L’isola di Prometeo – Festival Luigi Nono alla Giudecca (prima parte)
La rivista «Finnegans – cultura mediterranea», ricordando il compositore Luigi Nono in occasione del Festival Luigi Nono alla Giudecca dell’ottobre scorso, vuole rendergli omaggio presentando alcune testimonianze di amici che l’hanno conosciuto e frequentato, che hanno amato e condiviso i suoi percorsi umani ed artistici e che hanno offerto il loro contributo alla conoscenza e alla divulgazione delle sue opere. Il reportage è suddiviso in due parti, la prima delle quali ospita i contributi di Gualtiero Bertelli e di Roberto Ellero, intervallati da due citazioni, dello stesso Luigi Nono e di Leonardo Pinzauti. La seconda, che uscirà a breve, vedrà invece i contributi di Roberto Calabretto, Veniero Rizzardi e Massimo Donà, con citazioni di Massimo Mila, Massimo Cacciari, Alvise Vidolin e Giovanni Morelli.
* Si ringraziano per le foto Serena Nono e l’Archivio Fondazione Luigi Nono Onlus
Nono e Venezia
«[…] Venezia, dalla parte della Giudecca, da San Giorgio, dallo specchio d’acqua del bacino di San Marco, verso le sette del venerdì, è una bellissima scena sonora, una vera magia: quando suonano dai campanili le campane per battere qualche antico segnale religioso (vespri, Angelus) a quei suoni si sovrappongono i riverberi, gli echi, cosicché non si capisce più da quale campanile giunga il primo suono, come e dove si infittiscono gli scambi dei suoni in tutte le direzioni sulla superficie riflettente dell’acqua. È una risposta naturale e ambientale felice alla violenza dell’inquinamento dello spazio sonoro». (Luigi Nono)
«[…] Venezia è un sistema complesso che offre esattamente quell’ascolto pluridirezionale di cui si diceva… I suoni delle campane si diffondono in varie direzioni: alcuni si sommano, vengono trasportati dall’acqua, trasmessi dai canali… altri svaniscono quasi completamente, altri si rapportano in vario modo ad altri segnali della laguna e della città stessa. Venezia è un multiverso acustico assolutamente contrario al sistema egemone di trasmissione e di ascolto del suono a cui siamo abituati da secoli. Ma la vita quotidiana, nella sua dimensione più «naturale», conserva possibilità contraddicenti la nostra percezione più consapevole, la quale ha scelto soltanto alcune dimensioni fondamentali trascurando tutte le altre. Epperò ciò significa anche che, mentre si va all’opera o al concerto idolatrando quelle uniche condizioni e dimensioni di ascolto, nello stesso tempo naturalmente si continua l’esperienza di quell’altro multiverso… Si tratta allora quasi di un’urgenza di risveglio a questa maggiore ricchezza “naturale”…». (Luigi Nono)
Con la prima edizione del Festival Luigi Nono, dal 5 al 9 ottobre, la Giudecca (micro-arcipelago insulare nel più grande arcipelago di Venezia) ha orgogliosamente aperto la sua innata radicalità vitale e popolare, non solo del rilancio turistico-abitativo degli ultimissimi anni, nel nome del suo più autentico e noto cittadino nel mondo, con tutto il valore civico e civile di questo attributo: Luigi Nono musicista, quel Gigi familiare, «della porta accanto» per tutti i «giudecchini», che alla storia del mondo intero ha lasciato musiche e passioni civili fra le più riconoscibili, riconosciute e vive nella cultura del secondo dopoguerra. Una gran quantità di eventi che hanno visto la corale orchestrazione di concerti, dibattiti, film, presentazione di libri e spettacoli ispirati al pensiero e all’opera del compositore che ha fatto dell’Ascolto veneziano una sorta di rinnovato archetipo linguistico e sonoro del nostro tempo, ad opera dell’Archivio Luigi Nono, vero scrigno e caveau del lascito culturale ed artistico del compositore, fra i maggiori enti di ricerca archivistici del panorama internazionale, che da oltre un ventennio opera nell’isola grazie alla coraggiosa determinazione della moglie del compositore Nuria Schoenberg Nono e delle figlie, Serena e Silvia.
