L’isola di Prometeo – Festival Luigi Nono alla Giudecca
(terza parte)
La prima parte del reportage dedicato al Festival Luigi Nono alla Giudecca – pubblicata il 2 dicembre scorso – ha ospitato i testi di Gualtiero Bertelli e di Roberto Ellero, con le testimonianze di Luigi Nono e di Leonardo Pinzauti. Nella seconda parte abbiamo presentato il saggio di Massimo Donà «QUASI DEL NULLA ASCOLTARE. Luigi Nono, la musica e l’origine», un testo importante molto apprezzato dai lettori. Concludiamo ora la terza ed ultima parte del reportage, con i testi di Pietro Ingrao e di Giuliano Scabia dedicati all’amico LUIGI NONO, affiancati dalle testimonianze di Massimo Cacciari, Massimo Mila, Alvise Vidolin e Giovanni Morelli.
* Si ringraziano per le foto Serena Nono e l’Archivio Fondazione Luigi Nono Onlus
Con la prima edizione del Festival Luigi Nono, dal 5 al 9 ottobre, la Giudecca (micro-arcipelago insulare nel più grande arcipelago di Venezia) ha orgogliosamente aperto la sua innata radicalità vitale e popolare, non solo del rilancio turistico-abitativo degli ultimissimi anni, nel nome del suo più autentico e noto cittadino nel mondo, con tutto il valore civico e civile di questo attributo: Luigi Nono musicista, quel Gigi familiare, «della porta accanto» per tutti i «giudecchini», che alla storia del mondo intero ha lasciato musiche e passioni civili fra le più riconoscibili, riconosciute e vive nella cultura del secondo dopoguerra. Una gran quantità di eventi che hanno visto la corale orchestrazione di concerti, dibattiti, film, presentazione di libri e spettacoli ispirati al pensiero e all’opera del compositore veneziano che ha fatto dell’Ascolto una sorta di rinnovato archetipo linguistico e sonoro del nostro tempo, ad opera dell’Archivio Luigi Nono, vero scrigno e caveau del lascito culturale ed artistico del compositore, fra i maggiori enti di ricerca archivistici del panorama internazionale, che da oltre un ventennio opera nell’isola grazie alla coraggiosa determinazione della moglie del compositore Nuria Schoenberg Nono e delle figlie, Serena e Silvia.
Un’appartenenza, quella di Luigi Nono alla Giudecca e a Venezia, che va ben oltre il solo radicamento, il fare ed esserne parte di un artista-intellettuale al suo luogo, come ha lucidamente puntualizzato Massimo Cacciari nella tavola rotonda di apertura, antiretorica dell’imperante esaltazione postmoderna dominante nella cultura di questi anni che invece esalta proprio la non-località e la non appartenenza in quanto anestetico culturale e civile. In questo, Luigi Nono compositore veneziano è un monito, sempre scomodo nella rassicurante indifferenza tecnocratica dei nostri anni, anche per la vita civica di una Venezia e di un mondo disilluso quanto disumanizzante. (Nicola Cisternino)
«LUIGI NONO»
di Pietro Ingrao1
Sono stato molto amico di Luigi Nono. Non so dire con precisione quando quella nostra amicizia iniziò, ma ricordo nitidamente che presto essa divenne intensa e appassionata.
Gigi era parecchio più giovane di me, ma si era messo in cammino per il mondo presto, e viveva quella sua scoperta del secolo in modo intenso, irrequieto: come fosse sospinto da un forte, persino febbrile sete di conoscenza, che lo condusse presto fuori d’Italia a cercare incontri e comunicazione con le ricerche espressive e le aspre passioni ideali che avevano sconvolto il nostro secolo, scatenato guerre di religione (le chiamerei così), e stragi e lutti pesanti.
