MICHELE “È il voler giudicare che ci sconfigge”, Marlon Brando / Colonnello Kurtz in Apocalypse now, 1979.
Tzimtzum I giudici riluttanti e’ il nuovo romanzo di Antonio Salvati, appena pubblicato dalla Castelvecchi per la collana Tasti. Dopo la lunga navigazione di Pentcho, suo primo romanzo pubblicato sempre per Castelvecchi nel 2021, anche stavolta l’autore ci coinvolge in un viaggio.
Con Pentcho ci aveva accompagnato lungo l’esodo di un gruppo di ebrei in fuga dalla barbarie nazista verso la Palestina a maggio del 1940, attraverso il racconto in prima persona di 25 dei circa cinquecento passeggeri dello sfortunato battello a vapore naufragato presso Rodi con il conseguente internamento nel Campo di Ferramonti in Calabria. Tzimtzum I giudici riluttanti è una meravigliosa opera seconda. Ed è seconda non solo per cronologia, ma soprattutto perché questo romanzo ci porta anche stavolta in navigazione, in un futuro indefinito, in un luogo che potrebbe essere ovunque nel nostro mondo di umani sempre più interconnessi, in un microcosmo dove le vicende individuali si intrecciano con quelle collettive della storia.
Un pensiero va a Moni Ovadia, prezioso prefatore ed inesauribile fonte di suggestioni e riflessioni “altre” ed a Michele Caccamo poeta, scrittore ed autore della Nota finale al romanzo. È d’obbligo infine citare Prison Fellowship Italia, una Onlus che si occupa da decenni di “giustizia riparativa” cui l’autore ha devoluto l’integralità dei suoi compensi dalle vendite.
Entriamo allora nel racconto. Su tutto domina una Fortezza. Ed una Voce non umana. Di tutto ci narra Adelmo Sidoti di Luigi, detto “il Bolero”, Custode di un moderno Panopticon che richiama il modello di Bentham in chiave distopica, oltre la modernità.
Ma andiamo per ordine. La Fortezza è lì da secoli, alta e grigia, sempre identica a sè stessa dai tempi in cui era un’antica fortificazione militare usata come carcere. Le sue possenti mura incombono lugubri sulla città sottostante e la sagoma si intravede appena avvolta tra foschie estive o brume invernali. Una presenza perenne, inquietante, che del tempo antico ha mantenuto solo l’esterno. All’interno è tutto nuovo, ben arredato con pareti di un bianco candido, la filodiffusione, una mensa e, magari, si può anche tenere tra le labbra un mezzo toscano (spento eh, che qui è vietato fumare!).
Certo, è necessaria la sorveglianza, ma anche questa è nuova. È moderna. O, se volete, molto più raffinata e pervasiva. Ogni cella è priva di porte sul lato che si affaccia all’interno ed ha solo una minuscola finestrella sulla parete di fondo, così stretta ed alta da per far passare solo la luce dall’esterno. Le celle sono affiancate l’una all’altra, in semicerchio, di modo che l’interno austero (una branda addossata alla parete, un tavolino su quella opposta dove troneggia un vecchio telefono in bachelite con suoneria a campanello e nient’altro) ed il suo ospite siano sempre ben visibili all’occhio attento del Custode, dalla sua postazione al centro del semicerchio (avrete visto tutti il carcere dei padri dell’Europa a Ventotene, no?).
Il Custode, Adelmo, è lì da un tempo ormai infinito (“Era stato il destino o forse solo un incastro di circuiti nascosti ai suoi occhi che l’avevano portato lì…Figurarsi, lui voleva viaggiare. Giornalista, scrittore, fotografo…era proprio così che si immaginava il futuro nei pomeriggi della sua adolescenza”).
Trent’anni erano trascorsi da quando Julia – la precedente Custode, una donna di età indefinita dagli occhi chiari, un accento strano ed un passato ignoto (si vociferava sfuggita agli orrori nazisti, forse ebrea) gli aveva consegnato l’incarico e, con quello, tutti i dubbi possibili su quel mondo complesso chiamato giustizia del cui ultimo tratto, il più duro, triste e sporco, quello del carcere appunto, erano i sacerdoti. Poi per fortuna, pensava Adelmo, c’era stato il Fulmine ed il Tuono. Il popolo, il popolo sovrano aveva fatto la Rivoluzione abolendo giudici, tribunali e avvocati, tutto il vecchio sistema che non funzionava. Niente di cruento, per carità, e tuttavia così incisivo da far crollare quel castello di carta e di carte secolari, di vecchi brocardi latini citati con iterativa patologia, di icone con bilance e bende e spade, di giudicanti monocratici e collegiali, di contraddittori estenuanti tra accusa e difesa.
