Molti calligrammi di Apollinaire
possono ritenersi
veri geroglifici dell’uomo moderno.
G. Pozzi, La parola dipinta, 1981
1. Tutti ricordiamo la descrizione del territorio con al centro «quel ramo del lago di Como», che occupa le prime righe del romanzo di Alessandro Manzoni: una visione a volo d’uccello (o, attualizzando, come ripresa da un drone), illustrata dalla vignetta di Francesco Gonin… Anche Giuliano Scabia (Padova 1935 – Firenze 2021) fa qualcosa di analogo ad apertura del primo episodio del ciclo di “Nane Oca”, una tetralogia, che dopo Nane Oca (NO, 1992), è continuata con Le foreste sorelle (FS, 2005), Nane Oca rivelato (NOR, 2009), per concludersi con Il lato oscuro di Nane Oca (LO, 2019): egli disegna a pagina intera per i suoi lettori la cornice ambientale di storia e racconto, cioè la mappa del territorio del Pavano Antico, sovrapponibile al moderno, con al centro la città e intorno i «Grèbani» (la campagna) e i Colli Euganei, circondati dalla Pavante Foresta; con la stessa mappa unificante si apre ognuna delle quattro parti del romance, mentre nella prima un altro disegno tracciava anche il nucleo centrale di Pava-città con le piazze intorno al Salone.


2. Riassumo brevemente alcuni elementi della trama: nella storia che fa da cornice l’autore intradiegetico del romanzo è Guido, coltivatore di fiori del paese dei Ronchi Palù, che legge ai frequentatori delle veglie in casa sua – i quali intervengono normalmente con ammirazione, consigli o riprovazione (nel caso del parroco del luogo, don Ettore il Parco) – la storia che sta scrivendo con le avventure dell’eroe eponimo del ciclo, Giovanni, figlio di un violoncellista e di una fata. Il racconto dell’iniziazione di Giovanni nel paese, al tempo della «guerra imperversante» (1943-45, gli anni passati da Scabia come sfollato nel paese di Bertipaglia), si alterna a quello degli incontri furtivi in città di Guido con l’amata Rosalinda; le complicazioni spostano nel tempo e nello spazio gli episodi del ciclo, dapprima una finta cerimonia di premiazione col Nobel per Guido, infine per Giovanni la scoperta e l’esperienza del male nel mondo (il “lato oscuro”); la vittoria finale dell’amore è solennizzata da una partita di calcio cui assistono tutti i personaggi di storia e racconto, insieme a molti altri, veri e inventati, eroi e poeti, tra i quali amici dello stesso Scabia, i cui nomi sono appena mascherati o soltanto truccati…
Una serie discontinua di disegnetti si ritrova, quasi appunti iconici lasciati sul foglio, tra le sue molte pagine di prosa, così come la riproduzione di suoi deliziosi acquerelli in quelle di poesia, confermando la pratica costante dell’espressione grafico-figurativa da parte di questo autore dalla lunga, lunghissima, e varia stagione creativa, compresa quella teatrale, documentata a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, conservata puntigliosamente, e ora in corso di riordino e catalogazione da parte della Fondazione a lui intitolata.

3. Se il gusto per la sperimentazione (e la contestazione) teatrale lo aveva portato a meticciare la sua drammaturgia tra palcoscenici tradizionali, capannoni industriali e spazi aperti, dalle piazze urbane e periferiche alle radure tra i boschi appenninici, sulla pagina ritroviamo un analogo gusto riflesso nella mescolanza di parole scritte e disegni, grafismi spontanei e ripresa di modelli iconici e procedimenti retorici. Già in Morte della geometria (1971), i fogli del copione teatrale, «insieme partitura e poesia visiva» (Marino 2022), inalberavano una libertà che la messa in scena avrebbe ribadito ed esaltato in parole e movimenti. Anche la lingua di Scabia, da lui stesso definita «stralingua» (i cui dioscuri protettori sono Ruzante e Folengo), mescola o alterna con sapienza e divertimento dialetto e italiano, pratica accostamenti e azzarda neoconiazioni,1 tanto da rappresentare un unicum che ha già suscitato interesse, studi, analisi (e convegni: a Ca’ Foscari e alla Bicocca), mentre non mi risulta altrettanto per le “parole figurate”, che pure si ritrovano nella sua opera.