A me la musica dava molta emozione, ma davvero ne sapevo poco: nella mia adolescenza – in un paese della Campania, a un passo da Napoli – mio padre mi aveva mandato a scuola di musica a studiare violino. A me invece piacevano molto il timbro e le risonanze del pianoforte e quindi quella mia educazione musicale adolescenziale era presto fallita. Ma l’emozione che mi davano l’incontro e l’incastro dei suoni era grande. E tuttavia non fu proprio la musica che ci avvicinò. Gigi sentiva, viveva intensamente l’urto sociale che allora scuoteva l’Europa: si iscrisse presto al Partito Comunista e soprattutto si portava dentro una passione calda per le lotte di liberazione che allora scuotevano il globo: presto si era incontrato con le ardenti passioni sociali e la ricerca, le sperimentazioni di nuovi linguaggi che agitavano l’Europa e il pensiero delle avanguardie che aveva conosciuto prima di tutto in Germania. Ricordo nitidamente i miei incontri con lui e con la splendida giovinezza di Nuria Schoenberg, in quella sua singolare casa di Venezia alla Giudecca, e anche le discussioni di gruppo che s’accendevano in quelle stanze, in quel lembo singolare e silente – almeno a me così sembrava – nel cuore della laguna.
Facevamo gruppo, e dopo i dialoghi e anche le polemiche in casa, si finiva a mangiare in una gargotta da nulla e attorno a quei tavoli rustici tornavano il confronto e la domanda. Io ascoltavo avidamente quelle riflessioni perentorie e insieme dubitanti sulle correnti ideali o le ricerche espressive che avevano segnato il primo mezzo secolo. E già Ungaretti e Stravinskij ci sembravano lontani.
Gigi era generoso; e in quei nostri incontri cercava di farmi partecipe delle invenzioni ed esplorazioni che veniva conducendo prima di tutto con i suoi amici di scuola tedesca. Era paziente nell’aiutarmi ad afferrare le invenzioni sonore a cui lavorava, interrogandosi prima di tutto sulle rivolte, le insorgenze, le guerre di liberazione che divampavano nel globo, appena a pochissima distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale. Ricordo l’emozione che ci diede quella sua opera che era tratta da un libro che fu il simbolo indimenticato per tanti di noi: «Le lettere di condannati a morte della Resistenza europea».
E l’incanto, il fascino per me di quegli incontri non era solo nelle letture del mio secolo: mi sembrava che Gigi si misurasse con un interrogativo più vasto che era l’intrico fra la parola ed il suono: le rivelazioni che sgorgavano da quell’incontro. E naturalmente qui si incontravano i grandi, le avanguardie geniali che in Occidente avevano rivoluzionato la sintassi della parola, quel suo segreto intreccio tra il significato lessicale e l’inaudito della sonorità.
E così nella mia confusa e limitata formazione culturale, a strappi afferravo come tornava, nei suoi incontri e dialoghi con la cultura mondiale, tutta la densità e articolazione delle avanguardie del primo Novecento: da Schoenberg a Piscator, da Malipiero a Machado. E, nella mia rozzezza, afferravo – così mi sembra – che Gigi conduceva un discorso che scavalcava anche tanta parte delle avanguardie del Novecento: alludeva a un oltre.
Ricordo un brano di una sua intervista che rievocava il viaggio che lo aveva portato al nord della Groenlandia. Lo racconta così: «Sono andato verso la parte più a nord della Groenlandia con una piccola nave che portava pochi e solitari passeggeri. Per dieci giorni abbiamo navigato fra iceberg enormi, di fronte al grande ghiacciaio che si prolungava dal Polo Nord». E continua: «Le notti erano quasi luminose come il giorno e quando i soli passeggeri andavano a dormire me ne restavo finalmente in silenzio davanti al mare, ai suoi colori e alla Stella Polare. Quel mare così particolare non era né gelido, né oscuro, ma una trasformazione continua tra colori indescrivibili filtrati fra le nubi, tra gli iceberg. Altro di indimenticabile: i suoni, le esplosioni violentissime che si udivano quando dai ghiacci si staccavano, spezzandosi, gli iceberg. Sarà un puro caso, ma mi ero portata dietro la partitura di Arcana di Varèse per studiarla ancora, e mi trovai così a sentirla nella violenza della natura».