Un’appartenenza, quella di Luigi Nono alla Giudecca e a Venezia, che va ben oltre il solo radicamento, il fare ed esserne parte di un artista-intellettuale al suo luogo, come ha lucidamente puntualizzato Massimo Cacciari nella tavola rotonda di apertura, antiretorica dell’imperante esaltazione postmoderna dominante nella cultura di questi anni che invece esalta proprio la non-località e la non appartenenza in quanto anestetico culturale e civile. In questo Luigi Nono compositore veneziano è un monito, sempre scomodo nella rassicurante indifferenza tecnocratica dei nostri anni, anche per la vita civica di una Venezia e di un mondo disilluso quanto disumanizzante. (Nicola Cisternino)
Gigi
di Gualtiero Bertelli
Per tutti noi era Gigi, soltanto Gigi, ed era già molto. Tutto per noi: compagni della sezione comunista della Giudecca, giovani alla ventura in un mondo in ebollizione, maturi padri di famiglia innamorati delle romanze di Tosca, Traviata, per non dire di «Va pensiero». Un sussulto forte al cuore. Ma Gigi non si tocca. Quella era LA Musica, questa è LA musica di GIGI. E se non capiamo niente è perché siamo bloccati, fissati… e «no gavemo studià»!
«Ma non è difficile, è solo diversa, naturalmente diversa» spiegava Gigi con quel filo di voce che non si alterava mai. «Ci sono cento e passa anni in mezzo, il mondo è cambiato, il modo di produrre è cambiato, anche i suoni. Bisogna narrare questi giorni con i suoni di questi giorni».
Sacrosanto! Complicato, ma vero! È la Musica di Gigi.
La fabbrica illuminata, 1964. La Fenice è piena e tra facce che sembrano nate nel foyer del Gran Teatro emergono occhi che scrutano ogni angolo, ogni drappo di raso, ogni viso. Non sono sperduti, per nulla. Ma attenti ad ogni segnale, ad ogni parola come se dovessero vigilare. Li ha invitati lui. «Venite a sentire e poi ne parliamo» e sono venuti dalla Giudecca fino al cuore della città, là dove forse qualche volta dal loggione hanno applaudito o fischiato questo o quel tenore, questo o quell’acuto a piena gola. Forse, ma certamente non tutti. Ora sono qui, siamo qui per sentire e cercar di capire la musica di Gigi.
Non ricordo esattamente dove e in che occasione l’ho incontrato per la prima volta. Era sicuramente il 1961, la Venezia intellettuale e studentesca di sinistra (si diceva «democratica» allora) si riprendeva con una certa angoscia dai fatti di Genova e di Reggio Emilia del 1960 e si muoveva compatta contro ogni nostalgia neo-fascista. Nascevano gruppi, associazioni, riviste. Si esponevano intellettuali di tutto lo schieramento antifascista. Dare l’esempio, questa la ragione di ogni presenza, di ogni iniziativa.
Gigi era sempre presente. Magari tra un viaggio e l’altro, tra una prima e il lungo, combattuto lavoro tra suoni e nastri, voci e parole da soppesare una alla volta con metodologico dubbio. Questo mi ha trasmesso Gigi con le sue poche parole e la grande pratica di relazione: nessuna soluzione è «la soluzione», nessuna scelta si può sottrarre al rigore della critica, né oggi, né mai. Si vive come in barca, con i piedi ben fermi sul fondo, ma fronteggiando onde e venti che continuamente mettono alla prova tanta fermezza.
Non l’ho mai visto perdere la calma Gigi, o almeno quella che appariva essere la calma. Non ha alzato il tono della sua voce neanche quando nella pizzeria di campo San Fantin, ai piedi della scalinata della Fenice, si è mostrato infastidito dal comportamento a dir poco evasivo dell’«ambasciatore della cultura sovietica», il poeta Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, visibilmente alterato da eccessive libagioni e da distrazioni di altra natura.
Siamo ai tempi dello scontro su Cuba per il tentato sbarco nella Baia dei porci e, successivamente, per la crisi dei missili sovietici da collocare nell’isola, che portò il mondo a pochi passi da uno scontro tra superpotenze. Ovunque si organizzarono manifestazioni per l’indipendenza di Cuba e contro la guerra. Anche a Venezia con partenza da Campo San Bortolomio e sbocco in Piazza San Marco. Qualche centinaio di studenti, insegnanti, intellettuali e immancabili «compagni della Giudecca». In testa al corteo Gigi e Emilio Vedova. Percorsa tutta Calle Larga San Marco, ad ormai pochi passi dalla grande Piazza, il passaggio viene sbarrato dalla polizia in assetto anti-sommossa, dal vice-questore con fascia tricolore e da un trombettiere. Qualche parola rituale e poi la tromba suona la carica. Il primo ad essere colpito in zona occipitale è Gigi che trattiene con un fazzoletto il sangue. Poi botte a destra e a manca.
