RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

“Musica ardita, musica la mia vita”, di Giovanni Di Vincenzo

[Tempo di Lettura: 15 minuti]

Un ritratto di Andrea Chimenti

di Giovanni Di Vincenzo

Andrea Chimenti 2016
Andrea Chimenti 2016

Cantautore, musicista, romanziere. Andrea Chimenti dissemina da trent’anni scampoli di bellezza cesellati con artigiana perizia, sostanziando un’alternativa etica ed estetica, intrinsecamente polemica e a suo modo persino politica, alla frenetica sciatteria industriale e alle bulimiche nevrosi contemporanee. Nella sua opera la ricercatezza lirica e poetica, sempre condotta sulla scorta di puntuali e rivendicate suggestioni letterarie (da Pessoa a Buzzati, da Calvino a Ungaretti), incontra una proposta musicale raffinatissima che amalgama reminiscenze classiche con evolute espressioni del pop-rock anglosassone (la memoria corre senza dubbio ai Japan e a certi esperimenti condotti da David Sylvian e da Mick Karn, ma anche al David Bowie più spleen o al Robert Wyatt meno spigoloso). Artista sincero e appassionato, vigila sulla necessità di ogni opzione soppesandone la consistenza alla luce di una ricerca paziente (di suggestioni, occasioni, affinità e convergenze), di una sedimentazione lenta, di una pianificazione accurata.

La sua vicenda artistica è preziosa e a suo modo esemplare, perché afferma la potenza inattuale dell’autenticità e della coerenza, di una sensibilità curiosa e acuminata che marcia all’unico ritmo possibile, quello di una profonda necessità interiore, proclamando un’indipendenza davvero anacronistica – dalle mode, dai tempi e dalle seduzioni dell’industria dell’intrattenimento – e oltretutto versatile, capace com’è di articolarsi secondo coordinate espressive sempre inedite.

Lontano anni luce da certo ribellismo iconoclasta e anarcoide, Chimenti è soprattutto un esteta. Riflessivo, mite, riservato. Finanche schivo. Ma non introverso, men che meno snob. Il suo profilo disattende lo sprezzante cinismo classista dell’intellettuale decadente e ci propone un temperamento magari inquieto ma sempre umile e cordiale, un’indole amabile e curiosa, sempre favorevole al confronto come opportunità di crescita. Ne abbiamo ricevuto ulteriore conferma a Verona, dove Andrea vive da qualche tempo e dove ci ha accolto con informale ospitalità per dedicarci una piacevolissima ora del suo tempo.

Non ti si può definire un autore molto prolifico (come Fiumani, che di fatto, quando non è in studio di registrazione, sta sempre in giro a suonare) e d’altronde non sei neanche mai diventato Piero Pelù… Pubblichi i dischi che vuoi e lo fai quando vuoi e con chi vuoi, infischiandotene del mercato e delle sue regole, che ormai d’altronde non esistono neanche più. Sei piuttosto defilato. L’impressione è che la luce dei riflettori, soprattutto mediatici, quasi ti infastidisca. Però sei una persona estremamente amabile e cordiale, le pose del dandy austero, scorbutico e scostante proprio non ti si addicono. Ecco, ti chiederei: volgendo uno sguardo alle tue spalle, rivendichi tutto o rimpiangi qualcosa?

Andrea Chimenti 1987
Andrea Chimenti 1987

Se devo guardarmi indietro vedo tanti errori e cose che oggi farei diversamente. Non tanto artisticamente, parlo più di scelte verso persone e situazioni che spesso hanno frenato il mio lavoro piuttosto che incentivarlo. Ma gli errori sono necessari e inevitabili e spesso sono dei passaggi obbligati che ti fanno crescere, ognuno con i propri tempi. I miei tempi sono sempre stati lunghi in tutto e spesso ho dovuto ripetere i medesimi errori per capire che quella non era la strada giusta. Se devo andare molto indietro nel tempo e ripensare alla vicenda dei Moda negli anni ’80, da un lato mi rendo conto che avremmo avuto tante possibilità che non abbiamo saputo sfruttare, ma alla fine sono contento di come è andata. Non rimpiango quegli anni come non rimpiango il mio passato in generale, tutto ha concorso a costruirmi come persona nel bene e nel male. Rispondendo alla tua domanda: sì, rivendico tutto, ma pur sempre con spirito critico e, fortunatamente, anche con distacco.