E raccontando di una visita alla Tate Gallery di Londra e degli stupori degli ultimi Turner ne parla così: «Sono dei vortici di luce, ma non dei vortici nei quali ti senti preso; al contrario ti senti diventare un vortice tu stesso… Fu Mila a parlarmene, consigliandomi di andare sull’Himalaya per sentirli ed amarli, quei vortici, non il soffiare del vento ma un vortice di colori e di suoni gli uni con gli altri. Sono vortici silenziosi dai quali scaturisce il suono con una violenza inaudita e inudibile».
E ancora: «Continuo ad andarci (alla Basilica di San Marco) per ascoltare i vari suoni interni ed esterni che vibrano in quello spazio…».
«Ti senti come sugli abissi del mare, e oltre i sette cieli in una dimensione continuamente variabile, totalmente inattesa. E i piedi sono su questa terra. Oppure in aria?».
Forse mi sbaglio: ma a me sembra che in queste parole si alluda alla varianza inventiva del suono, e a ciò che di inedito e inatteso è nella modulazione delle cadenze, nell’intreccio delle onde sonore. Posso sbagliare: ma a me sembra che in queste parole stia tutto l’inatteso e il segreto del suono: l’intreccio e l’indefinito delle sue carni.
Ne traevo dentro di me – sperando di afferrarlo – l’inaudito dell’intreccio di risonanze, la sua inventività o il suo possibile potenziale di rivelazione, di scoperta. La musica è questo viaggio verso l’Artide? Anzi: verso il disvelamento del sepolto del suono, del suo incontrarsi e allontanarsi o fondersi? Non so dire, non sono sicuro.
Di certo quello che mi è parso di afferrare – in quell’ascolto di Nono – è l’inedito, il sepolto, la varianza intima del suono e dell’esperienza umana che esso suscita, o a cui allude. Dunque un’esplorazione e anche un’invenzione: continuo scavalcamento di confini. Ma anche invenzione indelimitabile.
Dove comincia e finisce l’invenzione musicale? Dove tocca il suo apice o esita, dubita?
Queste domande confuse sul cammino vitale (stavo per dire: quell’esperire umano) evoca – nel mio ricordo – l’esplorazione inventiva di Gigi Nono.
La musica come invenzione e scoperta!
Pietro Ingrao
© riproduzione riservata
1 In : Al gran sole carico d’amore. Omaggio a Luigi Nono, Ed. Colophon, Belluno 2007 (per gentile concessione)
DAL DIARIO ITALIANO ALLA FABBRICA ILLUMINATA
di Giuliano Scabia
Al tempo in cui gli artisti (alcuni artisti) pensavano di poter cambiare il mondo, nel 1961, ho conosciuto il compositore Luigi Nono nell’intervallo dell’opera Intolleranza 60, sulla scalinata della Fenice, mentre in sala avevamo appena sedato la contestazione allo spettacolo condotta dai giovani fascisti.
Eravamo elettrizzati.
Cominciò così un sodalizio forte, di grande apprendistato per me, un dialogo fitto sulla forma dell’opera in musica e sull’impegno politico, ripercorrendo e riscoprendo le suggestioni e gli insegnamenti delle avanguardie, dai cubofuturisti sovietici al Bauhaus – alla ricerca di un uso totale dello spazio e del tempo narrativo musicale. Nono, attraverso continui ripensamenti, prove, aperture si muoveva con la sicurezza dubbiosa di un maestro sempre in ascolto, attento a tutte le proposte e suggestioni – e sempre con grandiosità antico veneziana, per campate di colore, luce, suono, visione.
