Nodi parlati, silloge di Alessandra Pellizzari, NEM, 2019, con la splendida traduzione in inglese di Patrick Williamson, è subito divenuto – in queste settimane di alta marea e di polemiche – il manifesto della Venezia resiliente, bene comune d’inestimabile bellezza, troppo spesso trascurata e vilipesa. L’autrice opera, tuttavia, senza accenti stentorei, senza retorica. La sua forza sta nell’essere sottile. La parola nitida, cristallina di Alessandra non elude lo smarrimento, anzi, lo abita e, nella sosta – lagunare, transtemporale, gocciante – si delinea una possibile, non definitiva condizione poetica.
Nel momento in cui ciò avviene, si fanno scoperte, impensabili prima della sillabazione. La poetessa si arresta e – in quella nicchia di senso – c’è tutta l’angoscia del presente. Si prende posizione nel pericolo. Le vie del suo scrivere sono una geografia senza carte, quasi un sentiero che si cancella alle spalle, di continuo. La contemplazione, ad ogni respiro, è nuova.
(…) Fluttua il manto innevato dai respiri,
sugli occhi della solitaria lanterna magica.
Mentre irrompe l’adagio
di una pietra d’inciampo. (p.12)
Non esiste punto di approdo; il viaggio è interminabile e costituisce, di per sé, un valore mai disatteso. Se esistesse una meta, sembra dirci Pellizzari, questa coinciderebbe con la fine del nostro esserci. Alessandra, invece, compare. Compare sulla scena del mondo, sul margine delle acque, nel ricordo di splendori antichi. Compare e vibra, come farebbe un basso continuo:
Ecco l’eco effimero delle sale annegate dal buio,
crepitano i pavimenti e gli anfratti.
Non si scioglie lo scompiglio delle mani
lungo l’intercapedine, le lacrime, le crune d’ago
dell’angelo animale,
la pioggia sacrificale. (p.28)
È l’umor vitreo del mondo, il suo canto, rifrange la luce e mantiene i contorni della visione. È la via dell’identità presente, che nomina le cose comparendo al giorno.
(…) Adesso ciò che rimane sconosciuto
è più certo. (p.26)
Sono versi implacabili, taglienti come lame. Soprattutto perché Pellizzari, comparendo al giorno, fa opera – basilare, pura, salvifica – di testimonianza. Così vale anche per la realtà (e questo evita ogni afflato profetico): si può renderla pronunciabile solo nella rinuncia a possederla appieno.
Quella di Alessandra è sensibilità percettiva, ancora un controcanto alla melodia principale, che è acqua che scorre, sciaborda e lava. Allora, e solo allora, nell’andare dei versi si traccia un percorso differente, ulteriore: scrivere dopo la fine del tempo, oltre la permanenza. Scrivere continuamente sul vuoto, sull’impossibile a dirsi.
La rivelazione di Alessandra Pellizzari è crepa, spaccatura, consunzione, ma – al tempo stesso – è contorno, margine, anche limite. Il suo dire è possibilità, non sempre evidente; è limpida acquisizione di responsabilità.
(…) Lungo i ghebi sinuosi andrà a morire
La primavera estranea alle sue piaghe.
Tutto da ogni parte sarà uguale,
diverso a se stesso, muto frutto poroso,
parola-chimica e cancrena. (…) (p.30)
Diversa a se stessa è la realtà: come in esilio, sempre in pericolo. Il verso è un avanzare, Stimmung, come ci ricorda Heidegger: tonalità emotiva, ma anche accordatura, consonanza.
Potremmo affermare, con onestà, che è ciò da cui il dire scaturisce a consentirgli di accadere. Stimmung, un tono talora venato da una malinconia fonda, come se l’autrice fosse in lutto per il proprio paesaggio, per la propria storia sensibile. Mai, tuttavia, sembra venir meno in lei quel nucleo di fiducia che sta al cuore della stessa logica. La fenomenologia del dire è salva, al di là di ogni nichilismo ontologico. Nodi parlati ci parla di un ignoto presente laddove la vita è in penombra, nei luoghi non ancora esplorati o appena intravisti, nei dettagli del degrado.
(…) Le forze si manifestano sulle lacrime di limonio
sull’àncora arrugginita che vortica,
tra il verde oscuro di verde. (…) (p.30)
E ancora:
(…) Oscura gli scheletri delle danze macabre,
illumina le iscrizioni delle pietre,
vigilie d’ammonimenti,
per i movimenti suicidi delle falde. (p.32)
La poetessa produce, nel suo dire, un’anamorfosi dei luoghi in parole: identificabile solo da un punto preciso, il loro cuore di senso, infinitamente caro. Come non ricordare, per questa silloge, la posizione di Paul Celan, in Der Meridian (1960), sul rapporto tra l’autore e il proprio pubblico, sull’incontro con l’Altro: (…) in vista del luogo della Poesia, del suo farsi libera, del passo in avanti… È quel passo in avanti, pulito, libero, che ora c’interessa.
La lirica di Alessandra Pellizzari ha una fiducia estrema nel vortice del suo stesso andare, in preda ad un magnetismo non fine a se stesso. È un’esperienza “del fare” applicata a ciò che non si può dominare. La parola stessa è la via, così come il silenzio. La fascinazione di questi testi, infatti, è spesso nelle pause, nelle prese di fiato. Comunque, Alessandra sceglie la via della non-latenza: forse perché il lento cammino che ci riporta a casa deve spingersi fino all’estremo limite, fino al confine inesplorato.
(…) Le onde vociferano i silenzi
tra i filari di San Francesco del Deserto,
sulle note che sprofondano
ai limiti delle luci,
sulle note che irradiano la fronte del cielo,
rabbuiato di sabbie e di fumi. (…) (p.36)
Bisogna dunque tornare, e fare, e dire in vista del luogo della Poesia, come sostiene Celan. È imperativo categorico, in purezza. Una forma di resistenza.
Francesca Ruth Brandes
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Alessandra Pellizzari nasce a Verona, vive a Venezia. Storica dell’arte e insegnante, ha pubblicato le seguenti raccolte: Lettere a cera persa (Lietocolle 2006, prefazione di Andrea Zanzotto), Intermittenze libro d’artista (con una partitura di Saverio Tasca), 12 testi per l’antologia 12 poetesse italiane (Nem 2007, con testo critico di Francesco Carbognin), Mutamenti (Campanotto Editore, 2012); Faglie (Puntoacapo editore, 2017, prefazione di Elio Grasso). I suoi lavori sono stati ospitati in numerose riviste e blog.
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