Lo scrittore olandese Herman Koch in libreria con «Il fosso» (Neri Pozza), delirante discesa agli inferi mentali di un sindaco progressista dei giorni nostri
di Roberto Ellero
Se siete alla ricerca di un romanzo più inquietante che «appagante», aperto come un baratro in fondo al quale precipitare, in termini di esperienza letteraria beninteso, «Il fosso» di Herman Koch (Neri Pozza, traduzione di Giorgio Testa) è ciò che fa per voi. Non per niente il suo autore, annuncia lo strillo di copertina, «sta rapidamente diventando uno degli scrittori preferiti di Stephen King», che di viaggi negli abissi mentali se ne intende.
Attenzione: nulla di neanche lontanamente splatter o di proditoriamente truculento nelle dinamiche narrative dello scrittore olandese, da tempo figura di punta di quella scena letteraria, uno che indaga con la pazienza e la perizia di un entomologo non digiuno di psichiatria. Piuttosto, come già nel precedente «La cena», successo internazionale e fonte di ispirazione al cinema prima per «I nostri ragazzi» (2014) di Ivano De Matteo e poi per il remake americano «The Dinner» (2017), con Richard Gere, uno slittamento progressivo ma inesorabile nella paranoia, in ambienti borghesi tanto politicamente corretti quanto esposti a tentazioni diametralmente opposte, non meno primitive e intolleranti di quelle professate ai piani più bassi della scala sociale, soltanto meglio camuffate.
I fatti, comunque, prima delle conclusioni.
Conoscete il sindaco di Amsterdam? Gran bella persona, un tipo alla mano, idee giuste e battuta pronta. Quando Clinton e Obama passano per l’Olanda, è con lui che pranzano volentieri, certo non con il noioso e pedante primo ministro, o con i grigi rappresentanti della casa reale. È solito andare al Dauphine, cucina francese e ambiente easy, niente di paludato, così tanta gente importante ai suoi tavoli che un vip in più o in meno fa poca differenza. Robert Walter (nome di comodo, ovviamente) è al suo secondo mandato, amatissimo dai cittadini, sessantenne soddisfatto, con bella moglie straniera dai capelli corvini (la chiameremo Sylvia) e una figlia (Diana) prossima al diploma. Poi i genitori, ultranovantenni ma perfettamente in grado di badare a se stessi, e Amsterdam, naturalmente, il cui principale problema – testuale – è di non fare la fine di Venezia, travolta dal turismo… Tutto per bene, insomma, o quasi.
Ciò che sappiamo e che abbiamo appena riferito a proposito del sindaco Walter, lo apprendiamo da lui stesso, perché «Il fosso» è in soggettiva, un monologo con divagazioni, opinioni in back stage e una disturbante ossessione. Sin dalle prime righe, quel non voler chiamare le persone con il loro vero nome («svierebbe solo l’attenzione») già suona sospetto, così come non precisare il luogo di provenienza della moglie («a sudest dell’Olanda», dice), salvo poi insinuare che da quelle parti vigono altri usi e costumi. E lasciando dunque intendere una qualche arcaica tribalità destinata a confliggere con l’evoluto occidente europeo di cui Amsterdam è simbolo. Subito dopo, Otello non ha neppure bisogno di Iago per dubitare della fedeltà di Desdemona: ecco l’episodio chiave, destinato a marcare d’ora in poi ogni pensiero e ragionamento del protagonista.
Succede che alla tradizionale festa di inizio anno, in municipio, mentre si intrattiene con il presidente dell’Ajax per preparare i festeggiamenti del prossimo scudetto, l’ennesimo, il sindaco vede in lontananza la moglie intenta a conversare amabilmente, con un suo assessore, il mai troppo apprezzato Maarten von Hoogstraten, persona insignificante, un campagnolo oltretutto.
«Ho contato fino a tre e poi ho guardato di nuovo verso quel punto in fondo alla sala vicino alla porta. Proprio in quel momento mia moglie ha riso rovesciando indietro la testa, mentre l’assessore le teneva una mano sul gomito e le sussurrava qualcosa all’orecchio».