 

Quali sono, oggi, i tuoi punti di riferimento, musicalmente e non? Ho letto, non ricordo più dove, che hai in una certa misura respinto, o se preferisci ridimensionato con decisione, un’influenza che molti giudicano quasi scontata, ossia David Sylvian, sulla tua musica e, più in generale, sulla tua traiettoria artistica. Se non ricordo male, hai affermato che all’epoca di Ti ho aspettato lo conoscevi a malapena, più di nome che di fatto… Perdona lo stupore, ma davvero le affinità – anche a fronte di questa fortuità di cui non ho ragione di dubitare – sono sorprendenti: gli esordi così radicati in ambito wave con i Moda, la carriera solista che si dipana sotto il segno di una lenta ma inesorabile emancipazione da quella temperie generazionale, la ricerca di un’identità espressiva più matura e personale, il cantautorato sofisticato e introspettivo, le collaborazioni illustri, l’approccio colto e talvolta letterario, l’approdo ad un disco solista definitivo” – Secrets of the Beehive per lui, L’albero pazzo per te – che è uno scrigno di prelibatezze acustiche…

 

Non ho detto che conoscevo a malapena David Sylvian… All’epoca Sylvian lo avevo seguito come cantante dei Japan. Ero anche a conoscenza della sua carriera solista, che però non avevo approfondito e solo ascoltato saltuariamente a casa di amici. Io possedevo un solo LP ed era del periodo Japan, Gentleman Take Polaroid. David Sylvian apparteneva alla schiera dei musicisti che stimavo e ritenevo importanti, ma non era un mio punto di riferimento. Questo non vuol dire che non mi abbia influenzato, è stato un personaggio di grande rilievo in quegli anni e sicuramente ha avuto un peso anche nella mia formazione. Lo strano è che prima della mia collaborazione con lui, mai nessuno ha pensato che io avessi influenze sylvianiane, ma dopo la collaborazione è sembrato ovvio che io avessi sempre fatto riferimento a questo artista. In realtà sono altri i nomi che mi hanno influenzato nella mia evoluzione. Questo accomunarmi a Sylvian mi fa piacere, ma lo vivo sempre con un po’ di stupore.

Andrea Chimenti allo Smiting Festival 2016
Andrea Chimenti allo Smiting Festival 2016

Dopo Vietato morire, che proseguiva nel solco tracciato da L’albero pazzo, e gli altri lavori di ispirazione letteraria, la sensazione è che con Tempesta di fiori tu abbia voluto concederti una parentesi, come dire, più solare, sotto il segno di melodie più rotonde, anche più pop e, talvolta, persino più leggere.

Si, è vero. Tempesta di Fiori è sicuramente l’album più pop che io abbia fatto. Mi sono trovato in mano una serie di canzoni che necessitavano un vestito più semplice e immediato, tipico del pop. E’ stato un periodo di oppressione a cui ho reagito con la leggerezza, con il bisogno di spiccare il volo e lasciare a terra tante zavorre. Riascolto volentieri quel lavoro di tanto in tanto, riassaporando quelle emozioni che parlano fortemente di me… più di altri dischi che ho fatto. Oggi mi sento lontano da quelle sonorità, ma sono contento di averlo fatto.