4. Il convegno del Circolo Filologico Linguistico Padovano (Bressanone 5-6 luglio 2025) La parola “aumentata”. Amplificazioni, iperboli e oltranze nelle espressioni verbali, mi ha fornito l’occasione per considerare questo particolare aspetto dello stile misto parola-immagine, al quale mi accosto in maniera spericolata, se non rischiosa, ma con l’aiuto determinante del maggiore specialista dell’argomento, Giovanni Pozzi, e delle sue ricerche fondamentali: La parola dipinta (1981), Poesia per gioco (1984), Sull’orlo del visibile parlare (1993).
5. In estrema sintesi e tralasciando gli autori alessandrini, la “poesia artificiosa”, già praticata da alcuni intellettuali (ecclesiastici) in epoca carolingia,2 arriva alla fioritura, sacra e profana, tra Cinque- e Seicento, e alla reinvenzione con le avanguardie del Novecento, dalle “parolibere” dei futuristi italiani agli straordinari exploit di Guillaume Apollinaire… Senza la pretesa di ripercorrere le molteplici e multiformi categorie, individuate ed esemplificate da padre Pozzi, mi limiterò a segnalare, illustrare e commentare le ricorrenze scabiane, che sono in maggioranza dei calligrammi, a partire da quello che si trova in copertina delle Foreste sorelle.

Benché il termine sia stato coniato dallo stesso Apollinaire, «per designare le sue composizioni poetiche figurate, nelle quali i contorni di un normale disegno sono rappresentati, invece che dal tratteggio, da una linea di testo scritto» (Pozzi 1984, 58), Scabia sa bene che la pratica del calligramma è ben più antica, come attestato all’interno del romanzo, dove la figura di un fiore si forma per aggiunte successive, che documentano i progressi di un’inchiesta, disegnando dapprima gambo e foglie, con l’aggiunta di alcuni versi (non memorabili e che tralascio), così commentati:
6. Prese dalla tasca un foglio e apparve un disegno fatto di parole […] Gli indizi tutti insieme alla fine formeranno una rosa, la rosa degli indizi, – disse Guido – disegnata secondo la forma inventata dal poeta Pascasio di san Giovanni, riportata alla luce da frate Giovanni, l’eremita del Pozzo Palù, allievo e amico del professor Pandòlo (FS 69).

Ecco dunque dichiarata la fonte: 1. la rosa, che abbiamo già vista completa in copertina, corrisponde effettivamente alla figura 35 del volume di padre Pozzi, La parola dipinta, «un calligramma in forma di rosa» tratto da Paschasius a S.[ancto] Iohanne Evangelista, Poesis artificiosa … Herbipoli [Würzburg], sumptibus Iohannis Petri Zubrodt, typis Eliae Michaelis Zink, 1674; 2. Giovanni Pozzi, cappuccino, diventa l’eremita del Pozzo Palù, con un duplice richiamo, attraverso l’assonanza: a) al paese dei Ronchi Palù, ma anche, b) per libera, giocosa associazione, al titolo di un film, La tragedia di Pizzo Palù (Die Weisse Hölle vom Piz Palü, 1929)3 di A. Fank e G.W. Pabst, interpretato da Leni von Riefenstahl (con un remake nel 1955); le righe di Scabia sono importanti perché 3. chiariscono anche chi si cela sotto la maschera di questo «professor Pandòlo», l’erudito che incontriamo più volte nel ciclo romanzesco: qui, il docente e poi «amico» (collega) di padre Pozzi a Friburgo è ovviamente il filologo Gianfranco Contini, non il dialettologo Manlio Cortelazzo (come era parso ad evidentiam leggendo Nane Oca),4 e nemmeno Tullio De Mauro o Gianfranco Folena, o «un concentrato» dei tre, come ipotizzato da Massimo Marino (Il poeta d’oro, 162).