Sono state usate tutte le parole della lingua italiana per elogiare o denigrare l’opera di Luigi Nono. Ma di Gigi forse non si è mai parlato o lo si è fatto troppo poco, come se fosse scindibile la sua opera dall’impegno profuso sul campo in tutte le stagioni della sua vita; dall’attenzione per questo lembo di Venezia così arrancante ed altrettanto fermo nei suoi valori; dall’affetto che quella gente gli ha sempre attribuito.
Basta questo a spiegare perché un Festival per Gigi e la sua Giudecca. È stato come ricostruire nella sua casa la sua storia tutta intera, riportare tra questi luoghi a volte irriconoscibili la sua musica, la sua voce, la sua umana presenza.
Nei miei confronti ha manifestato sempre molta attenzione, tanto per il mio lavoro di insegnante quanto per l’attività di autore e interprete di canti. Devo a lui il primo incontro con Sergio Liberovici e Margot, tra i fondatori e attivissimi protagonisti di Cantacronache, nel 1964 quando feci loro ascoltare la mia prima canzone «impegnata». Mi disse «Vieni domani mattina alle undici a casa mia con la fisarmonica», senza aver neanche idea di cosa avessi scritto poiché gliene avevo solo parlato. Ma faceva parte della sua natura manifestare concretamente disponibilità e fiducia verso il prossimo, specie se l’altro era un giovane che cercava un suo percorso. Da allora in poi le nostre strade si sono incrociate sempre più spesso. Nel 1969 ha pubblicato con I Dischi del Sole il suo Non consumiamo Marx, manifesto sonoro della contestazione della Biennale e della Mostra del cinema del 1968. Pochi mesi dopo la pubblicazione abbiamo partecipato insieme ad una serata di comunicazione sociale attraverso la musica a Varese, lui con i suoi nastri, io ed altri con canzoni e narrazioni.
Tre anni dopo a Reggio Emilia ebbe luogo la prima edizione della rassegna «Musica realtà» promossa da Luigi Pestalozza e da lui, con la partecipazione di musicisti di primo piano dei diversi «generi» musicali. Un evento che si ripeté negli anni con modalità diverse. Fui invitato alle prime due edizioni, durante le quali ebbi occasione di conoscere ed ascoltare artisti del livello di Abbado e Giuranna, Gentilucci e Pollini, Giovanna Marini e Giacomo Manzoni. E Gigi c’era sempre, sommessamente presente, discretamente attento a questo dialogo tra musiche che ha costituito uno dei punti saldi del suo pensiero.
Un giorno mi disse: «Tra poco questi suoni che noi costruiamo con fatica in laboratorio saranno a disposizione di tutti, con strumenti musicali di facile acquisizione e potranno essere utilizzati per banalizzare ulteriormente una parte della musica, ma anche per inventare composizioni “popolari” di grande qualità creativa ed esecutiva». Popolari in questo caso vuol dire di larga diffusione, come sono stati i grandi gruppi innovativi dagli anni settanta in poi.
Per quanto riguarda invece il «popolare» nel senso di «folklorico» Gigi manifestava spesso grande interesse per quanto avveniva in questo settore affermando: «Se si vuole capire la musica contemporanea bisogna partire dalla musica popolare, dai nastri registrati, dalle ricerche effettuate. Se si vuole dare spessore e attualità alla ricerca sulla musica popolare bisogna rivolgersi anche alla musica cosiddetta colta ed alle nuove ricerche musicali». Aveva in mente certamente Bartók e Kodály, ma anche le innumerevoli esperienze timbriche e ritmiche della musica tradizionale, le persistenze modali presenti anche in significativi insediamenti culturali nel cuore dell’occidente. Un esempio per tutti: la cultura musicale sarda. Gigi rifiutava ogni gerarchizzazione delle esperienze musicali.