Andrea Chimenti nel videoclip di "Mi dispiace", da Yuri (2016)
Andrea Chimenti nel videoclip di “Mi dispiace”, da Yuri (2016)

Poi, dopo questa estemporanea normalizzazione pop, ti eclissi nuovamente per qualche anno e ritorni con un progetto come Yuri, che non si può dire ammicchi alle classifiche. La sensazione è che di rinunciare ad essere un artista davvero integro e indipendente per vendere qualche copia in più proprio non ti riesca…

Ho imparato che a non essere se stessi si prendono delle bastonate prima o poi. Ho sempre cercato di fare quello che so fare. C’è una parola chiave che per me è essenziale nel caratterizzare la vita di un artista: l’autenticità. Io non sarò diventato ricco né famoso ma ho la presunzione di dire di essere stato almeno autentico in tutte le cose che ho fatto. Non mi piace imbrogliare nessuno e soprattutto me stesso… e poi bisogna essere capaci di imbrogliare; in fin dei conti anche l’imbroglio è un’arte e il nostro paese vanta numerose eccellenze.

 

Un elemento che mi ha sempre affascinato, e che d’altronde trovo caratterizzi come una costante tutto il tuo lavoro, è questa accuratezza sonora, il lavoro di cesello certosino, quasi maniacale, condotto su suoni e atmosfere. Un grande impegno di arrangiamento e di produzione, insomma, che ritrovo ad esempio in Paolo Benvegnù e pochi altri. E’ la ragione per cui esito e trovo riduttivo definirti un cantautore. Insomma, con tutto il rispetto per la tua voce e i tuoi testi, ti si ascolta volentieri anche quando non canti perché il paesaggio sonoro propone sempre suggestioni e intuizioni notevoli…

 Ti ringrazio per quello che dici. Sì, per me la parte musicale ha sempre ricoperto una grande importanza, quanto quella della parola. In fin dei conti faccio e scrivo canzoni e le canzoni sono fatte di musica e testo. Il cantautorato italiano forse ha privilegiato la parola. Io sono cresciuto ascoltando musica anglosassone e mi è sempre stato naturale dare importanza alla musica, forse perché non conoscendo la lingua mi arrivavano prima le note del testo. Anzi, devo dire che quando ho iniziato a scrivere canzoni la musica ricopriva un ruolo più importante. Presto ho capito che le due cose dovevano fondersi e l’una innalzare l’altra. Per questo è importante per me non solo la composizione, ma anche gli arrangiamenti e la produzione. Desidero che la musica descriva le parole e che sempre viva in simbiosi con il testo e che il testo si sciolga letteralmente dentro la musica come una zolletta di zucchero. Non so se ci riesco, ma questo è quello che cerco di fare.

Andrea Chimenti nel videoclip di "Mi dispiace", da Yuri (2016)
Andrea Chimenti nel videoclip di “Mi dispiace”, da Yuri (2016)

Un leit-motiv della tua frastagliata produzione è poi la ricercatezza lirica, che ti ha condotto anche a musicare i versi di Ungaretti o il Qoeleth. Perché proprio Ungaretti? Ti piacerebbe ripetere questa esperienza, cimentandoti magari con altri autori?

Franco di Francescantonio, un grande attore purtroppo oggi scomparso, mi chiese di mettergli in musica una poesia per un suo spettacolo. Ho sempre amato Ungaretti, anche per quella capacità di sintesi che ho sempre rincorso nella musica. Ogni sua poesia l’ho sempre vissuta con stupore. Ho deciso di provare a cantare “Vanità”, tratta dalla sua prima raccolta di poesie, Il Porto Sepolto. Una poesia che si adatta perfettamente all’uomo di oggi. Mi sono seduto al pianoforte e timidamente ho provato ad inseguire quelle parole con le note. La sensazione era quella di scoprire una melodia già contenuta in quei versi. Ci ho preso gusto e diciamo che una poesia ha tirato l’altra ed è nato così un progetto live che un paio di anni dopo (2002) è diventato un progetto discografico, Il Porto Sepolto appunto.

