RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

TRA FERVIDA VITA E SPECCHI RIFLESSI. Figure femminili, scene di genere e ritratti nella pittura veneta e nella novella dal vero (1861-1911), di Annarosa Maria Tonin

[Tempo di Lettura: 9 minuti]

 

Francesco Dall’Ongaro

 

Mentre squadravo da una parte un gran casamento con finestre rade, malinconiche e desolate, e dall’altra molti umili e squallidi tuguri pieni di gente affaccendata e cenciosa, lessi sopra una pesante parete screpolata: Androna de’ pozzi; e non lontano: Androna del pozzo d’amore”.1

Addentrandosi nei vicoli di Trieste, il protagonista della novella Il pozzo d’amore osserva luoghi e persone, pronto a farsi condurre da un toponimo suggestivo, immaginando una storia dal tragico finale. Il viandante, intento a “cercare il popolo vero e originario”, altri non è che l’autore, Francesco Dall’Ongaro (1808-1873). Trevigiano di origine, negli anni Quaranta dell’Ottocento dirige il giornale patriottico triestino “La Favilla” e a Venezia fonda “Fatti e parole”; garibaldino, è deputato alla Costituente della Repubblica Romana e dirige il “Monitore romano”. Costretto all’esilio prima in Svizzera poi in Belgio, nel 1859 torna in Italia, si stabilisce a Firenze, dove pubblica con l’editore Le Monnier Novelle vecchie e nuove (1861), una raccolta all’interno della quale compare Il pozzo d’amore.

Nelle sue opere poetiche e in prosa, Dall’Ongaro è attento alle gravi condizioni di miseria del popolo e non esita a denunciarle. Il processo unitario italiano pone uomini politici e intellettuali di fronte a radicate e complesse disuguaglianze sociali. Da un lato la commissione agraria parlamentare diretta da Stefano Jacini (1877-1886), dall’altro, per esempio, le istituzioni accademiche d’arte, non esitano a scuotere le coscienze, invitando a osservare la realtà.
Già nel 1850 il segretario dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Pietro Selvatico (1803-1880) esorta gli artisti a entrare nelle chiese, negli ospedali e nelle officine a guardare il vero, a rinnovare la pittura. L’invito a mordere gli errori sociali senza timore, certi che le persone apprezzeranno il vedersi ritratte, è volto a far sì che l’arte non debba più essere affare solo elitario, ma anche e soprattutto popolare.
Andare incontro alla fervida vita, raccontare la realtà per immagini, dunque, sarà la poetica della scuola artistica veneta dal vero. Le stesse istanze saranno raccolte dalla letteratura, in particolare attraverso la novella e il romanzo.
All’inizio degli anni Settanta la generazione nata vent’anni prima ritrae e racconta le classi più povere, i drammi famigliari, gli orfanelli, bambini mal vestiti e denutriti, la vita di strada, le donne che assistono i malati, la vita tra le mura domestiche, il dolore, le preghiere, seguendo anche un’ottica educativa, che vede la famiglia cuore pulsante della società.

Domenico Bresolin, Casa diroccata (1840-60), olio su carta, 36 x 53 cm – Venezia, Gallerie dell’Accademia

Dopo la stagione del naturalismo seicentesco, di cui si parlerà nei contributi saggistici dei prossimi mesi, a Venezia è ancora presente la gloria artistica settecentesca con i suoi epigoni; solo un piccolo gruppo di artisti allo studio accademico affianca l’osservazione della natura. Tuttavia, importanti figure accademiche sostengono la visione di Pietro Selvatico: Pompeo Molmenti (1852-1928), professore di pittura di figura, e Domenico Bresolin (1813-1899), professore di pittura di paesaggio, che in Casa diroccata (1859) coglie le variazioni di luce e colore durante il giorno. La composizione del dipinto richiama il taglio fotografico ravvicinato, mentre la luce naturale colpisce le pietre scrostate di una piccola casa di campagna.

Dagli anni Ottanta la scuola veneta dal vero, i cui esponenti sono accomunati da temi e tecniche, vede un gruppo nutrito di artisti, spesso amici, legarsi anche dal punto di vista del successo, grazie a molteplici esperienze espositive in Italia e all’estero. Fra questi Alessandro Milesi (1856-1945), che frequenta l’Accademia di Belle Arti nei primi anni Settanta, sotto la guida di Napoleone Nani (1839-1899), il quale sarà chiamato a dirigere l’Accademia di Verona. Il giovane pittore lo seguirà, ottenendo dai marchesi Pindemonte alcuni incarichi, ma nel 1876 tornerà a Venezia e negli anni successivi all’Accademia di Brera e in altri contesti aperti agli artisti italiani presenterà numerose opere, fra cui La venditrice di zucca e Le perlaie (1883). Gli interni domestici sono ispirati a La famiglia Guidini di Giacomo Favretto (1873), amico e modello di riferimento di Milesi, mentre le scene di vita quotidiana all’aperto vanno incontro al gusto e alle richieste di collezionisti e artisti stranieri e raffigurano soggetti quali gruppi di donne al lavoro, oppure la famiglia e la figura del pescatore e del gondoliere, come in La famiglia del pescatore (1887) e La colazione del gondoliere (1892).