Nulla sarà più come prima. Ma prima com’era? Stiamo a quel che Robert Walter racconta, portati perciò a credere che in precedenza non ci fosse stato motivo di sospetto. Ma la psicoanalisi insegna che quando un evento improvviso e inatteso «sconvolge», forse così tanto «inatteso» proprio non era, originato piuttosto dalla rimozione del già noto. Una visione perturbante, che fa vacillare ogni certezza, offrendo in prosieguo di ciascun accadimento, sguardo, comportamento il lato colpevole, sia che l’indizio propenda per la colpa sia che manifesti innocenza, perché in tal caso di finta, ingannevole innocenza si tratterebbe. Un inferno, insomma, che costringe il sindaco a mostrarsi per quello che è, tanto meno tollerante, riflessivo, moderno e aperto di come appariva e di come, almeno in pubblico, ancora appare. E se le origini «straniere» della moglie diventano un vulnus, ogni straniero verrà visto con occhi diversi, dando la stura ad una xenofobia non meno preconcetta e pregiudizievole di tante altre. E mentre la «tresca» (forse soltanto immaginaria) assume toni grotteschi, il nostro non s’accorge di quel che gli succede intorno: i genitori prossimi alla dolce morte, benché ancora in piena salute; l’amico fraterno, scienziato, che, comunicandogli una grave malattia recentemente riscontratagli, s’accomiata con la promessa di un esperimento estremo; un episodio di gioventù sessantottina costato l’invalidità permanente a un poliziotto; l’assessore presunto fedifrago riempito di botte la notte stessa in cui Sylvia prende improvvisamente l’aereo per tornarsene al paese natale, insieme a quel fratello che tanti anni prima l’aveva minacciosamente messo in guardia, se tocchi mia sorella…
Intrecciando percorsi sempre più improbabili, ambiguamente sospesi fra realtà e fantasia, talvolta persino umoristicamente parossistici (il vegliardo in decapottabile, rigorosamente senza più patente, al fianco una ragazza da sballo), il racconto si fa delirio e persino il protagonista è costretto ad ammettere, ad un certo punto, che non sa più cosa pensare e cosa dire, obnubilato dalle sue stesse, sempre più nebbiose, memorie. O soltanto visioni. Così anche per il finale, anni dopo, una riappacificazione forse soltanto apparente.
Nel suo celebre «Scrittori e popolo» di oltre cinquant’anni fa Alberto Asor Rosa si scagliava contro il populismo, imputando agli scrittori «progressisti» del Novecento italiano un punto di vista borghese e soprattutto piccolo-borghese spacciato per lettura di classe. Un punto di vista unicamente «ideologico», nel senso marxiano della falsa coscienza. E salvava volentieri i Pirandello e gli Svevo che mai se n’erano occupati, intenti piuttosto a far bene le pulci al proprio mondo. Come Thomas Mann, per intenderci. Oggi, che di populismi ben più furenti e pericolosi è piena l’Europa, è apprezzabile che Herman Koch faccia le pulci a quella borghesia progressista che ben conosce e di cui è parte. Un ceto medio abbiente, per parafrasare Paul Ginsborg, che alla prova dei fatti così tanto «riflessivo» ormai più non è, doppiezze e bassezze comprese. Il folle apologo di Robert Walter valga da esempio.
Roberto Ellero
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Veneziano, Roberto Ellero è stato direttore del settore Cultura-Turismo del Comune di Venezia fino all’agosto del 2016. È stato direttore del periodico “Circuito Cinema”. Giornalista e critico cinematografico, collabora con quotidiani e riviste. Ha all’attivo numerose pubblicazioni, fra cui lavori monografici su André Delvaux, Sidney Lumet, Martin Ritt, e Simenon al cinema. In ambito storico, è autore del volume “Giuseppe Compagnoni e gli ultimi anni della Repubblica di Venezia”.
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