 

Tornando a Yuri, libro e disco, è corretto definire questa allegoria di una generazione depredata del proprio futuro un lavoro politico? Non siamo un po’ tutti vittime dell’eterno presente, di un’amnesia storica e culturale che ci appiattisce – e ci avvilisce – sul qui e ora, schiacciando orizzonti e disinnescando slanci?

Sì, sono assolutamente d’accordo. Che slanci possiamo avere oggi? Soprattutto un giovane, che è nato con l’imprimatur di un debito pubblico e cresce tra notizie di disastri nel globo e corruzione, con modelli di vita spietati e assolutamente falsi. Abbiamo smantellato ogni certezza, ogni meccanismo consolidato nei secoli senza costruire alternative se non quella di un materialismo senza precedenti. Sì, siamo tutti vittime, ma dei nostri atti che continuano a moltiplicarsi peggiorando sempre di più la nostra situazione. Abbiamo consegnato ai nostri giovani un pacco regalo rivestito di carta pregiata, infiocchettato e assolutamente vuoto. Poi ci si meraviglia se delle ragazze riprendono col cellulare la loro amica mentre viene violentata… Io non mi sorprendo affatto.

 

D’altronde, perdonami, io trovo che tutto sia sempre politico. La tua musica, ad esempio, questa ode alla bellezza come fonte incessante di stupore e di meraviglia, è a suo modo una risposta politica allo squallore deprimente del presente. Che poi tu scelga i modi dell’introspezione ermetica piuttosto che lo slogan ideologico barricadero, è questione di attitudine. Tu come la vedi? 

Sono contento che tu mi riconosca questo. Credo di aver fatto sempre dischi politici, di aver mosso critiche e rappresentato sogni e ideali. Certo, non l’ho fatto nel modo più comune, mai appoggiando un partito o qualcosa che potesse ricondurre ad una fazione. Forse questo mio atteggiamento l’ho pagato nell’ambito musicale. Anche se lontano da partiti o ideologie precostituite mi sono sempre sentito parte di un coro, mai solo.

 

Ascoltando Yuri ho inoltre ricevuto la sensazione che tu ti stia ulteriormente svincolando dalla forma canzone tradizionale, si avverte una sorta di insofferenza nei confronti dello schema strofa-ritornello, il gusto per una sorta di astrazione espressionista (oddio…). Allo stesso tempo tu alla potenza persuasiva di una melodia come vettore comunicativo non hai mai rinunciato. Insomma, tutto sommato mi sembri più vicino a De André che a Scott Walker. E’ corretto affermare che la tua ricerca si sviluppa sotto il segno di una tensione incessante tra questi due estremi?

Hai centrato. Mi hai portato l’esempio di due autori per me importanti e che sono stati un punto di riferimento: De André e Scott Walker. Il primo rappresenta quanto di meglio abbiamo avuto nella nostra storia cantautorale, con una sapienza nell’uso della parola straordinaria, ma devo dire che anche musicalmente ha saputo fare ricerca senza rinunciare alle sonorità patrimonio della nostra terra; il secondo rappresenta la capacità di metamorfosi e disgregazione della formula canzone, diventando avanguardia. Io nel mio piccolo cerco l’emozione, infilando la melodia in contenitori che non siano la solita formula “strofa/ritornello”. Ho bisogno di libertà, di abbattere schemi che ti portano sui soliti passi. La formula della canzone è una convenzione pop che forse un giorno non esisterà più.