Nei successivi calligrammi si formano i petali del fiore, quelli esterni (FS 87) ed interni; mentre il narratore «prosegue la composizione della rosa … cercando sentire come accostare le frasi» (105), i personaggi del racconto commentano, estasiati: «Come elle est belle! – disse Jolicoeur» (106); o disincantati: «A me sembra che questa – disse don Ettore il Parco – sia tutta roba da Settimana Enigmistica» (107).5 Appare infine il «fiore dei misteri» (173) e chi l’ha composto ne legge i versi, fino all’ultimo, che ingiunge «Cercate la bottiglia diatreta»:
Vedete? – disse Guido. – Al centro, proprio al centro, è andato a incastonarsi il nome bottiglia diatreta. Penso che questo nome contenga la soluzione del mistero.
In greco – disse il farmacista di Casalserugo – diatreta vuol dire traforata, come la trina. Una bottiglia traforata (174).

7. L’evocazione della dive bouteille dal Cinquième Livre di Rabelais («se l’opera è sua», chiosa Pozzi, 1984, 54), mentre fornisce una lambiccata e “profumata” soluzione al mistero della scomparsa di un personaggio (suor Gabriella), richiama soprattutto un’altra specie di poesia figurata allestita da Scabia a piena pagina (FS 158), nella quale il contorno delle corte frasi (versi), ripetute, variate, alternate a vocalizi o lallazioni, dovrebbe disegnare un oggetto, identificato con una bottiglia. Considerato come figura disegnata con le parole, si tratta di un technopaegnion, cioè di «una trascrizione per linee sovrapposte sul supporto bidimensionale della pagina: le linee sovrapposte di lunghezza diversa vengono a creare dei tracciati irregolari, che opportunamente regolati creano contorni dai quali nasce il disegno» (Pozzi 1981, 38). La dive bouteille di Rabelais è disegnata appunto da un technopaegnion, i cui versi la esaltano e invocano come una divinità, con riferimenti a Bacco e a Noè (cfr. testo e traduzione a fronte, di Augusto Frassineti, BUR 1556-57, che disegna una bottiglia più alta, esile, elegante, conservando l’invocazione).
8. Non il vino, la sostanza «soit blanche ou soit vermeille», ma ancora l’amore tra Rosalinda e Guido è cantato nel testo contornato di Scabia, anche se, nella «bottiglia traforata», il ricamo, la trina richiama il significato “altro” del termine ‘trina’ (dialettale), non ‘merletto’ (come nella romanza «In quelle trine morbide» dalla Manon Lescaut di Puccini, testo di Luigi Illica), ma ‘liquame della concimaia’, attestato soltanto – oltre che dalla mia memoria di antico dialettofono padovano – nel Dizionario tecnico-storico del dialetto del territorio vicentino.6 Ne trovo una conferma alle pagine successive (FS 179-80), dove si legge che suor Gabriella riemerge prodigiosamente dalla fossa del letame,7 quella normalmente contornata da un rivolo di liquido puzzolente, ma benedetto per i contadini, appunto, la “trina”: il gioco tra Rabelais e il “basso corporeo” teorizzato da Michail Bachtin è evidente, anche se non mi pare che Scabia lo abbia esplicitato.
9. Tra i numerosi dessins écrits del secondo romanzo spicca il calligramma dell’orecchio di Dio (FS 188-89), una presenza in ascolto già nelle prime pagine di NO, per godersi la lettura con gli altri ospiti in casa di Guido:8 le infinite parole immagazzinate nel disegno sono però illeggibili, e forse per questo, in un successivo, triplice, ardito calligramma, avviene la metamorfosi dell’orecchio di Dio, per rappresentare con una immagine che anche Dio può “andare in oca”,9 che Dio è andato in oca, così che le parole sono scoppiate e disperse in una infinità di lettere che riempiono un’intera pagina (NOR 122-23).

10. A riprova ulteriore di un costante gusto di Scabia per l’artificio, tanto che disegni quanto che costruisca oggetti con legno e cartapesta (dal processionale “albero dei poeti” a Marco Cavallo, per l’ospedale psichiatrico di Trieste), nell’appendice delle FS, dopo la parola FINE, compare un’intera serie di calligrammi intitolata Fioreto (FS 219-61), che il coltivatore di fiori e poeta-narratore Guido compone per l’amata Rosalinda: sono ventuno «ideogrammi amorosi» (Pozzi 1981, 142) sul modello della rosa di Pascasio più che di Apollinaire, replicata e variata da Scabia, con pazienza e perizia da amanuense, che ha evidentemente familiarizzato con questa forma di “carme figurato”.