Alessandro Milesi, La colazione del gondoliere, 1892, olio su tela, 72 x 105 cm – Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

Il dipinto, premiato con la medaglia d’oro all’Esposizione Nazionale di Roma nel 1893, ritrae un gondoliere in primo piano, seduto su una panca, mentre consuma il pranzo, probabilmente portatogli dalla moglie, che con la figlia è ritratta dietro di lui nell’attesa che l’uomo riprenda il lavoro. Sullo sfondo Milesi dipinge le gondole ormeggiate. È una scena umile, quotidiana, che il pittore rende viva e forte attraverso la pennellata sfrangiata, grazie alla quale il colore definisce le forme e la loro profondità, creando per l’occhio di chi osserva una successione di piani visivi. In quest’opera coniuga la pittura en plein air con il ritratto di famiglia, dandone una connotazione al contempo realistica e intimistica. Dal 1895 al 1935 è invitato a tutte le Biennali veneziane, presentando anche alcuni ritratti, fra i quali nel 1903 Ritratto di Riccardo Selvatico.

Dieci anni prima, come sindaco di Venezia, Selvatico si era adoperato per l’istituzione di una Biennale artistica nazionale, che prevedesse una sezione a invito dedicata ad artisti italiani e una sezione internazionale, che prenderà avvio nel 1910 con Klimt, Renoir e Courbet.
Anche se la pittura vira verso altre istanze quali il Simbolismo e la successiva frantumazione esistenziale e stilistica dell’Io, Alessandro Milesi agli inizi del XX secolo continua a dipingere scene di vita quotidiana, orientandosi, però, in maggior misura alla ritrattistica.
Nel 1912 esegue Ritratto di John Lavery (1856-1941), pittore di origine irlandese, autore di scene di genere e paesaggi, ma soprattutto ritrattista, membro della Royal Academy e di altre Accademie europee tra cui Roma e Brera. A Venezia la Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro custodisce Signora in rosa (1900 ca.), una delle sue opere più conosciute e modello, come si vedrà, per altri artisti.

John Lavery, Signora in rosa, 1901 – Olio su tela, 228 x 119 cm – Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna

Già nell’ultimo decennio del XIX secolo la figura femminile nelle opere d’arte e letterarie da protagonista della vita quotidiana, inserita in molte scene di gruppo, civettuola con le amiche o compagne di lavoro e amorevole accuditrice della famiglia, diventa figura solitaria, secondo le nuove sensibilità legate alla rappresentazione dell’Io interiore. Non è più tutto il corpo che parla della donna, dinamico, attivo e protettivo; esso rimane fermo, statuario o raccolto in se stesso. Per la figura femminile parlano il volto e le mani, che esprimono sempre lo stato dell’animo.

Numerose opere di Luigi Nono (1850-1918), come quelle di Milesi, ci raccontano i fondamenti della scuola veneta dal vero non solo attraverso lo sguardo sulla natura, ma anche nella raffigurazione della donna popolana, mentre i ritratti di Lino Selvatico (1872-1924), appartenente alla generazione successiva, raccontano la bellezza, la grazia e i tormenti della donna elegante del primo Novecento. La scelta di temi e soggetti costituisce, dunque, un fatto sociale, non solo individuale, legato alla formazione e alla carriera di un singolo artista.

Lino Selvatico, Il guanciale viola, 1923, olio e tempera su tavola, 32 x 41,5 cm, collezione privata

Partendo da Luigi Nono, si può notare come egli inizi la carriera come pittore di paesaggio, esponendo a Brera nel 1873 Le sorgenti del Gorgazzo, Verso sera presso Polcenigo e Sull’Ave Maria a Coltura, opere che, con Il sorcio di Giacomo Favretto, esposta cinque anni dopo, costituiscono il manifesto del verismo veneto.

