RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Natale, “La bellezza della piccolezza” / di Raffaele Vertucci

[Tempo di Lettura: 12 minuti]

«Voglio cominciare con una confidenza; io, a Natale sono sempre un po’ triste. Perché?

Perché vedo sempre più allontanarsi la verità di un Natale vero. Vedo sovrapporsi all’autentica festa del Natale – che è la festa della gioia e della vita – qualche cosa di falso, qualche cosa di non autentico, di deviante. Perfino vetrine invase da falsi angeli in volo con slogan tipo: “Segui la stella, troverai da mangiare, troverai il panettone…”», così Padre David Maria Turoldo in un’intervista di Riedo Puppo. Mi vengono insieme in mente anche le parole che, più di mille anni prima, esprimeva un grande padre della Chiesa in proposito, Girolamo nella Predica sul Natale del Signore: «Oh, mi fosse possibile vedere quella mangiatoia in cui un giorno giacque il Signore! Ora noi cristiani, per onorarlo, abbiamo tolto la mangiatoia di creta sostituendola con una d’argento. Ma, per me quella che è stata tolta è più preziosa. Al mondo pagano si addice l’oro e l’argento; la fede cristiana preferisce quella mangiatoia di creta. Colui che in essa è nato, disdegna l’oro e l’argento. Io non disprezzo coloro che, per onorarlo, hanno collocato qui la mangiatoia d’argento, come non disprezzo coloro che hanno approntato vasi d’oro per il tempio. Ma, io ammiro il Signore che, quantunque creatore del mondo, non nacque tra l’oro e l’argento, ma sulla creta».

P. Turoldo nel suo studio presso l’Abbazia di S. Egidio di Fontanella, foto di Nino Leto (Archivio SDM di Fontanella) – Finnegans n. 19 dell’aprile 2011

Al pensiero autentico e vero di Turoldo, cui la rivista Finnegans alcuni anni fa dedicò un bellissimo numero speciale, vorrei, però, aggiungere un pensiero sovvenutomi in questi giorni, confrontandomi con una giovane monaca di clausura. Mi è rimasta impressa la sua risposta alla domanda su cosa fosse per lei il Natale: «Per me il Natale è la bellezza della piccolezza (…)».

Così, mi si è aperto un panorama di pensieri! A Natale, allora, mi sono detto, c’è qualcosa che non torna. Qui i pastori, misteriosamente, vedono qualcosa che noi non vediamo. O sono matti loro, oppure siamo ciechi noi. Più probabile la seconda direi… Noi, infatti, siamo abituati a vedere le cose grandi, quelle evidenti, quelle gridate, quelle appariscenti – abituati al fatto, inoltre, che le cose grandi, poi, hanno un costo. Più una cosa è grande, bella, appariscente, più costa. Siamo abituati che le cose grandi e belle dobbiamo meritarcele. Eppure, oggi, sotto i nostri occhi, c’è un’altra realtà: c’è un Dio che viene a noi come bimbo indifeso fra le nostre braccia, come semplici parole lette ad un microfono nelle nostre orecchie, come pezzetto di pane sulle nostre mani. Non ci sono grandezze, non ci sono effetti speciali. Addirittura è gratis. Dai, se è gratis vuol dire che non vale un granché, no? Eppure lui non ci chiede nulla, non si aspetta niente da noi, non ci sono requisiti da avere.

Natale forse è questo; solo un bambino, lì per te, gratis, nient’altro.

Puoi prenderlo in braccio, accarezzarlo, lasciarti guardare negli occhi, lasciarti sciogliere dentro dal suo sguardo. Tutto qui. E questo è il mistero del Natale.

I pastori capiscono. Lo capisce, lo scopre, san Francesco a Greccio, quando inventa il presepio. Lo scopre sant’Antonio a Camposampiero, quando stringe fra le braccia quel bambino, e non lo molla più, se lo tiene stretto, da 800 anni, tanto che non esiste statua di sant’Antonio senza!

Loro intuiscono, e anche i nostri cuori intuiscono. Se fosse grande, se fosse costoso, se fosse appariscente, sarebbe per noi irraggiungibile. Forse potremmo ammirarlo, potremmo servirlo, ma lui resterebbe là, e noi resteremmo qua.

E invece no, è lì, alla nostra portata. Solo in questo modo può davvero essere il Dio-con-noi, il Dio-per-noi! È questo, penso, il Natale vero: adesso Dio è qui, piccolo, raggiungibile, alla nostra portata, gratis. È qui, e non ci molla più, non ci lascerà più soli, mai. Così ci ricorda infatti don Primo Mazzolari, in una splendida omelia di Natale del 1958!