Fu chiacchierando e discutendo che nacque a partire dal 1962/63 l’idea del Diario italiano. Nono aveva già composto il Diario polacco (1958: Composizione per orchestra n.2) e adesso voleva cimentarsi con la realtà italiana. Piano piano capivo la novità della forma musicale «diario», da lui inventata. Cominciò a prendere forma l’opera, soprattutto dopo un gran dialogo notturno con Ghiringhelli, sovrintendente alla Scala, che ci commissionò il lavoro con dubbi e reticenze, ma anche con entusiasmo. Nono voleva grandi scene di materiali linguistici intrecciati che chiamavamo situazioni (dal teatro di situazioni di Sartre) – e ogni situazione era il graffito finestra su un momento/episodio della storia italiana presente. La prima situazione si chiamava «Sentendo le voci del popolo uno ascolta e impara», ed era composta con parole raccolte dalla voce di scioperanti a Palermo e da frammenti di interviste a operai Fiat pubblicate su «Nuovi Argomenti», intrecciati con strofe di mie poesie per i personaggi delle cinque donne; la seconda, «Sentire il mattino che vibra tutto vergine», raccontava amore e sogno incubo delle cinque donne, un uomo e coro di tenori; la terza «Siamo come le pietre gettate nel pozzo», ancora Fiat Palermo e cinque donne; la quarta «Correndo risalire vivere» per soli donne e coro di bambini mostrava la forza rigeneratrice della vita nuova; la quinta, «È stato un massacro/è tempo di imparare», era fatta di parole raccolte a Longarone il giorno dopo la catastrofe del Vajont, per coro; la sesta, «E questa ondata di collera furente», per cinque donne e grande coro di voci, riprendeva e concludeva i temi Fiat e Palermo; e c’era un finale, liricissimo, per le cinque donne sole, senza strumenti.
Purtroppo la Scala rifiutò il Diario italiano per la durezza del testo. Intanto si era fatta avanti la Rai (col premio Italia) in collaborazione con l’Italsider, che commissionò a Nono una cantata. Nono sviluppò un frammento della prima situazione del Diario, quello dove cantano le cinque donne, e ne fece una versione per voce sola (soprano – la grande Carla Henius) e nastro magnetico. Il materiale sonoro fu raccolto lungo il laminatoio a caldo e a freddo e gli altiforni dell’Italsider di Genova Cornigliano da Marino Zuccheri, con Nono e con me. Trascrissi tutte le scritte che incontrammo sul percorso (lo ricordo come un viaggio agli inferi, inquietante e sacro), e le parole udite. Quello (suoni/rumori e parole) fu il materiale di base per la composizione – e, mi pare, la sua struttura e forma. Il testo iniziale parlava della condizione di sogno/incubo di un’operaia che non incontra il marito perché lavorano in turni opposti (notte/giorno), e anche degli assassinii compiuti dai comunisti contro compagni comunisti, e accennava al suicidio di Majakovskij. Era la critica alla propria sinistra, in quegli anni molto timida dentro il Partito Comunista, che nel ’56 non aveva avuto dubbi a condannare l’insurrezione di Budapest e approvare la fucilazione di Maléter e Nagy. Nono però tolse questa parte (eravamo d’accordo che il testo definitivo sarebbe stato quello della musica) – e me ne dispiacque. Fu uno dei motivi che cominciarono a provocare il nostro allontanamento – anche se mai ho smesso di ammirare e ascoltare la sua musica, la sua maestria.