Andrea Chimenti nel videoclip di "Mi dispiace", da Yuri (2016)
Andrea Chimenti nel videoclip di “Mi dispiace”, da Yuri (2016)

Infine, come è nata l’idea di uno spettacolo tributo a David Bowie? Che ha debuttato oltre un anno fa, in tempi – come dire… – non sospetti, e che ci si ripropone, oggi, all’indomani di una uscita di scena” quasi sconcertante e dei tanti (troppi?) coccodrilli che ne sono conseguiti, come un’iniziativa quasi drammaticamente profetica. Ho assistito allo spettacolo che hai tenuto a Cortona un mese fa, nell’ambito del Mix Festival, e l’ho trovato entusiasmante: il fairplay tra i musicisti, la fluidità con la quale si dipanavano partiture anche piuttosto complesse, il piacere di ascoltare dal vivo – per la prima volta (neanche Bowie stesso ha osato tanto…) il meraviglioso arrangiamento per archi scritto da Mick Ronson per Life on Mars… Ti confesso un’aspirazione comune a molti: e se tu lo pubblicassi, come live o come registrazione in studio? E, ultima curiosità, come ti è venuta l’idea di allestire quel siparietto da camera che incornicia il repertorio bowieano con brani di Beethoven e Prokofiev? Hai riscontrato affinità?

Agli inizi dell’anno scorso, ho ricevuto una telefonata che mi proponeva una serata dedicata a Bowie per l’Estate Fiorentina. La persona in questione era un certo Mario Setti, che ancora non conoscevo. Mi è venuto subito spontaneo dire che non mi interessava. Non mi sentivo all’altezza e mi sembrava di poter cadere in quelle situazioni da cover band. Continuando a parlare al telefono, ho capito che la serata sarebbe stata molto lontano da quelle situazioni e che l’intento era quello di abbattere gli steccati musicali accostando autori dell’Ottocento con autori del Novecento. Questa cosa mi è piaciuta molto: una serata dove si passava da Beethoven a Bowie passando per Prokofiev, fantastico! Così ho accettato. Doveva essere una data unica, ma poi sono arrivate le richieste e abbiamo acconsentito a replicare solo nelle situazioni che meritavano. Alla morte di David Bowie ci siamo fatti degli scrupoli se continuare a fare questi concerti. Oggi è uno spettacolo in continua crescita a cui tengo molto e spero che potrà vivere a lungo.

 

Qualche anno fa Federico Fiumani, che dell’integrità punk senza troppi fronzoli ha fatto il vessillo di tutta una carriera, ti ha bonariamente rivolto una esortazione un po’ polemica: Andrea, torna al rock. I tuoi modi gentili e garbati ci mancano un po’”. Tu cosa gli rispondi?

Dopo quella canzone di Federico Fiumani c’è sempre qualcuno tra il pubblico che mi grida “Andrea torna al rock!”. Diciamo che il rock è un vestito che alle volte rimane stretto e me ne devo spogliare, ma in realtà torno a indossarlo di tanto in tanto, non potrei farne a meno… e a Fiumani voglio un mondo di bene!

 

Giochiamo al gioco dell’isola deserta? E’ un luogo comune molto snob, ma come tutti i luoghi comuni anche il dimmi cosa ascolti, ti dirò chi sei” ha un suo perché. Mi citi 5 dischi e 5 libri senza i quali non saresti la persona che sei?

The Dark Side of the Moon
La Quarta di Brahms
The Lamb Lies Down On Broadway
Diamond Dogs
Heroes

 

Il Deserto dei Tartari
Il Barnabo delle Montagne
Il Barone Rampante
Kafka sulla Spiaggia
La Strada

 

Cosa c’è nel tuo futuro?

Ho terminato in questi giorni i concerti e inizio la lavorazione di una colonna sonora per un documentario su Roberto Assagioli per la regia di Fernando Maraghini e Maria Erica Pacileo. Credo che subito dopo inizierò un nuovo progetto musicale e sarà una cosa molto diversa dalle altre… Qualcosa di assolutamente nuovo.

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Musica ardita, musica la mia vita

Un ritratto di Andrea Chimenti

 

Emiliano di nascita ma aretino di adozione, classe 1959, Andrea Chimenti è un ragazzo di buona famiglia che cresce ascoltando tanta musica classica. Un bel giorno, attratto da una copertina sconcertante, ascolta Diamond Dogs di David Bowie e il suo mondo cambia forma, dimensione e colore.