Nella seconda metà degli anni Settanta Nono, a eccezione di qualche ritratto, concentra la sua attenzione su soggetti legati al lavoro dei campi (Il ritorno dai campi), la vita domestica (La convalescenza), la famiglia (Il marmocchio, I primi passi), le feste di paese (Prima della processione, Il mattino della sagra). Continua a esporre a Brera, compie viaggi a Firenze, Roma e Napoli, è invitato anche all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878 e agli inizi degli anni Ottanta soggiorna a Chioggia, luogo fondamentale della sua vita artistica. Qui, infatti, dipinge Refugium Peccatorum (1881), acquistato da re Umberto I per la Galleria Nazionale di Roma, più volte replicato fino al 1917, e Ave Maria (1892), conservata al Museo Revoltella di Trieste.

Luigi Nono, Ave Maria (1892), olio su tela, 272 x 142 cm – Trieste, Museo Revoltella, Galleria d’Arte Moderna

I modelli sono la moglie, Rita Priuli Bon, e il figlio Mario, padre del futuro compositore Luigi. Il soggetto ritrae una donna popolana con in braccio il figlio in preghiera ai piedi della statua della Madonna che orna la balaustra affacciata sul canale Perotolo di Chioggia, lo stesso luogo che gli ha ispirato Refugium Peccatorum. Anche in Ave Maria è raffigurato solo il basamento della statua della Vergine. Diviene chiaro all’osservatore il confronto fra la Madre di Cristo, statua marmorea, e la madre reale, ritratta come Madonna del popolo. Si tratta, dunque, di un’opera di forte impatto sociale e insieme intimistico, un connubio da cui Luigi Nono è rimasto fortemente colpito, dopo l’incontro parigino con le opere di Millet e Corot.
Nei primi anni del Novecento si trasferisce a Venezia, dove continua a dipingere opere più volte acquistate dalla regina Margherita, a replicare quelle più famose per il mercato dell’arte, a esporre alle Biennali nuovi soggetti, sempre legati alla pittura all’aperto, come il dipinto La prima pioggia (1909), conservato al Museo d’Orsay, o alla scena di genere con gruppi di donne intente a ricamare.

Luigi Nono, La prima pioggia, 1909, olio su tela, 170 x 202 cm – Musée d’Orsay, Paris

Anche la letteratura, in particolare attraverso la novella, presenta i medesimi caratteri tematici e stilistici che indicano la compresenza della storia di genere e ambiente popolano con determinati valori di riferimento e della storia dai contorni più elitari, dai valori più sfumati e torbidi: l’amore, il desiderio, il peccato, il matrimonio, il ruolo sociale sono in entrambi i contesti assi portanti da cui non si può prescindere, perché su di essi è fondata e intessuta la società italiana.
Tra sfumature romantiche e chiara volontà di aderire alla realtà dei fatti e delle cose, tra lampi di esasperata sensualità e uniformi, inesorabili grigiori del quotidiano, scandito da matrimonio e famiglia, nella novella, molto congeniale agli scrittori italiani del XIX secolo, la figura femminile, per esempio, è vittima, come nella storia immaginata al pozzo d’amore, o manipolatrice narcisista, come in Giuliana, breve storia scritta da Paolo Valera (1850-1926), autore comasco che partecipa alla campagna garibaldina del 1866. Nel 1884 pubblica Amori bestiali per l’editore romano Sommaruga, raccolta nella quale compare la novella citata.
«Pareva nata nello sfarzo, sbocciata nell’abbondanza, insignorita tra il gentame curvantesi a’ suoi capricci. Sapeva attorcigliarsi un nastro, puntarsi un fiore, calzare un guanto, rompere un sigillo, far uscire di bocca un comando, con civetteria, grazia, eleganza».2

Lino Selvatico, La contessa Anna Morosini, 1910, olio su tela, 228 x 119 cm – Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna

Così lo scrittore comasco descrive Giuliana. Così appare all’osservatore la protagonista dell’opera pittorica di Lino Selvatico (1872-1924) La contessa Anna Morosini (1910), in cui la nobildonna è fasciata in un abito da passeggio nero, illuminato dalla raffinata e lineare camicetta bianca. Il volto e le mani parlano di lei, della sua consapevolezza nel guardare l’osservatore, accennando un sorriso elegante, non volgare, accompagnato dallo splendere di occhi luminosi in un incarnato niveo. La mano sinistra circonda con grazia il collo del levriero che la guarda adorante, ammiratore della padrona e al tempo stesso riflesso della contessa, in un tutt’uno di sinuosità, incedere regale e complicità senza eccessi. Nessun elemento di sfondo delimita l’ambiente in cui Anna Morosini è ritratta. Esiste soltanto lei e la consapevolezza della sua bellezza e del rango, rappresentato dallo stemma in alto a destra. Unica nota di colore vezzosa, anch’essa senza eccessi, il collare azzurro del levriero.