La fabbrica illuminata fu una specie di manifesto politico musicale – e suscitò un gran dibattito (ancora in atto, credo). Mi parve un’opera sul «margine» della musica – un po’ più in là e si era fuori (Nono poi si spinse anche oltre con Non consumiamo Marx e Contrappunto dialettico alla mente). Avemmo difese strenue e attacchi spietati. Nono era molto contento perché aveva messo in moto una gran discussione, anche dentro la sinistra. Alla prima alla Fenice, al Festival di Musica Contemporanea della Biennale (il 15 settembre 1964) ricordo Mario Labroca (che aveva invitato l’opera dopo il rifiuto dell’Italsider di darla a Genova), Dorigo, Sartre con Simone de Beauvoir, Calvino, Sanguineti, Manzoni, Rossana Rossanda, un gruppo di operai dell’Italsider, un Massimo Cacciari giovanissimo, i De Michelis (anche loro giovanissimi), Mittner, Baratto, Franca Trentin, Bortolotto, Clementi, Mila, i fratelli Messinis (un po’ perplessi), Turolla, Buzzati, Pestalozza, Piovene, Maderna, Vittorio Basaglia, Pizzinato, Vedova, Gianquinto, Eulisse – e tantissimi giovani, quelli che erano allora la Venezia vivissima e politicizzatissima, da Paladini a Gambier e Camerino, da Tonini alle sorelle Dalla Chiara – e poi quasi tutti i politici e i sindacalisti, da Chinello a Granziera, da Federici a Vianello e Battain e Pellicani – e tanti, tantissimi altri.
Quando siamo stati a Genova per le registrazioni nella fabbrica (illuminata) abbiamo incontrato anche i gruppuscoli di estrema sinistra che si stavano formando. Alcuni di quelli poi entrarono nella lotta armata – ci aveva colpito, dialogando, il loro dogmatismo. Genova, soprattutto dopo i fatti di luglio 1960 era un vulcano in ebollizione. Gli operai erano una forza potente, una passione. Nono, mentre scrivevamo il Diario italiano, un giorno mi aveva detto: «Bach ha musicato la Passione di san Matteo, io la passione della classe operaia».
Con Zuccheri, istriano di Lussino, grande cercatore di cape longhe, andavamo a nuotare a Bogliasco e poi a mangiare il pesce – c’era quel mare e quel groviglio di Genova operaia che portò più tardi all’assassinio di Guido Rossa. La passione.
Forse anche per quel mare, e per un bisogno di serenità dopo l’incubo del laminatoio a caldo, e la passione delle notti senza sonno, Nono sentì la necessità di chiudere La fabbrica illuminata con la voce di Carla Henius che cantava roca i versi di Pavese:
Passeranno i mattini
passeranno le angosce
non sarà così sempre
ritroverai qualcosa.
Giuliano Scabia
© riproduzione riservata
FESTIVAL LUIGI NONO 2017
L’ISOLA DI PROMETEO (3° parte)
«Perché Nono è sempre affascinato da Venezia? Perché è l’opposto di questa cartolinesca immagine decrepita di Venezia che circola in questa decrepita Europa. Cioè la Venezia come luogo dell’armonia in cui tutto si ritrova e si incontra mentre invece è tutto l’opposto, ci sono contrasti violentissimi, lancinanti, che avverte il grande artista, che però avverte chi ama Venezia. Colui che ne avverte tutta la ‘distanza’, anche della situazione della città europea contemporanea. Questo ne è perfettamente un esempio. Nono ha studiato come pochissimi altri lo spazio veneziano ed ha capito come si ascolta. Lui dice che va alla Salute o a S. Marco e non le vede, ma le ascolta. […] Gigi Nono è veramente veneziano non perché sente l’armonia, ma perché ne sente la dissonanza, e la sua opera cerca, e qui sta la quadratura del circolo diremo, ed è il problema del Prometeo, cerca di dare forma alla dissonanza. Perché è facile dare forma a ciò che si abbraccia e forma l’uno; è facile ripetere la dissonanza delle cose che dissonano, ma è molto difficile dare forma alle dissonanze. E questo è il grande problema dell’ Avanguardia del Novecento». (Massimo Cacciari)
«Forse non si trova in nessun campo un esempio di metamorfosi così sensazionale come quella compiuta da Nono nell’ultima decina d’anni. Al confronto, la famosa ‘convergenza’ di Stravinskij verso la serialità e la dodecafonia sembra roba da ridere: sotto molti aspetti, era uno sbocco inevitabile e predeterminato. Ma Nono? Che cosa ha visto?