Dall’invernale croco all’autunnale crisantemo sfila una ingegnosa esposizione floreale, nella quale all’ossessiva ripetizione del mantra «rosalinda» («Scrivendo il nome rosa su ogni fiore / ogni fiore diventa la mia rosa, o rosa linda…») si può apporre il commento del padre Pozzi (anticipatore elegante dei drastici giudizi di don Ettore il Parco), che vale anche per Scabia:
In epoca moderna Apollinaire non dubita di ricorrere con franca spregiudicatezza a un ideogramma così banalizzato dai graffiti murali che eternano amorose presenze nei luoghi appartati o solitari (ivi).
11. Dopo l’intervallo di un intero romanzo (NOR), non con i “graffiti”, che non s’addicono a una signora, Rosalinda risponde al Fioreto di Guido con un Canzoniere ricamato: ancora ventuno calligrammi (LO 51-72), in cui «la linea scritta è usata con la stessa libertà del tratto grafico» (Pozzi 1984, 38), decisamente più vicini a quelli di Apollinaire (cfr. il suo Poème du 9 février 1915 per l’amata Lou),10 illustrano e riepilogano il ciclo arrivato al quarto e ultimo episodio. Spregiudicata è la signora che, «meravigliosa nella camicia da notte trasparente [ma dai, Giuliano, non imitare Liala!], ha l’ago in mano», disegna scrivendo versi ripetitivi, persino ossessivi, proprio come fanno (facevano?) gli innamorati («Mio amore, mio fior di vento / ecco il mio canzoniere per te / mentre il tuo viso ricamo / il dio Amore fiorisce in me»), ma talora equivoci («Oco bi-oco Amore Dio / nelle foreste ormai rivelato / scritte da Guido amore mio / magico libro dal Parco stampato»), persino surreali («O Vacca Mora interrogata / dal maestro Baroni in domande / come una Budda illuminata / in acche cacche come sei grande»)…

12. Ricamata, deformata o inventata, alla fine la categoria cui appartiene l’intero ciclo di Nane Oca potrebbe essere rubricata sotto “scrittura aumentata”: nei quattro romanzi infatti il teatrante Scabia ha fatto ricorso a molteplici tecniche retorico-iconico-stilistiche. Per riepilogare: dalle mappe del Pavano e di Pava in NO, si passa, in crescendo, ai numerosi disegni, ma soprattutto ai calligrammi (due serie) e al technopaegnion delle FS; in NOR c’è un solo calligramma (l’orecchio di Dio che “va” in oca); infine, nel LO, ai già citati calligrammi del “primo intermezzo” (Il canzoniere ricamato) succede un “secondo intermezzo” (LO 73-91), con la Commedia della fine del mondo, in otto brevi atti, quindi una pagina simil-futurista in cui i caratteri tipografici maiuscoli di varie dimensioni vogliono rendere, non le marinettiane parole in libertà, ma «tutto un bromboleggiare, tattarare, echeggiare, feteggiare, rutteggiare e altro» (LO 187) del Leviatano che ingoia Giovanni Oca. La serie di verbi frequentativi su base dialettale, non solo veneta, testimonia il costante lavoro di Scabia sul lessico tra sperimentazione e invenzione, mentre anche dal punto di vista sintattico e stilistico sono notevoli le innovazioni, ardite eppure talora opinabili, come l’uso della “lingua rovescia”.