Dopo la scuola d’arte a Urbino, dove coltiva una prima passione per l’animazione, nei primi anni Ottanta lavora come pubblicitario ma soprattutto, nel 1983, fonda i Moda, che insieme ai più fortunati Litfiba e Diaframma delineano le coordinate della new wave toscana.

 

Il promettente esordio di Bandiera, giudicato tra i migliori dischi di rock indipendente italiano, offre al gruppo una di quelle opportunità che cambiano la vita: il secondo LP Canto pagano esce nel 1987 con la supervisione artistica di Mick Ronson, chitarra solista degli Spiders from Mars di David Bowie e, forse e soprattutto, demiurgo sonoro capace di escogitare alcuni tra gli arrangiamenti più formidabili della storia del rock (basti rammentare, per tutti, Hunky Dory dello stesso Bowie e Transformer di Lou Reed).

Purtroppo, malgrado la terza pregevolissima prova (Senza rumore) riceva un discreto sostegno promozionale (addirittura una comparsata nel programma RAI “D.O.C. – Musica a denominazione di origine controllata”, condotto da Renzo Arbore), i Moda si sciolgono all’alba del nuovo decennio, vittime predestinate di una proposta forse troppo sfaccettata e laterale rispetto al più squadrato e commestibile abbecedario punk-wave divulgato dai più fortunati connazionali.

 

Da lì in poi, Chimenti balla da solo e senza retrocedere di un passo. Anzi. La carriera solista abbozza il ritratto di un outsider vero, tenace e inossidabile. Recita (da protagonista in Sexy Shop di Pacileo e Maraghini, ma compare anche nel film documentario Chaka, di cui realizza anche la colonna sonora insieme a Beau Geste e Africa X, e in Sono pazzo di Iris Blond di Verdone, dove esegue il brano “Black Hole”), si intrufola in numerose compilation tributo (“Escluso il cane” di Rino Gaetano, “Viaggio in Italia” di Fossati, “Free Will and Testament” di Robert Wyatt), concede spesso e volentieri a terzi affini la sua vocalità calda, languida e ammaliante (“Una prima volta” in A.C.A.U. di Gianni Maroccolo, “Il ritorno di lei” in Io sono l’angelo di Giancarlo Onorato fino ad oggi, con “Scintilla” in Sogno e incendio dei No-Sound), fonda un’etichetta discografica (La via dei canti). E poi scrive, cura installazioni e sonorizzazioni di musei, mostre, video d’arte… Ma soprattutto – con parsimoniosa continuità – compone, registra e pubblica dischi a proprio nome.

 

Il primo albo dei quali si chiama La maschera del corvo nero e viene rilasciato dal Consorzio Produttori Indipendenti nel 1992 come quinto volume della Collana dei Taccuini. Coadiuvato da coautori e musicisti del calibro di Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli, Chimenti diluisce le sincopi new wave in un pop cantautorale screziato di ambient e di world music (si ascoltino le bellissime “Amami”, “Petali di rose sull’acqua”, “La chiave”, “La bicicletta sotto la pioggia”), attuando una metamorfosi che ricorda il David Sylvian di Brilliant Trees e Secrets of the Beehive.

 

Un musicista che fatalmente incrocia la traiettoria di Andrea quattro anni dopo, quando proprio il crooning dell’ex Japan sigla la sinuosa e avvolgente ballata “Ti ho aspettato (I Have Waited For You)”, punta di diamante di un secondo lavoro, L’albero pazzo (1996), che è un miracolo di densità, intensità, ispirazione. Qui Chimenti, sempre con la supervisione artistica di Magnelli e Maroccolo, proscioglie definitivamente ogni parentela con certi stilemi del pop italiano (si ascolti, su La maschera, la peraltro bellissima “L’orchestra del vento”, con i suoi inevitabili ammiccamenti a Battiato) ed elabora il manifesto di un’autosufficienza stilistica tra le più avvincenti nel panorama della canzone d’autore nostrana.

