Se nell’architettura e nella storia dell’arte figurativa i rapporti di Venezia con l’Oriente sono espliciti, in musica essi non lo sono affatto. Anzi, sembra quasi che la città abbia voluto ribadire tutta la sua natura occidentale e “fiamminga” in antitesi alle musiche “altre” che risuonavano nel bacino del Mediterraneo e più oltre, lungo le Vie della Seta: una simile e voluta sordità ricorda quel leone marciano che a muso duro e baffi vibranti, vangelo ben chiuso e spada ben sguainata, si erge ancor oggi in quei porti del “Golfo di Venezia” nei quali la convivenza era più difficile.
A voler ascoltare meglio, però, dei punti di contatto musicale tra l’Oriente e Venezia si possono forse trovare: accetto dunque la sfida di «Finnegans» e, nell’estrema brevità richiestami, li indico al lettore senza potermici soffermare. Innanzitutto, va segnalata una comunanza concettuale tra la musica veneziana e le tradizioni musicali del Mediterraneo: dalle sue origini sino al XVII secolo inoltrato, la musica veneziana è una musica modale, ossia regolata dal grande principio organizzatore della Modalità che regge tutte le vicine musiche tradizionali del Mediterraneo e del vicino Oriente. Il lettore certo saprà come tale sistema generale astratto sia tipico di tutte quelle musiche che non risultano essere subordinate alla Tonalità e all’armonia tonale. La musica colta veneziana, come più in generale quella europea, si basò per secoli sul sistema modale, progressivamente sostituito, nel corso del Seicento e nel Settecento, dal costituirsi del sistema armonico-tonale, esposto compiutamente nelle opere di Jean Philippe Rameau (Traité de l’harmonie, 1722) e di Johann Sebastian Bach (primo volume del Clavicembalo ben temperato, ancora 1722). Nella storia della musica veneziana, in particolare, furono di riferimento tre specifici sistemi modali: innanzitutto quello greco-bizantino liturgico degli oktoechoi, poi il sistema modale latino medioevale, anch’esso tipico della liturgia, noto come “Gregoriano”; infine, il sistema modale europeo fiorito sul Gregoriano in epoca tardomedievale e rinascimentale che si espresse soprattutto nella Polifonia, nella quale la “Scuola Veneziana” risplende nei secoli XVI-XVII. È importante notare come poco più in là, sull’altra riva del Mediterraneo, nella koinè musicale del vicino mondo islamico (arabo, ottomano-turco, persiano e centroasiatico), la musica fosse regolata da un analogo sistema modale, fiorito sulle identiche concezioni e speculazioni di matrice greco-antica ed ellenistica, che viene complessivamente detto maqâm e che non fu mai abbandonato sino ad oggi.
In mancanza di dati certi, poco si può dire sugli influssi della tradizione bizantina degli oktoechoi. Secondo l’ipotesi più corrente, il patriarcato di Aquileia, connesso con la tradizione bizantino/ravennate, avrebbe esercitato un forte influsso sulla nascente musica liturgica veneziana.
Se questa è l’idea corrente, con il musicologo Giulio Cattin vanno però tenuti in altrettanta considerazione anche il modello romano-antico, gallicano e franco-romano. Sia come sia, è da notare come nei secoli si venne sviluppando un particolare repertorio liturgico connesso al patriarcato aquileiese, prima, e veneziano, poi, che viene detto tuttora “canto patriarchino”. Un simile e particolarissimo repertorio liturgico, ben diverso da quello “ufficiale” romano, ebbe delle ripercussioni di carattere orale ed è ben rilevabile ancor oggi in Veneto, in Friuli e in Istria.
Un secondo momento molto particolare nei rapporti in musica tra Venezia e l’Oriente sembra essere quello delle Greghesche, genere vocale e poetico che visse per un breve periodo verso la fine del 1500. La componente fondamentale di questo genere era data dal testo, composto in una lingua artificiale che mescolava vari dialetti parlati sui territori della Serenissima, tra i quali il greco. Un primo libro di Greghesche venne pubblicato a Venezia nel 1564 su testi di Antonio Molino (1495/1497-1571?), che sotto lo pseudonimo di “Manoli Blessi” compose i testi musicati da alcuni dei maggiori esponenti della “Scuola Veneziana”. Più tardi giunse il libro di composizioni a tre voci del solo Andrea Gabrieli, ancora su testi di Molino, intitolato Greghesche et Iustiniane (Venezia, Gardano, 1571). In generale, le Greghesche sono una parodia di genti e culture con le quali era in contatto Venezia, un gioco di autori di genere “alto”, ma allo stesso tempo sembra sintomatica l’attenzione, anche se parodistica, verso lingue e costumi “altri”.
Scendiamo per calli e campielli: Venezia nei secoli è sempre stata una metropoli cosmopolita nella quale vivevano comunità di genti e religioni diverse. Di molte di queste comunità si sa che facevano musica e si noti come ancor oggi le comunità greca, armena ed ebraica continuino le loro tradizioni liturgiche e musicali. Ora, per loro natura le note vibrano e risuonano nell’aria e viene quindi da chiedersi se fosse davvero possibile che i moltissimi compositori e musicisti dalle fini orecchie che affollavano Venezia, per secoli capitale musicale europea, non udissero i suoni che provenivano dalle varie comunità “etniche” della città: bastava tenere la finestra aperta. In questo senso l’Oriente delle comunità etniche veneziane potrebbe avere influito inconsciamente, inconsapevolmente, su musicisti e compositori. In questa atmosfera inconscia, un’opera testimonia invece un interesse molto consapevole verso le musiche “altre” che animavano la città: sono i salmi ebraici che Benedetto Marcello (1686-1739) raccolse nel suo Estro poetico-armonico (Venezia, 1724-1727), messi in musica, per voci e basso continuo, nella versione in parafrasi italiana realizzata da Girolamo Ascanio Giustiniani.