Don Primo Mazzolari (Wikipedia)

C’è proprio allora da domandarsi cos’è il Natale, e se perfino i cristiani sappiano cosa sia veramente il Natale. Soprattutto, cosa abbia a che fare con il vero Natale di Cristo questo nostro modo di celebrarlo: in queste città impazzite per commerci e traffici; e scialo di luminarie, e ostentazioni di ricchezze.

C’è da domandarci sul serio cosa significhi per noi Natale: se si può ancora pensare che da noi Cristo continui realmente a nascere, a prendere corpo in una società come la nostra. 

Al di là del dubbio e del contrasto, al di là del sospetto che siamo davvero su vie sbagliate, al di là di ogni mercato, sopravviva almeno la nostalgia che “la vita è un dono.” Perché questo è il significato profondo del Natale, ci ricorda sempre lo stesso Turoldo: il dono del Padre a questi figli disperati e soli che siamo noi; il dono di un figlio e di un fratello che ci salvi dalla disperazione e dalla solitudine. E che ritorni ad apparire qualche segno di maggiore umanità nei nostri rapporti, in queste nostre città sempre più “senza Dio”. Non dico “atee”, dico “senza Dio” che è molto diverso: se non altro per quel tanto di drammatico che c’è solitamente nell’ateo; invece “senza Dio” dice soprattutto indifferenza, noncuranza, non-pensiero, quando non dica addirittura “cinismo”.

Mi sovviene alla mente la poesia Noi, pastori di Alda Merini:

“Rapida come un fulmine
scende la gioia del Divin Bambino.
Scende a rallegrare le stelle
e noi erranti pastori sulla Terra.
Di nuovo scende,
nonostante così come insiste
sulla fronte di un bimbo malato "il mondo" 
la carezza di una madre.
Non abbiamo nulla nelle mani
se non la nostra ostentata ricchezza
l’idea falsa di libertà.
È la notte di Natale.
È la notte della povertà.
Un albero disadorno,
un antico presepe
attendono da secoli il nostro sguardo.
O piccolo Gesù
ridacci quell’innocenza,
quello spirito caritatevole
che nessun’altra ragione,
nessun altro albero ricolmo
sanno offrire a noi sperduti viandanti”.
Alda Merini (Wikimedia Commons)

Alla “splendida” notte, però, è giusto prepararci, come ci ha ricordato spesso durante il suo pontificato Benedetto XVI, attraverso quella fase di Avvento (cfr. in particolare l’UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 17 dicembre 2008), con la prevista Novena di Natale che in tante comunità cristiane viene celebrata con liturgie ricche di testi biblici, tutti orientati ad alimentare l’attesa per la nascita del Salvatore. La Chiesa intera in effetti concentra il suo sguardo di fede verso questa festa, predisponendosi, come ogni anno, ad unirsi al cantico gioioso degli angeli, che nel cuore della notte annunzieranno ai pastori l’evento straordinario della nascita del Redentore, invitandoli a recarsi nella grotta di Betlemme. Là giace l’Emmanuele, il Creatore fattosi creatura, avvolto in fasce e adagiato in una povera mangiatoia (cfr Lc 2,13-14).

Per il clima che lo contraddistingue, il Natale, però è una festa universale. Anche chi non si professa credente, infatti, può percepire in questa annuale ricorrenza cristiana qualcosa di straordinario e di trascendente, qualcosa di intimo che parla al cuore. È la festa che canta il dono della vita. La nascita di un bambino dovrebbe essere sempre un evento che reca gioia; l’abbraccio di un neonato suscita normalmente sentimenti di attenzione e di premura, di commozione e di tenerezza. Il Natale è l’incontro con un neonato che vagisce in una misera grotta. Contemplandolo nel presepe come non pensare ai tanti bambini che ancora oggi vengono alla luce in una grande povertà, in molte regioni del mondo? Come non pensare ai neonati non accolti e rifiutati, a quelli che non riescono a sopravvivere per carenza di cure e di attenzioni? Come non pensare anche alle famiglie che vorrebbero la gioia di un figlio e non vedono colmata questa loro attesa? Sotto la spinta di un consumismo edonista, purtroppo, il Natale rischia di perdere il suo significato spirituale per ridursi a mera occasione commerciale di acquisti e scambi di doni! In verità, però, le difficoltà, le incertezze e la stessa crisi economica che in questi mesi stanno vivendo tantissime famiglie, e che tocca l’intera l’umanità, possono essere uno stimolo a riscoprire il calore della semplicità, dell’amicizia e della solidarietà, valori tipici del Natale. Spogliato delle incrostazioni consumistiche e materialistiche, il Natale può diventare, così, un’occasione per accogliere, come regalo personale, il messaggio di speranza che promana dal mistero della nascita di Cristo.