 

E’ un lavoro che palpita al ritmo di un sopraffino equilibrio tra eloquenza comunicativa e introspezione ermetica. Al primo termine rinviano l’andamento spigliato di “Ora o mai” e “Lasciatemi stare”, la maestosa autorevolezza melodica di “Maestro Strabilio” – che in coda si concede addirittura un assolo di chitarra elettrica – e la luminosa epifania di “Senza un’alba”. Al secondo, riconducono le profumazioni folk di “Era il momento” e “La donna sul fiume”, l’impressionismo pianistico di “Una muta canzone” e “Si dirada la nebbia” e, soprattutto, il numero forse più audace del lotto, quella “Carta di riso” che si sbarazza dello schema strofa-ritornello per sgranare uno stupefacente rosario metaforico, mentre tutt’intorno alla voce si accomoda e si accorda una policroma intelaiatura sonora che è tutto un frusciare di pelli, uno schioccare di plettri, uno sbuffare di ance e un vibrare di corde e pedali.

 

Dopo L’ albero pazzo Andrea Chimenti opta per l’intransigenza: nei tre lavori successivi adatta testi nientemeno che dalla Bibbia ebraica – il Qohelet (1997) e il Cantico dei Cantici (1998)– e dal Porto sepolto (2002) di Giuseppe Ungaretti e li trasforma in canzoni. Sono tutte opere ovviamente dominate dalla fascinazione per la parola, e di una parola oltretutto “alta”, solenne, ma il risultato rinnova ancora una volta una magica intesa tra sperimentazione e comunicazione. Mentre nel Cantico Chimenti consegna il microfono all’attrice Anita Laurenzi, limitando il proprio contributo alla stesura di un suggestivo accompagnamento musicale, nel Qohelet inserisce alcuni brani dall’Albero pazzo, opportunamente rivisitati per aderire alla “severità” del contesto. La sensazione prevalente è che l’applicazione al testo letterario offra a Chimenti l’opportunità di esplorare una liberatoria, salutare dissociazione tra parole e musica, in maniera tale da poter sondare quelle potenzialità trattenute dal coercitivo sodalizio della canzone tradizionale: è così che alla sentenziosa gravità dei recitativi sovrintesi dalla sua voce baritonale, che dipanano ponderose riflessioni sulla vanità e l’identità, si avvicendano paesaggi sonori anche esclusivamente strumentali, condotti sotto il segno della più spregiudicata libertà (si ascoltino l’incalzante progressione etno-folk di “Naxos”, l’assolo di tromba che ne “L’arrivo” ricama una melodia jazz). Nel Porto sepolto, Chimenti ricostituisce l’osmosi di musica e parole e tutt’intorno all’incisiva brevità del verso ungarettiano, quasi a custodirne l’essenziale e delicata purezza, dispone un’essenziale involucro neoclassico di piano e archi.

 

Nel 2004 Chimenti ritorna alla canzone d’autore con un nuovo progetto che prosegue il discorso avviato da L’albero pazzo: scritto e registrato con Massimo Fantoni e Matteo Buzzanca durante due mesi di volontaria clausura in una casa colonica immersa nella campagna senese, visitato da prestigiose partecipazioni (il “solito” Steve Jansen alla batteria, Gianni Maroccolo al basso, Patrizia Laquidara alla voce), Vietato morire è l’ennesima conferma di una vocazione poetica baciata dalla grazia. Brani come “La cattiva amante”, “Prima della cenere”, “Oceano”, “Tra la terra e il cielo” e l’ebraica litania di “Mypney ma” s’inscrivono a pieno titolo nel libro della grande canzone italiana. Il consueto, prodigioso lavoro di arrangiamento e di produzione – che incorpora anche strumenti inconsueti come udu, ance, vibrafoni, corni – sigilla un progetto concepito e cesellato con certosina pazienza, sotto i benefici, sapienziali auspici di una luogo antico, esposto agli umori e ai colori della natura.