La Rivoluzione aveva definito i criteri per ottenere finalmente una giustizia efficiente, efficace e, soprattutto, priva di errori. La Procedura li aveva definiti e formalizzati. E la Voce inumana, il suo vero, nuovo, infallibile Giudice ne era diventato lo Strumento. Non più udienze infinite, non più contraddizioni tra diversi giudicanti, ma una semplice linearità capace di ristabilire la fiducia nella Giustizia e, con essa, un nuovo ordine sociale.
L’innocente, in questo futuro immaginario, si affida infatti alla Voce senza alcun timore, certo che la propria innocenza sarà riconosciuta senza possibilità di errore come talvolta poteva invece accadere in passato, quando a giudicare erano donne e uomini in carne e ossa.
Anche il colpevole, però, si consegna fiducioso alla Fortezza perché sa che la sanzione sarà sicuramente adeguata al reato, senza rischi di decisioni apparentemente arbitrarie.
Tutto questo comporta un’inspiegabile maggiore adesione a comportamenti virtuosi e, in questo modo, la Fortezza ora è pressoché vuota se è vero che ci sono solo quattro persone in attesa di giudizio.
E la Voce? Nessuno sa chi sia e dove sia la Voce. L’unica cosa certa è che essa non è di questo mondo. Ma arriva sempre, infallibile e giusta nella sanzione. Arriva all’innocente ed al colpevole, con il suono di un vecchio campanello, ascoltata dal prigioniero proprio attraverso il telefono che incombe dalla parete della cella.
Non proseguo per non privarvi del gusto della lettura. Nel romanzo troverete, infatti, viaggi nelle memorie e nelle coscienze dei quattro attuali reclusi nella Fortezza. Con storie che si intrecciano e si svelano, nel finale, come in un noir psicologico. E, forse, anche con una confessione che la Voce – magistralmente descritta e scritta da Salvati nel romanzo – a modo suo vi racconterà, svelandovi l’arcano della sua esistenza.
Sono stasera con l’autore a Palmi per la prima presentazione del suo romanzo ed approfitto per rivolgergli qualche domanda…
Buonasera Antonio e grazie per aver accettato l’invito a rispondere a qualche mia curiosità, Ho appena terminato di leggere il tuo libro, freschissimo di stampa. Mi chiedevo e ti chiedo: come nasce questa tua riflessione su una materia, la Giustizia – che ti vede quotidianamente impegnato per il tuo ruolo professionale di magistrato – che in ere diverse (e non solo oggi) è stata oggetto di studio, di dibattiti spesso molto articolati, di visioni laiche o, in tempi più remoti, di visioni che assegnavano la sovranità di produzione normativa e di giurisdizione alla divinità ed ai suoi sacerdoti? Se non ricordo male, Rashi di Troyes in un passaggio del suo Commentario all’Esodo interpreta uno dei nomi di Dio – Elohim, traslitterazione dall’ebraico biblico – anche come Giudice.
ANTONIO Ho sempre pensato, dal mio ingresso in magistratura (e sono passati ben venticinque anni), che “giudicare” sia un verbo pericoloso, da maneggiare con particolare cura. Tutti i verbi che indicano questo atto – decidere, dirimere, determinare e così via – hanno implicita in sé una carica di violenza che non viene cancellata dal fatto che essa sia autorizzata dalla legge. E tutto si complica se si pensa che “fare giustizia” – che è un modo a mio avviso del tutto sbagliato di intendere la funzione del giudice e del processo – presuppone la presenza di un “giusto assoluto”, che in realtà secondo me non esiste e non può esistere. Insomma, l’immagine di Montesquieu per cui la legge ha una sola voce, e al giudice tocca il semplice compito di pronunciarne le parole, secondo me andrebbe rivista in senso critico. Dovremmo invece imparare già nelle scuole che l’interpretazione – di un fatto, di una norma – è attività che può inevitabilmente condurre a risultati diversi tra loro, e che quindi una sentenza che non convince non per forza deve essere sbagliata, frutto della pigrizia del giudice o peggio ancora. Se, poi, da ultimo consideriamo che il libro fa riferimento a giudici e tribunali, certo, ma in realtà parla del “giudicare” che tutti noi mettiamo in opera ogni giorno, in ogni campo (specie mediante i social network), allora le cose diventano persino più complesse.