Maria Carla Cuccu, Natale

Tutto questo non basta per cogliere nella sua pienezza il valore della festa alla quale ci stiamo preparando. Noi sappiamo che essa celebra l’avvenimento centrale della storia: “l’Incarnazione” del “Verbo” divino per la redenzione dell’umanità. San Leone Magno, in una delle sue numerose omelie natalizie, così esclama: «Esultiamo nel Signore, o miei cari, ed apriamo il nostro cuore alla gioia più pura. Perché è spuntato il giorno che per noi significa la nuova redenzione, l’antica preparazione, la felicità eterna. Si rinnova infatti per noi nel ricorrente ciclo annuale l’alto mistero della nostra salvezza, che, promesso, all’inizio e accordato alla fine dei tempi, è destinato a durare senza fine». (Homilia XXII) Su questa verità fondamentale ritorna più volte san Paolo nelle sue lettere. Nella lettera Ai Galati, ad esempio, scrive: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge… perché ricevessimo l’adozione a figli» (4,4). Nella Lettera ai Romani evidenzia le logiche ed esigenti conseguenze di questo evento salvifico: «Se siamo figli (di Dio), siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria». (8,17) Ma è soprattutto San Giovanni, nel Prologo del quarto Vangelo, a meditare profondamente sul mistero dell’incarnazione. Ed è per questo che il Prologo fa parte della liturgia del Natale fin dai tempi più antichi: in esso si trova infatti l’espressione più autentica e la sintesi più profonda di questa festa e del fondamento della sua gioia. San Giovanni scrive: «Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis / E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). 

Il tutto, come ci ricordano i Padri della Chiesa, avviene con il grande stupore dell’uomo quando considera il miracolo per cui Dio scese prendendo dimora in un seno materno: «la sua somma essenza assunse un corpo umano e per nove mesi abitò nell’utero della madre senza contrarietà, e che quel seno di carne fu in grado di portare il fuoco, che la fiamma abitò nel corpo delicato senza bruciarlo. Proprio come il roveto sull’Oreb portava Dio nella fiamma, così Maria portò Cristo nel suo seno verginale. Attraverso l’udito, Dio entrò senza danni nel ventre materno e il Figlio di Dio poi ne uscì con purezza. La vergine concepì Dio e la sterile (Elisabetta) concepì il vergine (Giovanni), anzi il figlio della sterilità spuntò prima del germoglio della verginità.
Un miracolo nuovo Dio ha compiuto tra gli abitanti della terra: egli che misura il cielo con la spanna, giace in una mangiatoia d`una spanna; egli che contiene il mare nel cavo della mano conobbe la propria nascita in un antro. Il cielo è pieno della sua gloria e la mangiatoia è piena del suo splendore. Mosè desiderò contemplare la gloria di Dio, ma non gli fu possibile vederla come aveva desiderato. Potrebbe oggi venire a vederla, perché giace nella cuna in una grotta. Allora nessun uomo sperava di vedere Dio e restare in vita; oggi tutti coloro che l’hanno visto sono sorti dalla seconda morte alla vita.
Mosè prefigurò il mistero, vedendo un fuoco in un roveto; i magi portarono a compimento il mistero, vedendo la luce in una cuna. A gran voce dal roveto Dio impose a Mosè di togliersi le scarpe dai piedi; la stella invitò tacitamente i magi a giungere al luogo santo. Mosè non poté vedere Dio come realmente è; i magi invece entrarono e videro il Figlio di Dio fatto uomo. Il volto di Mosè splendeva perché Dio gli aveva parlato e un velo ricoprì il suo viso perché il popolo non poteva guardarlo; così nostro Signore si è circondato, nel seno materno, con il velo della carne e ne è uscito e si è mostrato: e i magi lo videro e gli offrirono i loro doni.
È grande il prodigio che si è compiuto sulla nostra terra: il Signore di tutto è disceso su di essa, Dio si è fatto uomo, l’Antico è diventato fanciullo; il Signore si è fatto uguale al servo, il figlio del re si è reso come un povero errabondo. L’essenza eccelsa si è abbassata ed è nata nella nostra natura, e ciò che era estraneo alla sua natura lo ha assunto per il nostro bene. Chi non contemplerà con gioia il miracolo che Dio si è abbassato assoggettandosi alla nascita? Chi non si meraviglierà vedendo che il Signore degli angeli è stato partorito? Credilo senza dubitarne e sii convinto che tutto in verità si è svolto proprio così!». (Efrem Siro, Inno per la nascita di Cristo, 1)