La sua arte aveva sempre tenuto i piedi saldamente poggiati sulla realtà, ora la vediamo involarsi verso le misteriose altezze del mito.
Era stato un indomito combattente delle lotte per la libertà e la giustizia sociale, un paladino dei popoli dei popoli oppressi, un cavaliere errante nella difesa dei diritti conculcati dalle dittature, un celebratore di vittime dei tiranni e di eroi delle insurrezioni. La sua arte si accompagnava agli esclusi, ai reclusi, ai reietti del Terzo Mondo e alla miseria e al sottoproletariato.
Avevamo dovuto spendere molti ragionamenti per spiegare a critici e politologi, scandalizzati dalle posizioni di Intolleranza 1960 e di Al gran sole carico d’amore, che l’ideologia non conta niente nei risultati artistici. È semplice materiale che viene usato come qualsiasi altro: religione, patriottismo, amore, fiori, stelle, albe, tramonti, famiglia, vizi e virtù, stranezze, perversioni, compiacimenti stilistici e storicismo, tutto, insomma, che nutra la mente e muova il cuore dell’artista. Carbone, che si getta nel forno per alimentare la fiamma. Questo è quello che conta, non il combustibile usato per accenderla. Importante è che la fiamma sia bella e robusta; il combustibile sparisce.
Ci avevano risposto a denti stretti che, sì, ‘sul piano crociano’ avevamo ragione, ma…
E non ci avevano spiegato su quale piano avessimo torto. […]». (Massimo Mila, Dove vai Gigi?, 1987)
[…] Ma in verità bisogna dire che la nuova patria di Nono musicista è il Suono. Non più armonia, non più contrappunto (anche se la presenza di suoni contemporanei è frequentissima, quasi costante). Questi parametri della musica sono stati cancellati. Il Suono, coi suoi misteri, con la sua vita segreta, è il terreno e il campo della musica di Nono a partire da Prometeo. […]». (Massimo Mila, 1988)
«[…] L’idea dello spazio di Nono, più che la rotazione , il cambio di velocità, il vagare tra destra e sinistra, da effetto speciale, è invece il discorso Lontano/vicino. Questa è l’idea di spazio. Di un suono che è mobile e che può essere lontanissimo e dopo ti torna, ti raggiunge, con questi avvicinamenti. Lui mi diceva spesso: “ quando si fanno i crescendi non devi mai realizzare una diagonale regolare a 45 gradi; si fa come quando si va in montagna, si fa una piccola salita e poi ti fermi, poi fai un’altra rampa, e ti fermi, poi riprendi la salita per curve, e questo ti dà veramente il respiro per salire. […] Quando nelle partiture lui scrive Eco lontano è quasi il ricordo di quel che è successo, però il ricordo è già un’elaborazione di quello che hai ascoltato…». (Alvise Vidolin)
«[…] Dalla relazione fra la creazione dell’ultima compiuta opera musicale di Nono – 2°) No hay caminos, hay que caminar… Andrej Tarkovskij , 1987 e l’ultima opera di Andrej Tarkovskij (Sacrificatio 1986) sorge un nuovo ambito, sensibilmente tragico, di dinamizzazione della condivisione di una esperienza artistica ‘finale ‘ e di una dedica auto-espressiva al sacrificio-martirio, non più ricercato nella distanza storica attraverso le figure sante dei vinti dell’oppressione, ma consumato dagli autori, dai poeti, in prima persona attraverso la sparizione dei sé all’interno della propria opera. Nono ha ‘letto’ direttamente il film di Tarkovskij in una misura integrale di condivisione del tema del sacrificio. Dell’annullamento della propria identità nell’atto di implorazione di un nuovo assoluto. Della rivelazione del ‘peccato come forma di ciò che non è necessario’. Della rappresentazione ‘eccessiva’ della rinuncia a tutti i valori linguistici e comunicativi data sacrificalmente in cambio di una promessa di una salvezza (per gli altri), di una sopravvivenza (per gli altri) di quei valori stessi, di parola, di comunicazione, di gioia, immolati al fine di non perderli». (Giovanni Morelli)
Note biografiche
Pietro Ingrao (1915-2015), laureato in giurisprudenza e in lettere e filosofia, partigiano, è stato uno degli esponenti di spicco del Partito Comunista Italiano, direttore de L’Unità e Presidente della Camera. Uomo di cultura, saggista scrittore e poeta, si è sempre ispirato ai valori di libertà e giustizia, prendendo spesso posizione all’interno dei partiti in cui ha militato in dissenso con la linea ufficiale. È stato amico di Luigi Nono e di molti altri artisti e intellettuali italiani.