13. Giochi simili, tra doppio senso e calembour, si ripetono, a proposito del «momón»,11 un oggetto del desiderio misterioso ma non troppo («La mona è il momón originario», FS 168), dapprima esplicitato nell’estasi erotica (NO 34), per assumere in seguito valenze diverse anche se nebulose, come nell’etimo che il Pandòlo lessicografo accenna per la bottiglia traforata. Sono giochi numerosi, e sovente gustosi, e una sfida per il lettore, invitato a una tacita intesa, se non collaborazione, con l’autore, soprattutto nel gioco del riconoscimento dei numerosissimi nomi propri, di persone reali ma mascherate, contraffatte, confuse nelle enumerationes assieme ai personaggi della storia e/o del racconto delle avventure di Nane Oca, a cominciare proprio da Alcofribas, cioè François Rabelais. Nei cinque libri del suo Gargantua e Pantagruel, si incontrano l’elenco dei nettaculi di Gargantua (I, 13) e l’inventario dei libri della biblioteca di San Vittore (II, 7), i gradi della pazzia (III, 38) e un prontuario molto sui generis di anatomia (IV, 30-31), e per finire, un doppio inventario di alimenti, di grasso e di magro, dei Gastrolatri (IV, 59, 60) …
14. Nei numerosi e fantastici elenchi che punteggiano il ciclo Scabia ostenta libertà negli accostamenti (cfr. l’inventario delle Foreste tralasciate…) e desiderio di inclusione (cfr. il gruppo delle “Agnesi”, già ospiti del bordello di via Sant’Agnese, a Padova), per arrivare a un vero e proprio effetto-catalogo, dapprima con una prova generale che raduna i personaggi-cavalieri attorno alla Tavola Rotonda (FS 203-205), e ancora con quello enciclopedico, interminabile (di oltre dieci pagine), nel finale di LO (203-213), corrispondente all’Elenco dei presenti al campo dei Gu (che il lettore è invitato a saltare) (una sfacciata antifrasi o, almeno, un understatement tra l’autore e i suoi lettori). Sul modello del finale felliniano della Dolce vita e di Roma, in un generale e ingenuo embrassons-nous, per assistere a una partita di calcio sfilano molte centinaia di spettatori, dai personaggi del ciclo (attori o spettatori) a persone reali, il cui nome è camuffato, storpiato, commentato, compresi tra «Adamo supposto primo uomo» e «Zio Ade in realtà tremendo Gajàn, per cui dove c’è l’uno c’è anche l’altro». Tra gli altri pesco l’«allenatore Rocco Nerèo camadòi sempre esclamante» (bestemmiatore e coach della Pavante Squadra che incontrò, realmente, quella del Fatal Taurino poche settimane prima del disastro di Superga nel 1949: da qualche parte Scabia aveva snocciolato anche la formazione delle due squadre), i poeti Banighieri, Beldelaria, Perinanzi, Petracco (Alighieri, Baudelaire, D’Annunzio, Petrarca)…, ma anche il «poeta giovane bruno con gli occhi pieni di luce nella Foresta dei poeti appollaiati in realtà Keats», il «dottor Busonera vilmente impiccato dalle brigate nere», i briganti pavani, dall’ottocentesco Stella al tardo novecentesco Maniero, ovviamente «Manlio maestro di parole» (Cortelazzo), «Sant’Antonio Abate emigrato abruzzese», per finire con «Tetabianca del Carturàn selvaggio sibilla amata un tempo dall’autore benché lei d’altra natura»…
15. Il mio amico e poeta Giuliano Scabia è talora irritante, ma spesso appare commovente, a leggerlo e a guardarlo, soprattutto in questi giorni di massacro (luglio come dicembre 2025). Nell’ottobre 2001 (dopo l’attacco di settembre alle Twin Towers) aveva scritto questi versi apparentemente ingenui, che appaiono ancora più tristemente attuali:
…Come / amano gli uomini sé / macellare. Come si esaltano a volte / e delirano di male celata felicità // nel gran teatro del dare morte… (Poesia della voce, in GS, Opera della notte, Torino, Einaudi, 2003, p. 112).