Maria Carla Cuccu, Presepe

A Natale dunque non ci limitiamo a commemorare la nascita di un grande personaggio; non celebriamo semplicemente ed in astratto il mistero della nascita dell’uomo o in generale il mistero della vita; tanto meno festeggiamo solo l’inizio della nuova stagione. A Natale ricordiamo qualcosa di assai concreto ed importante per gli uomini, qualcosa di essenziale per la fede cristiana, una verità che San Giovanni riassume in queste poche parole: «Il Verbo si è fatto carne». Si tratta di un evento storico che l’evangelista Luca si preoccupa di situare in un contesto ben determinato: nei giorni in cui fu emanato il decreto per il primo censimento di Cesare Augusto, quando Quirino era già governatore della Siria (cfr Lc 2,1-7). È dunque in una notte storicamente datata che si verificò l’evento di salvezza che Israele attendeva da secoli. Nel buio della notte di Betlemme si accese realmente una grande luce: il Creatore dell’universo si è incarnato unendosi indissolubilmente alla natura umana, sì da essere realmente “Dio da Dio, luce da luce” e al tempo stesso uomo, vero uomo. Quel che Giovanni chiama in greco “ho logos” – tradotto in latino “Verbum” e in italiano “il Verbo” – significa anche “il Senso”. Quindi, potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il “Senso eterno” del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo (cfr. 1Gv1,1). Il “Senso” che si è fatto carne non è semplicemente un’idea generale insita nel mondo; è una “Parola” rivolta a noi. Il Logos ci conosce, ci chiama, ci guida. Non è una legge universale, in seno alla quale noi svolgiamo poi qualche ruolo, ma è una “persona” che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del Dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme.

A molti uomini questo sembra troppo bello per essere vero. In effetti, qui ci viene ribadito: sì, esiste un senso, ed il senso non è una protesta impotente contro l’assurdo. Il Senso ha potere: è Dio. Un Dio buono, che non va confuso con un qualche essere eccelso e lontano, a cui non sarebbe mai dato di arrivare, ma un Dio che si è fatto nostro prossimo e ci è molto vicino, che ha tempo per ciascuno di noi e che è venuto per rimanere con noi (Cfr Benedetto XVI, Licht, das uns leuchtet, pp. 16ss). È allora spontaneo domandarsi: «È mai possibile una cosa del genere? È cosa degna di Dio farsi bambino?». Per cercare di aprire il cuore a questa verità che illumina l’intera esistenza umana, occorre piegare la mente e riconoscere la limitatezza della nostra intelligenza. Nella grotta di Betlemme, Dio si mostra a noi umile “infante” per vincere la nostra superbia. Forse ci saremmo arresi più facilmente di fronte alla potenza, di fronte alla saggezza; ma Lui non vuole la nostra resa; fa piuttosto appello al nostro cuore e alla nostra libera decisione di accettare il suo amore. Si è fatto piccolo per liberarci da quell’umana pretesa di grandezza che scaturisce dalla superbia; si è liberamente incarnato per rendere noi veramente liberi, liberi di amarlo.

Perciò, il Natale è un’opportunità privilegiata per meditare sul senso e sul valore della nostra esistenza. L’approssimarsi di questa solennità ci aiuta a riflettere, da una parte, sulla drammaticità della storia nella quale gli uomini, feriti dal peccato, sono perennemente alla ricerca della felicità e di un senso appagante del vivere e del morire; dall’altra, ci esorta a meditare sulla bontà misericordiosa di Dio, che è venuto incontro all’uomo per comunicargli direttamente la Verità che salva, e per renderlo partecipe della sua amicizia e della sua vita. Prepariamoci, pertanto, al Natale con umiltà e semplicità, disponendoci a ricevere in dono la luce, la gioia e la pace, che da questo mistero si irradiano. Accogliamo il Natale di Cristo come un evento capace di rinnovare oggi la nostra esistenza. L’incontro con il Bambino Gesù ci renda persone che non pensano soltanto a sé stesse, ma si aprono alle attese e alle necessità dei fratelli.  E quindi il particolare di questa “icona natalizia” mi sembra messaggio di speranza: quando prendi in mano un bambino anche tu diventi più delicato e fine. Un vecchio sta attento ad accarezzare con le sue ruvide mani il viso di un bimbo; anche i cuori più feriti e induriti si ammorbidiscono di fronte alla tenerezza di un piccolo; gli sconfitti dalla vita alzano gli occhi e, anche se da lontano, un piccolo sorriso sgorga tra le sue nubi; così la casa del faraone si è lasciata intenerire dal pianto di un bimbo lungo il fiume Nilo. Mi sembra che la potenza della piccolezza consista nello strappare nascosto dentro di noi, in un angolo lontano e segreto del nostro cuore, la nostra umana accoglienza della vita, ma anche nel far sorgere dove c’è molta tristezza e dolore, la speranza. In questa maniera allora diventeremo, forse, anche noi testimoni della luce che il Natale irradia sull’umanità del terzo millennio, consci però anche del fatto che la gioia del Natale, è anche gioia della salvezza. Non è dato Natale senza Pasqua. E soprattutto i Padri della Chiesa ci aiutano a guardare la Storia dalla giusta prospettiva, per cogliervi i segni della presenza di Dio. Una presenza che nella grotta di Betlemme – nella luce che avvolge i pastori, nel giubilo che cantano gli angeli, nella stella che guida i Magi – parla già del sacrificio della Croce e della gloria della Resurrezione. Nella nascita di Gesù è allora anticipata e prefigurata la Croce, il compimento della salvezza, come già il poeta Jorge Luis Borges ci ricorda in questo tenero testo poetico:

Giovanni (I, 14)

“Non sarà questa pagina enigma minore di quelle dei Miei libri sacri o delle altre che ripetono le bocche inconsapevoli, credendole d’un uomo, non già specchi oscuri dello Spirito. Io che sono l’È, il Fu e il Sarà accondiscendo ancora al linguaggio che è tempo successivo e simbolo. Chi giuoca con un bimbo giuoca con ciò che è prossimo e misterioso; io volli giocare con i Miei figli. Stetti fra loro con stupore e tenerezza. Per opera di un incantesimo nacqui stranamente da un ventre. Vissi stregato, prigioniero di un corpo e di un’umile anima. Conobbi la memoria, moneta che non è mai la medesima. Il timore conobbi e la speranza, questi due volti del dubbio futuro. Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni, l’ignoranza, la carne, i tardi labirinti della mente, l’amicizia degli uomini, la misteriosa devozione dei cani. Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce. Bevvi il calice fino alla feccia. Gli occhi Miei videro quel che ignoravano: la notte e le sue stelle. Conobbi ciò ch’è terso, ciò ch’è arido, quanto è dispari o scabro, il sapore del miele e della mela e l’acqua nella gola della sete, il peso d’un metallo sulla palma, la voce umana, il suono di passi sopra l’erba, l’odore della pioggia in Galilea, l’alto grido degli uccelli. Conobbi l’amarezza. Ho affidato quanto è da scrivere a un uomo qualsiasi; non sarà mai quello che voglio dire, ne sarà almeno un riflesso. Dalla Mia eternità cadono segni. Altri, non questi ch’è il suo amanuense, scriva l’opera. Domani sarò tigre fra le tigri e dirò la Mia legge nella selva, o un grande albero in Asia. Ricordo a volte, e ho nostalgia, l’odore di quella bottega di falegname”.


Immagine di copertina Basilica della Natività di Betlemme: luogo identificato con quello della nascita di Gesù. Foto di Darko Tepert Donatus per Wikimedia Commons

  • Raffaele Vertucci

    Nato nella provincia di Salerno nel 1975, si laurea nel 1998 in Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Perugia con una tesi di laurea dal titolo Il fondamento etico nel pensiero di Albert Schweitzer: il rispetto per la vita. Sviluppa intanto dei temi legati alla non violenza e ad Aldo Capitini attraverso delle pubblicazioni, per poi concentrarsi più propriamente – grazie al prof. Edoardo Mirri e al Prof. Marco Moschini dell’Università di Perugia – allo studio del filosofo italiano Teodorico Moretti-Costanzi e al suo rapporto con Spinoza, i Padri della Chiesa, tra cui Giustino e il pensiero di San Bonaventura da Bagnoregio. Consegue nel 2008 con il summa cum laude il Dottorato di Ricerca di Filosofia presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, con una dissertazione dal titolo: Sapienza, amore, verità: il pensare di san Giovanni della Croce: un mistico-filosofo, un filosofo-mistico, pubblicata dalla stessa Università nel 2010. È stato componente la Redazione di Perugia della rivista filosofica-politica-pedagogica Prospettiva Persona, con sede a Teramo (presidente del Comitato scientifico P. Ricoeur) ed è attualmente componente il gruppo di Ricerca della Fondazione “Siro Moretti-Costanzi” dell’Università degli Studi di Perugia, attraverso cui continua lo studio della Mistica e del suo rapporto con la Patristica e la Filosofia.