Giuliano Scabia (Padova, 1935), poeta (Padrone & Servo, Il poeta albero, Opera della notte, Canti del guardare lontano, Canti brevi), drammaturgo (All’improvviso & Zip, Fantastica visione, Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno, Il Diavolo e il suo Angelo, Teatro con bosco e animali, Visioni di Gesù con Afrodite), guida di azioni teatrali (Azioni di decentramento, Il Gorilla Quadrumàno, Marco Cavallo, Dialoghi di paesi), narratore (Marco cavallo, Lettere a un lupo, Nane Oca, Le foreste sorelle, Nane Oca rivelato, Lorenzo e Cecilia, L’azione perfetta) è stato uno degli iniziatori de Nuovo Teatro. Per trent’anni ha insegnato drammaturgia al DAMS di Bologna.
Massimo Cacciari (Venezia, 1944) filosofo di fama, docente di Estetica presso l’Istituto di Architettura di Venezia, fondatore e preside della Facoltà di Filosofia Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, è stato fedele compagno di strada di Luigi Nono col quale ha umanamente, artisticamente e intellettualmente condiviso gran parte della sua vita, dal Das Atmende Klersein (1981) a Guai ai Gelidi mostri (1983) a Prometeo. Tragedia dell’ascolto (1984) di cui ha realizzato i testi. Del 1986 è la composizione di Luigi Nono a lui dedicata: Risonanze erranti, Liederzyklus a Massimo Cacciari.
Massimo Mila (Torino 1910-1988) intellettuale antifascista, considerato fra i più importanti musicologi italiani ed europei del secondo dopoguerra, ha dedicato molti studi e ricerche alla Nuova musica. Docente di Storia della Musica presso il Conservatorio G. Verdi e presso l’Università di Torino, è stato critico musicale per L’Unità, L’Espresso-Repubblica e La Stampa. Di Luigi Nono ha seguito fin dal debutto l’intera parabola artistica intrecciando con lui un fitto dialogo culturale il cui carteggio è stato raccolto nel volume Nulla di oscuro tra noi (a cura di Angela Ida Benedictis e Veniero Rizzardi) edito da Il Saggiatore.
Alvise Vidolin (Padova, 1949) musicista e ingegnere del suono fra i maggiori della scena musicale contemporanea, docente di Musica Elettronica presso il Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, ha lungamente collaborato creativamente con Luigi Nono nella sua fase di produzione matura con il Live electronics dalla fine degli anni settanta, dal Prometeo. Tragedia dell’ascolto a tutte le creazioni degli anni ottanta del compositore.
Giovani Morelli (Faenza 1942-Venezia 2011) musicologo di fama, autore di saggi e studi sul Seicento e Settecento veneziano e sul Novecento musicale è stato docente presso l’Università Ca’ Foscari e direttore dell’Istituto per la Musica della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Molto vicino a Luigi Nono dalla fine degli anni settanta, ne ha seguito, con letture critiche significative e innovative, l’intera parabola creativa degli anni ottanta.
© finnegans. Tutti i diritti riservati
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.