MICHELE Il romanzo colpisce per il titolo articolato in due espressioni. Da un lato Tzimtzum, espressione con cui la kabbalah descrive la Creazione del mondo. Tzimtzum, ovvero ritrazione di Dio che lascia spazio alla sua Creazione ed alla sua Creatura, specularmente divina e quindi in sé portatrice di Dignità, di Libero arbitrio, ma anche di Responsabilità nella Riparazione (tiqqun ‘olam traslitterato dall’ebraico mi sembra ricordare) perché il Libero Arbitrio non è “Perfezione” e meno che mai “Infallibilità”. Dall’altro un sentimento che sembrerebbe un ossimoro: “giudici riluttanti” …
ANTONIO Hai ragione, il romanzo gioca attraverso le storie dei suoi personaggi proprio su questo duplice versante. Da un lato è una rivalutazione del concetto di limite, che al giorno d’oggi gode di pessima salute. Mi sembra infatti che siamo ormai tutti condannati a non mostrare mai dubbi, ad avere come incrollabile certezza il fatto di avere ragione su qualsiasi argomento mentre gli altri – tutti quelli che la pensano diversamente da noi – hanno torto. Se l’Onnipotente, al contrario, ha mediante lo “Tzimtzum” elevato il suo stesso limite ad aspetto necessario della Creazione, direi che potremmo davvero cominciare a vedere diversamente questo concetto, provando a togliere spazio e respiro alla volontà di potenza che è – purtroppo – innata in tutti noi. E questo vale ancora di più, ovviamente, per chi è chiamato a giudicare per professione e che, se vuole farlo per bene, proprio per questo non può che essere riluttante: perché consapevole dell’enorme, quasi insostenibile peso di una responsabilità del genere.
ANTONIO Sono felice che tu l’abbia riconosciuta. È proprio lei, Julia, il personaggio del “Pentcho” che più di tutti aveva attirato l’attenzione dei lettori. L’ho immaginata attraversare ancora un ulteriore tratto di tempo e di spazio, approdando a un futuro che aveva confermato tutti i suoi dubbi sulla possibilità di una giustizia terrena veramente “giusta”. Ecco perché diventa poi il contraltare perfetto di Adelmo, che al contrario tende a fidarsi un po’ troppo delle apparenze probabilmente per difendersi da dubbi e quesiti scomodi e brucianti. Diciamo che è una scelta, questa, che gli potrebbe causare qualche serio problema.
MICHELE il tempo è tiranno, si usa dire. E noi, invece, insofferenti alle sue imposizioni. Ti sottraggo, perciò, ancora qualche minuto. Con un interrogativo che mi frulla in testa dall’inizio ma che mi riservo qui, in finale. Ti chiedo e chiedo a chi avrà il piacere di leggerci in questa intervista ed incuriosito leggerà il tuo romanzo. Ma siamo sicuri che tu ci voglia parlare di giustizia, o solo di giustizia? Non è che si tratta di un gioco delle tre carte – lo conosciamo bene entrambi per la comune provenienza geografica – e il libro parla in realtà di altro?
ANTONIO I libri parlano sempre di “altro” rispetto a quello che desiderava o immaginava il loro autore. Mai come in questo caso, però, il tuo intuito ha fatto centro. C’è infatti un convitato di pietra in questo romanzo, che evoco continuamente nella sua ricerca. Anzi, che credo evochiamo un po’ tutti, anche inconsapevolmente, perché ne abbiamo fatalmente bisogno. Non ti dico chi è, però, per due motivi: il primo è che, per avermi fatto questa domanda, l’hai già colto perfettamente. Il secondo è che sono curioso di vedere se anche altri condivideranno questo richiamo, questo bisogno. Scrivere serve anche a questo, in fondo. Lasciami solo dire, per non essere troppo misterioso sul punto, che la nota finale di Michele Caccamo contiene la risposta a questa tua domanda.
MICHELE Grazie, Antonio, per questo bel romanzo che hai voluto regalarci. Devo dirti che ti sono profondamente grato perché ho scoperto che non sai mantenere le promesse. Ci avevi in qualche modo rassicurato, in maniera velata o con un professionale nè bis in idem, che non avresti scritto altro. Ma poi, la Musa non ha smesso di sussurrarti storie, la tua penna non ha esitato a scriverle e la tua intelligenza ad organizzarle e strutturarle in questo nuovo romanzo. A proposito di promesse: hai prenotato in pizzeria?
Immagine di copertina HG Studios, Tzimtzum
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