia il conflitto, e per mettere in atto uno sciopero del sesso che, alla fine, costringe gli Ateniesi e gli Spartani a fare la pace. Aristofane opera un rovesciamento utopico della realtà, nella quale, come ben mostrano le opere dei tragediografi greci, nel corso delle guerre «l’unico spazio riservato al genere femminile doveva essere quello del pianto e della lamentazione». Lisistrata e le sue compagne, invece, passano all’azione, si coalizzano e, grazie alla forza della loro unione, riescono a ottenere la pace. La solidarietà tra donne è, dunque, fondamentale e, a livello linguistico, trova riscontro nell’uso diffuso della prima persona plurale. Questo, osserva Biondini, avviene anche nella realtà attuale, nella quale, come mostra uno studio recente di Antonella Carullo, le donne, interrogate sulle loro esperienze in tempo di guerra, usano volentieri il “noi” (riferendosi, dunque, collettivamente al genere femminile), mentre gli uomini prediligono l’“io”. Relegati fin dall’antichità entro la sfera ristretta della lalià (cioè della ‘chiacchiera vana’ e del ‘pettegolezzo’), i discorsi delle donne rivelano una realtà ben diversa da quella raffigurata dagli stereotipi di genere, fatta di solidarietà, azione e compartecipazione.  

Valeria Melis e Claude Calame

Ed ecco che, essendo autrice di questo articolo, anch’io, come gli uomini descritti da Elisabetta Biondini, mi ritrovo a parlare alla prima persona singolare! Al centro del mio discorso è stato l’arbitrato in contesti di guerra. Uno dei modi in cui si cerca di porre un freno a Eris è, infatti, la mediazione. Il discorso ha preso le mosse dai recenti tentativi di trovare una soluzione pacifica al conflitto tra Russia e Ucraina. Dall’inizio della guerra, infatti, sono state formulate diverse ipotesi su chi potesse svolgere la funzione di mediatore. Ad esempio, nell’articolo intitolato Ucraina: chi farà il mediatore (se una mediazione ci sarà)?, pubblicato il 19 marzo 2022 sul sito dell’ISPI, Ugo Tramballi ha escluso che questo ruolo possa essere ricoperto dall’Europa e dagli Stati Uniti, essendo troppo sbilanciati a favore dell’Ucraina, e ha ipotizzato che i mediatori ideali possano essere, per importanza crescente, Turchia, Israele e Cina. Per un certo periodo è stata anche ventilata l’ipotesi di un intervento pacificatore da parte del Vaticano. In un conflitto fratricida come quello che coinvolge russi e ucraini i tentativi di mediazione sono parsi ancora più urgenti. Un interessante archetipo mitico di mediazione in una guerra tra consanguinei è senz’altro l’arbitrato condotto da Giocasta nellaTebaide di Stesicoro e nelle Fenicie di Euripide. In quest’ultima opera, rappresentata al tempo delle guerre “fratricide” tra Ateniesi e Spartani e delle lotte intestine tra oligarchici e democratici ateniesi, Giocasta tenta di rappacificare i figli, in lotta per il regno di Tebe, ricordando loro la vacuità del potere e la forza distruttiva della Tirannide, cui contrappone la legge cosmica (e democratica) dell’Uguaglianza (in greco, isotes) che regola la vita della natura e quella degli uomini.

Entrato in scena per ultimo, Claude Calame (École des Hautes Études en Sciences Sociales) ha subito conquistato le simpatie del pubblico: «È difficile per me, un vecchio professore, parlare dopo queste donne, così giovani, brave e belle!». E di donne e di conflitti anche lui, come chi l’ha preceduto, ha parlato. Stavolta, però, Eris ha assunto le vesti delle competizioni sportive. Nella Grecia antica, infatti, le gare di corsa non coinvolgevano solo gli uomini: in alcuni contesti, solitamente legati a riti religiosi, anche le fanciulle gareggiavano tra loro. Ne abbiamo testimonianza, ad esempio, nell’epitalamio di Teocrito dedicato a Elena, dove alcune giovani, «unte d’olio come gli uomini» e ornate di giacinti in fiore tra i capelli, prendono parte a una competizione lungo il fiume Eurota. Pausania racconta che, presso il tempio di Era a Olimpia, un gruppo di sedici donne organizzava gare di corsa dedicate alla dea, alle quali partecipavano le parthenoi (cioè le ‘vergini’), divise in fasce d’età. Inoltre, lo stesso autore scrive di gare di corsa organizzate a Sparta dalle donne che prestavano servizio nel tempio di Dioniso. Dall’Enciclopedia bizantina sappiamo che queste Dionisiadi erano una corsa rituale legata al culto del dio. Nella Grecia classica, l’eris, in particolare la rivalità agonistica, è spesso dominata da Eros, ossia dall’amore. Lo dimostra il mito di Atalanta descritto dal poeta Teognide: Atalanta, abbandonata dal padre Iaso, re dell’Arcadia, che voleva un maschio, viene allevata da un’orsa per volontà di Artemide e poi adottata da alcuni pescatori. Cresciuta bella e forte, Atalanta diventa un’abile cacciatrice e compie imprese straordinarie, che inducono il padre a riprenderla con sé per darla in sposa. La donna, però, vuole restare vergine e sfida i pretendenti in una gara di corsa: chi vince, la sposa; chi perde, muore. Si innamora di lei Ippomene, figlio di Anfidamante, che con un inganno suggerito da Afrodite riesce a sconfiggere Atalanta e a sposarla. Anche questo mito è legato al culto e rappresenta simbolicamente il passaggio della donna all’età adulta.

Con l’intervento di Claude Calame e l’applauso scrosciante del pubblico entusiasta si è chiuso il sipario di questa straordinaria edizione di Classici Contro al Palazzo Leoni Montanari e al Teatro Olimpico di Vicenza. Eris, però, non ha alcuna intenzione di fermarsi ed è pronta a proseguire il suo viaggio in lungo e in largo, per i teatri, i musei, le scuole, le università e le belle sale d’Italia…  

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Immagine di copertina
Particolare della scenografia del Teatro Olimpico di Vicenza 

 

  • Valeria Melis

    Valeria Melis, docente a contratto di Cultura classica (Università Ca’ Foscari Venezia), svolge le sue attività di ricerca presso le Università di Cagliari e Ca’ Foscari Venezia. Le sue ricerche spaziano dal mondo antico (teatro tragico e comico e le sue interazioni con la Sofistica e il diritto attico; teorie del linguaggio; critica letteraria antica; il De rerum natura di Lucrezio) a quello contemporaneo (libro personalizzato; social reading; digital humanities). Tra le sue pubblicazioni più recenti vi sono il volume Le amiche di Lisistrata. Lingua, genere, comicità nel tempo (Morlacchi U.-P., 2021, con Rita Fresu) e il manuale Scripta manent. Dieci lezioni sulla scrittura argomentativa (Mimesis, 2021, con Francesca Ervas ed Elisabetta Gola).

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