Il modello di riferimento è senza dubbio il ritratto in nero che dal tempo di Tiziano fino a Hayez privilegia la postura e la resa psicologica a scelte compositive e stilistiche che distolgano l’osservatore dal chiedersi: chi è, o chi è stato veramente il personaggio ritratto?
Anna Sara Nicoletta Maria Rombo, detta Annina, nasce a Palermo, dove vive negli agi. Si trasferisce a Venezia, dove trascorre l’adolescenza.
È ancora Paolo Valera che scrive della sua eroina Giuliana: «Le si risvegliava acre il bisogno di un essere poderoso che la adorasse».3

In queste righe ritroviamo Anna, la cui bellezza data dai capelli scuri, la carnagione nivea e gli occhi verdi non possono far altro che spalancarle le porte dell’aristocrazia. Nel 1885 sposa il conte Michele Morosini, senza patrimonio ma di alto lignaggio.
I due vivono alla Ca’ d’Oro una breve stagione felice. Dopo la nascita di Morosina, loro unica figlia, il conte si trasferisce a Parigi. Anna è la donna più bella d’Italia, diventa il riferimento dell’alta società. Si fa ritrarre non solo da Selvatico, ma anche da Corcos e Kirchmayer, diventa amica di Rilke, Maeterlinck, Shaw, del Kaiser Guglielmo II (dal 1894 al 1918) e di D’Annunzio (dal 1896 al 1938).

Lino Selvatico, Sinfonia bleu, 1923, olio e tempera su tavola, 21 x 35 cm – collezione privata

In questo ambiente vivace, elegante, elitario si muove e dipinge Ercole, detto Lino, Selvatico. Figlio del già ricordato Riccardo, fondatore della Biennale, nipote di Pietro, celebre storico dell’arte, e fratello minore di Luigi, anch’egli pittore, Lino studia giurisprudenza come il padre per poi dedicarsi alla pittura nella bottega di Cesare Laurenti, specializzato nel ritratto.

Selvatico suggella i rapporti di amicizia attraverso il ritratto, disegnando molti studi preparatori. Come nella migliore tradizione veneta fin dal Cinquecento viene incaricato di recarsi a dipingere il ritratto di teste coronate. Nel 1922 si reca a Madrid alla corte di Alfonso XIII di Borbone (1886-1941), il quale rimane entusiasta di un dipinto che oggi non possiamo più ammirare, poiché distrutto durante la guerra civile spagnola, ma che recava le tracce di una lunghissima e luminosa storia della ritrattistica in nero, a cui già si è accennato, che in Spagna venne fatta propria da Goya e poi da Ignacio Zuloaga (1870-1945), presente alla Biennale veneziana con una personale fin dal 1903; il pittore spagnolo avvolge di nero anche vedute e paesaggi come Paesaggio castigliano (1909) e dipinge ritratti femminili di chiara impronta goyesca come La marchesa Luisa Casati (1923), il cui ventaglio richiama Maja desnuda.

In un contesto così fertile, nel solco tracciato da Tiziano e Giambattista Tiepolo, Lino Selvatico lascia, dunque, la sua impronta nella storia della pittura veneta, ancorata alla terra d’origine e al contempo cittadina del mondo. 

 

Note

1 Francesco Dall’Ongaro, Il pozzo d’amore, in “I più bei racconti d’amore dell’Ottocento italiano”, a cura di Riccardo Reim, Newton Compton 2003, pg. 37
2 Paolo Valera, Giuliana, in op. cit., pg. 304
3 Ibidem, pg. 306

Opera in copertina: Giacomo Favretto, Il sorcio, (1878), olio su tela, 59 x 90 cm, Milano Pinacoteca di Brera

________________________________

Annarosa Maria Tonin è nata a Vittorio Veneto (TV) il 22 aprile 1969. Laureata in Lettere Moderne all’Università Cà Foscari di Venezia con una tesi di storiografia dal titolo “Per una storia della corte praghese di Rodolfo II. Gli inviati veneti (1595-1609)”, ha svolto attività giornalistica e di ricerca nell’ambito storiografico e storico-artistico ed è stata docente di Materie Letterarie e Storia dell’Arte nelle scuole medie e superiori.
Autrice di racconti, romanzi e saggi, cura eventi legati alla promozione della lettura. Redattrice di “Digressioni”, rivista culturale cartacea trimestrale, per la quale cura una rubrica di Storia dell’Arte, ha ideato e curato la rassegna “Incontrarsi in via Manin”, tenutasi nell’ex Ghetto Ebraico di Vittorio Veneto nel 2017 e 2018.
Ha pubblicato nel 2019 “L’uomo nell’ombra. Storie d’arte, potere e società” (Digressioni Editore).


© finnegans. Tutti i diritti riservati