Il 15 novembre 2022 è ricorso il centenario della nascita di Giorgio Manganelli, divenuto scrittore prestigioso e di alta levatura internazionale dopo una carriera dagli inizi incerti, testimoniata forse esemplarmente da una laurea in Scienze Politiche, ottenuta a Pavia presso la cattedra di Beonio Brocchieri, spesa tuttavia nell’insegnamento di Lingua e cultura inglese nei licei e poi, con il trasferimento a Roma, in un analogo assistentato alla Sapienza. Nel 1971 si convinse che l’abito o status di “assistente”, cui Robert Walser aveva pur intitolato un perfetto e suo tipico romanzo, gli stava stretto e mutarlo con un upgrade richiedeva un’attività per lui noiosa, e dunque lasciò l’università. Già disponeva di un’altra veste e aveva conquistato il palcoscenico letterario nelle relazioni con i maggiori editori, da Einaudi e Mondadori a Adelphi, con i giornali di diffusione nazionale, con settimanali e mensili. In quotidiani e periodici spargeva talvolta “pezzi” di eccelsa prosa e acutezza, come nella lussuosa rivista «FMR Art Magazine», dove un giorno apparvero delle pagine sui fiori persino conturbanti per l’abissale profondità di pensiero dissimulata sotto una levigatissima superficie del lessico e della sintassi, nello stile quasi di un Daniello Bartoli (di cui egli stesso per vezzo scherzoso amava definirsi «un nipotino») seguace però non della Controriforma secentesca ma del sofista Gorgia elogiatore nell’Encomio di Elena della parola come «potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile compie le opere più divine».
Divenne famoso nei media per la partecipazione al Gruppo 63 e alla Neoavanguardia, con Giuliani e Balestrini e Sanguineti e Pagliarani, ma considerarlo ancora per una foto commemorativa in questa divisa presto logora sarebbe riconoscerlo sotto mentite spoglie. Il che peraltro, nel senso iperletterario se non di letteratura assoluta da lui teorizzato, potrebbe anche soddisfare una sua mira artistica. Dei molti libri di Manganelli tornano facilmente alla memoria alcuni titoli ingegnosi: Hilarotragoedia, 1964; La Letteratura come menzogna, 1967; Agli dèi ulteriori, 1972; Lunario dell’orfano sannita, 1973; Centuria. Cento piccoli romanzi fiume, 1979; Angosce di stile, 1981; Dall’inferno, 1985; Laboriose inezie, 1986; Salons (in cui è raccolta la prosa vertiginosa sui fiori), 1987; Improvvisi per macchina da scrivere, 1989; La palude definitiva, 1991; Il presepio, 1992.
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Per Giorgio Manganelli la letteratura aveva «il rigore e l’arbitrarietà della cerimonia»; egli anzi la definiva in un famoso saggio «una pseudo teologia, in cui si celebra un intero universo, la sua fine e il suo inizio, i suoi riti e le sue gerarchie, i suoi esseri mortali e immortali».
Quando Manganelli scomparve il 28 maggio 1990, sembrò che non fosse morto per una malattia qualsiasi, ma per uno smarrimento definitivo nelle sue nere fantasticherie, in quella discesa agli inferi che aveva caratterizzato, sin dall’esordio nel 1964 con Hilarotragoedia, il suo viaggio nell’infinitezza letteraria.
La sua esistenza misteriosa e complicata, dietro un velo di apparente routine scandita dallo scrivere e dal leggere, accendeva il sospetto che nei suoi cassetti vi fossero carte segrete, una mappa privata composta di fogli nascosti, di criptografie, o addirittura di foto compromettenti (come suggeriva con amabile impertinenza Salvatore Silvano Nigro, critico a lui legato da una lunga amicizia). Dietro la maschera di un sedentario e pingue homme de lettres e lettore onnivoro si celavano episodi biografici talora tumultuosi, come il salvataggio in extremis da una fucilazione per rappresaglia durante la Resistenza grazie al padre del capo brigatista nero ucciso, che lo riconobbe tra i filopartigiani condannati al muro come uno stimato insegnante della figlia minore. Non meno avventurose furono a tratti le sue vicende private, da cui fiorirono nell’ambiente letterario aneddoti di scene da vaudeville di Feydeau o Labiche. Memorabile per la commistione di genio e sregolatezza divenne il rapporto con Alda Merini, come lui milanese d’origine e più giovane di nove anni, che nella piccola raccolta d’esordio La presenza di Orfeo lo mimetizzò nelle fattezze del sacro cantore mitologico e attribuì a se stessa quelle di Euridice.