È così…
Bibliografia
- Scabia Giuliano, Nane Oca (Torino, Einaudi, 1992); Le foreste sorelle (ivi, 2005); Nane Oca rivelato (ivi, 2009); Il lato oscuro di Nane Oca (ivi, 2019)
- Pozzi Giovanni, La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981; Poesia per gioco. Prontuario di figure artificiose, Bologna, Il Mulino, 1984; Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993
- Apollinaire Guillaume, Gli amori, a cura di R. Paris, Milano, Mondadori, 2005
- Brugnolo Furio, Il Canzoniere di Nicolò de’ Rossi, I, Introduzione, testo e glossario; II, Lingua, tecnica, cultura poetica, Padova, Antenore, 1977
- Eco Umberto, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009
- Friedrich Hugo, La struttura della lirica moderna, Milano, Garzanti, 1983
- Marino Massimo, Il poeta d’oro. Il gran teatro immaginario di Giuliano Scabia, Firenze, La casa Usher, 2022
- Morbiato Luciano, Ritratto di un personaggio di “Nane Oca”: don Ettore il Parco, «Quaderni Veneti», 10 (2021), pp. 113-24; Del narratore e di altre figure nel ciclo di Nane Oca, «Quaderni Veneti», 4 (2020); Poetica e poesia di Giuliano Scabia, «Finnegan’s» (rivista-on-line)
- Orazi Veronica, Il calligramma nell’avanguardia spagnola, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004
- Pasolini Pier Paolo, Poesia in forma di rosa (1961-1964), Milano, Garzanti, 1964
- Richter Mario, Apollinaire, “Loin du Pigeonnier”. Polisemia e simultaneità di un ideogramma. «Strumenti Critici», 32-33 (1977), pp. 244-259 [B.Pell. = PER.A.392]
- Tavole parolibere futuriste (1912-1944), a cura di L. Caruso e S.M. Martini, Napoli, Liguori, 1974

Note:
- Solo a titolo di campione, basta rinviare ai vocaboli col suffisso -ume, soprattutto in funzione negativa (e copyright di don Ettore): «pescume» (FS 85), «naneocume» (NOR 171)… ↩︎
- Nel trecentesco canzoniere di Nicolò de’ Rossi (esemplarmente edito nel 1977 da Furio Brugnolo) si trovano due componimenti (247 e 248), ognuno completato da un ardito calligramma, commentato in latino dall’autore (Pozzi 1984, 104-5). ↩︎
- Piz Palu, 3901 mt, nelle Alpi Retiche, Massiccio del Bernina tra Canton Grigioni, Svizzera, e Lombardia, Italia; il “bianco inferno” del titolo originale allude a questa cima. ↩︎
- NO 132: «Era magro, aveva i capelli tagliati corti, gli occhiali d’oro, la barbetta caprina»; NO 133: «sto compilando l’iperdizionario universale per mettere in comunicazione tra loro tutte le parole di tutte le lingue del mondo, sia lingue vive che lingue morte, dialetti e gerghi compresi»: un lessicografo, dunque, almeno in questa anta del polittico… ↩︎
- Disincanto e messa in guardia dall’eresia sono le caratteristiche di questo personaggio, che vigila ammonisce condanna gli abitanti dei Ronchi e ascoltatori della storia (cfr. L. Morbiato, Ritratto di un personaggio di “Nane Oca”: don Ettore il Parco, «Quaderni Veneti», 10 (2021), 113-24). ↩︎
- Sottotitolo e scioglimento del titolo, più solenne, La sapienza dei nostri padri (a cura del Gruppo di Ricerca sulla Civiltà Rurale, Vicenza, Accademia Olimpica, 2002). ↩︎
- Inevitabile il rinvio a Meneghello e al suo «Libera nos amaluàmen»… ↩︎
- «Erano in quella casa riuniti così diversi, così curiosi di ascoltare la storia, così attenti che anche Dio mise fuori la testa dai cieli e sporse in basso l’orecchio bianco, vasto e onniudente» (NO 9). ↩︎
- «Cosa vuol dire andare in oca?»: per la fantasiosa semantica di Giovanni «Vuol dire andare in estasi perdendo la testa» (NOR 118), ma nel Boerio è più banalmente «Vagellare [vacillare, della mente]; Dimenticarsi di che che sia»; come nel Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto di E. Zanette («dimenticare; so ’ndàt o son andàt in oca = non me ne sono più rammentato»). ↩︎
- Il Poème è riprodotto, qui, dopo la Bibliografia. ↩︎
- Dal francese bonbon “caramella, zuccherino”; dopo l’iniziale identificazione (in NO), ripetutamente Scabia amplia il campo semantico del termine che appartiene all’idioletto della prima infanzia (il petèl di Zanzotto): momón è ogni cosa che dà gioia, che fa la felicità dei singoli e delle comunità. ↩︎


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