Nel silenzio sospetto sulle culture musicali con le quali Venezia era quotidianamente a contatto, svettano due opere nelle quali esse vengono invece studiate con una certa attenzione. Penso innanzitutto alle pagine dedicate alla musica dal bailo veneziano Giovanbattista Donado (1627- 1699) nel suo Della Letteratura de’ Turchi (Venezia, Andrea Poletti, 1688), coronate da ben otto pagine di trascrizioni musicali. E penso soprattutto all’abate gesuita Giambattista Toderini (1728-1799), giunto a Costantinopoli al seguito del bailo Agostino Garzoni, che nel suo Letteratura Turchesca (Venezia, Giacomo Storti, 1787) dedica un lungo capitolo XVI (trenta pagine e due incisioni con trascrizioni musicali) alla musica ottomana, descrivendone gli strumenti musicali, ricostruendone la storia, i grandi musicologi e scendendo sul campo ad intervistare interpreti di musica classica ottomana. Curioso, inoltre, che il brano da lui selezionato per la trascrizione provenga dalla tradizione dei dervisci mevlevî, meglio noti in Occidente come “dervisci rotanti”.
Tra Venezia e l’Oriente la musica svolgeva spesso una funzione diplomatica: qui in città si offrivano svaghi musicali agli ambasciatori ottomani suonando la spinetta, mentre sull’altra riva gli ottomani accoglievano gli ambasciatori veneziani (o stranieri tout court) con il suono del mehter, l’ensemble marziale composto da oboi (zurna), trombe (boru, nefîr), tamburi cilindrici bifacciali in legno (tabl, davûl), timpani in rame di media taglia (nakkare) e di grande taglia (kös) ai quali si aggiungevano vari idiofoni, come i piatti
(zîl, halîle). Come altrove nel mondo islamico, gli ottomani consideravano il mehter un emblema del potere regale, la personificazione sonora del sultano: in questo senso era un onore essere ricevuti in tal modo, e in questo senso vanno intesi i doni diplomatici di interi ensemble di mehter a stati vassalli. Di là dalle corti e dalla diplomazia, però, nel furore dei campi di battaglia, le bande militari del mehter giunte
al seguito dei temibili Giannizzeri (da Yeni Çeri, “giovani truppe”) furono la prima occasione per ascoltare in Europa musiche “altre”: con lo strepito di trombe ed oboi lancinanti sopra il rullio profondo e inquietante dei tamburi, il mehter intendeva mettere paura, ed era espressione di una antica strategia marziale di matrice orientale (cinese prima e persiana poi) che consisteva nell’impaurire i nemici e nel rafforzare gli animi degli attaccanti. Almeno in un caso, però, i veneziani non ne dovettero essere così impauriti: le truppe condotte dal capitan da mar (e più tardi Doge) Francesco Morosini verso il 1687 vinsero gli ottomani nella primissima fase della guerra di Morea (1684-1699) e riportarono a casa, confusi nel bottino di guerra, gli strumenti musicali di uno sbeffeggiato mehter ottomano. Gli strumenti sono conservati ancor oggi negli archivi del Museo Correr e dopo anni di oblio hanno conosciuto di recente una rinascita di interesse: esposti ad Istanbul tra il novembre 2009 e il febbraio 2010 al Museo Sakı Sabancı, sono poi stati il tema di una giornata di studi tenutasi a Parigi nell’aprile 2012 al Musée de la Musique.
Il pauroso affascina, e la fascinazione per i suoni del mehter è uno degli elementi alla base della stagione delle cosiddette “turcherie musicali” che infiammò l’Europa tra la fine del XVII e gli inizi del XIX secolo. Anche in questo senso Venezia ebbe un suo ruolo: nel 1680, ben prima della guerra di Morea, Domenico Freschi (1634-1710) inseriva dei piatti, strumenti della famiglia degli idiofoni giunti in Occidente con il mehter, nella sua Berenice Vendicativa, eseguita per la prima volta nel teatro privato del nobile Marco Contarini a Piazzola sul Brenta l’8 novembre 1680.
Piace concludere queste pagine con il presente e con il particolare caso di Bîrûn, il seminario di alta formazione in musica classica ottomana iniziato nel 2012 grazie alla sinergia tra Istituto di Studi Musicali Comparati (IISMC) della Fondazione Giorgio Cini e il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali (DFBC) dell’Università “Ca’ Foscari” di Venezia. Bîrûn si articola in cinque fasi: un bando internazionale (affollatissimo) per sei borse di studio; una giornata di studi che si tiene all’Università e mette in rilievo le connessioni tra cultura e musica del tema prescelto; una settimana di lavoro in residence dei borsisti sotto la guida del m.o Kudsi Erguner, direttore artistico del progetto; un concerto pubblico offerto alla cittadinanza; la registrazione del concerto e, infine, la pubblicazione di un CD-book pubblicato da Nota Edizioni, Udine. Per il nome dell’Ensemble e del progetto ci si è ispirati al passato: il Palazzo (Seray), residenza dei sultani, accoglieva una parte interna, intima, che veniva detta Enderûn-i Hümâyûn e che ospitava la scuola per l’educazione musicale nella quale si formarono molti dei musicisti e dei compositori del mondo ottomano. Il termine Birûn, invece, alludeva all’“esterno”, alla “periferia” e sembra significativo come una tale “periferia” sia ancora una volta Venezia, da millenni in costante rapporto con Bisanzio / Costantinopoli / Istanbul.
Il cerchio si chiude e, fuori dal tempo e dallo spazio, inizia un nuovo giro di giostra per la gioia degli appassionati di musica.
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