Poteva esservi un gioco di edoardiani «fantasmi» in casa di Manganelli, e già l’improvvisa apparizione, all’indomani dei funerali celebrati alla fine del maggio 1990, di un corteo di amiche, depositarie di ignote pagine avute in consegna, suscitava un po’ di sconcerto in chi ritenesse esaustivo il materiale manoscritto dello scrittore. Di queste carte per così dire ufficiali la sua compagna Ebe Flamini, scomparsa nell’ottobre 1992, fece un dono, insieme a una biblioteca di diciottomila volumi, al Centro di Ricerca filologica istituito da Maria Corti all’Università di Pavia. Nessuno tuttavia giungeva allora a congetturare un’eredità letteraria di inediti, che per mole costituiva quasi un’altra opera, sussidiaria a quella pubblicata in vita e celata alla vista forse per apparire un giorno beffardamente postuma.
La menzogna e la cerimonialità, indispensabili al funzionamento dell’invenzione letteraria secondo il saggio teorico del 1967 su ricordato, sono state così testimoniate, perfino post mortem, dal loro enunciatore più categorico, che aveva rubato i primi trucchi del proprio funambolismo lessicale alla prosa barocca del gesuita Daniello Bartoli. Un dono del Manganelli defunto, giunto quasi dall’Ade poco dopo la sua scomparsa, consentì di percepire l’importanza di questa narrativa nascosta.
Il presepio, curato per Adelphi nel 1992 da Ebe Flamini, era stato scritto presumibilmente una quindicina di anni prima e poi sommerso da altre cartelle, altre cose. Preso dalla «sensazione di deperimento che coglie i vivi» nell’imminenza delle festività natalizie, costringendoli ad accumulare cibo e oggetti come viatico per il nuovo anno, Manganelli si scatenava in una vorticosa divagazione visionaria, in una «burla teologica», così definita per ossimoro, sulla scena primaria, rappresentata dal presepio, nella quale tradizione cristiana e fede identificano «l’inizio del Significato».
La palude definitiva, lasciata dall’autore sulla via della stampa e giunta a pubblicazione un anno prima del Presepio, catturava il lettore nei giri concentrici di un’angoscia trattenuta sull’orlo del delirio: Manganelli del resto aveva sperimentato a lungo i tormenti della psiche, finendo in cura a Roma dal celebre e junghiano Ernst Bernhard, frequentato anche da Bazlen, Zolla e Cristina Campo, Elena Croce, Fellini e altri. Il «buffone», cui egli pretendeva di assomigliare per la sua natura di prestigiatore di parole, era diventato pensoso e cupo, prigioniero di un ossessivo luogo della mente, «in cui era difficile entrare e impossibile uscire.
Il presepio ci riporta l’angoscia ilare e fantasiosa di Manganelli, il repertorio teatrale delle sue trovate, di acutezze e concettismi, al culmine dell’abilità verbale esercitata da scrittori del secondo Novecento. In un rovesciamento di prospettiva, la grotta del «pupo» divino, aperta ai pastori e agli angeli, è immaginata vaca al suo interno, quasi che la sacra famiglia in compagnia dei due umili animali fosse emersa da un cunicolo sotterraneo.
Le immagini della Natività, cui sono abbinati sentimenti di mitezza e candore, sembrano a Manganelli scaturire da un regno ombroso, dalle profondità misteriose della terra invece che dall’alto dei cieli. Come un provetto ipnotizzatore, conduce con le sue parole chi lo legga e ascolti dove egli vuole, al fondo di tutto, ai limiti di un abisso pauroso, restituendo poi il lettore al senso comune, con un lieve ghigno.
Il presepio non rappresenta soltanto un racconto esemplare dell’anima e della genialità mitografica di Manganelli sotto le specie moderne e tuttavia universali della «letteratura come menzogna», ma una chiave per accedere ai recessi più insondabili della sua prosa smagata, che per un eccesso di coscienza o forse per amore della propria privacy narrativa abbandonò o nascose in un cassetto.
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Immagine di copertina
Bartolomé Esteban Murillo, L’adorazione dei pastori, 1668 circa, olio su tela, Wallace Collection, Londra (Wikimedia Commons)
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Rolando Damiani ha insegnato dal 1975 all’università di Padova e poi di Venezia, dove è ora Senior Researcher. Ha curato nella collana dei Meridiani l’opera di Leopardi e pubblicato pure per Mondadori la biografia All’apparir del vero (tradotta all’estero) e un Album Leopardi. Nei Meridiani sono anche uscite a sua cura le Opere di Comisso e di Arpino. Ha tradotto per Bompiani e per Adelphi, curando in particolare per la prima Lo spirito di perfezione di Georges Roditi e per la collana della Biblioteca Adelphi gli Scritti di Rodez di Antonin Artaud, stampati nel 2017. Ha svolto per molti anni un’intensa attività pubblicistica, con articoli e ampie interviste a personalità anche di spicco della cultura internazionale, come ad esempio Jacques Derrida, John Cage, Karlheinz Stockhausen, o Mario Luzi o Harold Bloom o Adonis. Vari suoi studi di critica letteraria sono raccolti in sei volumi, editi dal 1987 al presente.
In questi giorni è uscito presso Mimesis il suo libro Barbarie e civiltà nella concezione di Leopardi.
È socio ordinario dell’Accademia Olimpica fondata nel 1555 da Palladio ed altri.
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