E poi, nel 2010, Chimenti vira nuovamente di centottanta gradi ed è una imprevedibile Tempesta di fiori quella che travolge rimuginazioni poetiche, irrequietezze ermetiche e ed estenuazioni intimistiche. La stesura recupera un passo più lineare, chitarre e batteria innervano la struttura di quasi tutti i brani, la produzione rinuncia a sfumature e chiaroscuri in virtù di un impianto più compatto e omogeneo, i testi non sono mai stati così diretti, lievi e solari (“Sei bellissima”, quasi un blues!). E poi fiati a briglia sciolta, cori a squarciagola, ritornelli a presa rapidissima… Il disco pop di Andrea Chimenti espone un artista davvero incapace di premeditazione commerciale perché refrattario a cavalcare l’immagine che pure lo accredita presso una certa élite oramai fidelizzata, quella di un dandy colto e magari anche leggermente snob. Tempesta di fiori ritrae un uomo di mezza età sereno e appagato, che affida la necessità del rinnovamento all’indomita capacità di stupirsi e di commuoversi dinanzi alla bellezza. Un entusiasmo che si accende e prorompe con una irruenza insolita in brani come “Feroce e inerme”, “Qualcosa cambierà” e in una vibrante rilettura di “Vorrei incontrarti”, capolavoro del primissimo Alan Sorrenti.

 

Quest’anno, dopo l’abituale lustro di silenzio sabbatico comunque vivacizzato da numerose partecipazioni e progetti (doveroso menzionare almeno l’emozionante spettacolo Chimenti canta Bowie, che ha debuttato nel corso dell’Estate fiorentina nel 2015 e prosegue ad oggi con grande fortuna), Chimenti si è riaffacciato sulle scene con una proposta ancora diversa e ambiziosa, il romanzo Yuri, incentrato sulla figura di un ragazzino amnesico che, braccato da turpi mercanti d’organi, brancola smarrito in una desolata no land post-apocalittica. Una vicenda dall’elevato coefficiente allegorico che in un secondo momento Chimenti ha voluto riformulare secondo le modalità più familiari, licenziando un concept album realizzato in collaborazione con suo figlio Francesco e con Davide Andreoni (titolari del progetto Sycamore Age, tra i più interessanti della nuova scena indie italiana), qui titolari della produzione artistica. Si riaffaccia l’insofferenza per la forma canzone, i brani assecondano l’urgenza narrativa e tutto intorno alla voce ieratica di Andrea – mai così vicina alla loquace indignazione poetica di un Fabrizio De André (si ascolti “Torbidi giocolieri”, che nulla invidia a “La domenica delle salme”) – germogliano partiture rigogliose e incalzanti che da un impianto cameristico s’inalberano epiche tra intarsi di piano, chitarra acustica, archi e percussioni, tutti trafitti da occasionali interferenze elettroniche.

Giovanni Di Vincenzo

  

Discografia

 

Yuri, SofficiDischi / Audioglobe / Santeria (2015)
Tempesta di Fiori, SofficiDischi / Audioglobe / Santeria (2010)
ChimentidanzaSilenda, SofficiDischi / Santeria (2008)
L’albero pazzo (Ristampa con un brano inedito), SofficiDischi / Audioglobe / Santeria (2007)
Vietato Morire, Audioglobe / Santeria (2004) Concerto (1998) Audioglobe / Santeria (2004)
Il porto sepolto, Audioglobe / Santeria (2002)
Cantico dei Cantici, con Anita Laurenzi, Consorzio Produttori Indipendenti / Via dei Canti (1998)
Qohelet con Fernando Maraghini, Consorzio Produttori Indipendenti (1997)
Ti ho aspettato (I Have Waited For You), con David Sylvian, Consorzio Produttori Indipendenti (1996)
L’albero pazzo, Consorzio Produttori Indipendenti (1996)
La Maschera del Corvo nero ed Altre Storie, CGD (1992)