Sbocco naturale di questo percorso è stata la compresenza di diversi percorsi all’interno di uno stesso luogo di confronto: la rivista «Laboratorio Musica». Sostenuta dall’ARCI e pubblicata da Ricordi, la rivista è sorta all’inizio del 1979 a seguito di un convegno nazionale sulla didattica musicale tenuto a Venezia a metà del 1978. La direzione fu assunta da Gigi e il comitato di redazione era composto da persone che prestavano la loro attività in vari ambiti dell’esperienza musicale. Dalle scuole materne, elementari e medie ai conservatori, dalla composizione alla critica, dalla musica elettronica al jazz e all’etnomusicologia, dalla programmazione alla legislazione musicale. Gigi mi propose fin dall’inizio di partecipare al comitato nella mia qualità di insegnante elementare impegnato in esperienze di educazione al suono ed alla musica. La pubblicazione cessò l’attività nell’aprile del 1982. In tre anni e 31 numeri in quelle pagine sono stati raccolti contributi ed esperienze provenienti dai settori più diversi, rafforzando in molti la convinzione che si dovesse giungere ad una lettura dei fatti musicali senza pregiudizi e steccati.1
L’ultima preziosa esperienza Gigi me l’ha regalata a Milano, nel tempio della musica, la Scala. Nell’autunno del 1984 nel grande teatro si tenne un concerto con brani che diversi autori avevano composto per l’occasione. Gigi presentava una composizione per percussioni, lastre di rame e nastro magnetico live. Partimmo da Piazzale Roma Gigi, Maurizio Cecconi (allora assessore al turismo di Venezia) e un comune amico nel primo pomeriggio poiché il concerto a Milano iniziava alle 18.00. Il mezzo di trasporto a nostra disposizione era una vecchissima Lancia a GPL che avevo acquistato un anno prima per un milione. Giunti a Milano, Gigi ci lasciò sulla porta del teatro alle 17.00 perché doveva verificare che tutto fosse a posto e qualche minuto prima delle 18.00 ci fece salire sul palco centrale del teatro dove aveva sistemato le sue macchine legate ad un fascio di cavi che arrivavano e partivano da un mixer.
La composizione, che non ho più avuto modo di ascoltare, prevedeva l’utilizzo di percussioni tradizionali e lastre di rame suonate da sei percussionisti. Le lastre avevano dei microfoni a contatto che ne riprendevano il suono e lo inviavano alle macchine di Gigi che lo rielaboravano e rinviavano in tempo reale sul palco, miscelando il tutto in un evento musicale di grande fascino ed emozione. Almeno per me che ho vissuto questa magica miscelazione senza perdere un solo suono. Ma anche per il pubblico che ha applaudito con molto vigore e sei minuti circa di grandi sonorità costruite proprio lì, davanti alle nostre orecchie e ai nostri occhi.
Dopo quel giorno non ho più visto Gigi. Da tempo non abitavo alla Giudecca e avevo cambiato il mio lavoro. D’altra parte succedeva con una certa frequenza che lui sparisse per un bel po’, spesso per viaggi di lavoro, ma ancora più spesso per soggiorni nei grandi studi di fonologia di Milano o di Friburgo. L’ho incontrato una mattina del 1989 in campo Santo Stefano, in prossimità del Conservatorio dove mi stavo recando. «Ciao Gigi, un bel po’ che non ci vediamo! Come stai?». «Bene, bene». Un filo di voce ancora più tenue del solito, ma soprattutto un viso scavato, due occhi smarriti e nessuna voglia di fermarsi a chiacchierare. «Se resti un po’ a Venezia magari riusciamo a vederci…». «Sì… sì…ciao».
Ci siamo «rivisti» l’8 maggio del 1990. Ancora in campo Santo Stefano. Un campo pieno di gente e di tristezza. In tanti, tantissimi venuti lì per ragioni diverse. I «giudecchini» tutti lì. Muti, resi irriconoscibili dallo scorrere del tempo e dall’incredulo dolore.
Gualtiero Bertelli
Mira, 21 novembre 2017
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Nota
1 Sulla vita e l’opera di Luigi Nono ed in particolare sulla storia ed il significato dell’esperienza di Laboratorio consiglio di leggere la profonda tesi di Laurea di Danila D’Addazio «Spazio aperto e molteplice: Laboratorio Musica nell’estetica di Luigi Nono. Per una pratica culturale innovativa e critica», Università di Ca’ Foscari-Venezia anno accademico 2012 / 2013
Lo scritto è pubblicato integralmente nel sito http://dspace.unive.it/handle/10579/3764.
Luigi Nono e il cinema
di Roberto Ellero
Sin qui tralasciato, nell’ovvia considerazione che mai la grandezza e l’originalità del musicista veneziano risultano essersi appositamente misurate in termini compositivi con le immagini in movimento (l’ascolto piuttosto che la visione, ricordava il critico Mario Messinis), il tema è parimenti emerso con forza alla prima edizione del festival Luigi Nono alla Giudecca, tenutosi nella prediletta isola rossa veneziana dal 5 al 9 ottobre. A propiziarlo la dotta e puntuale ricerca del cinemusicologo Roberto Calabretto, docente all’Università di Udine e tra i massimi studiosi del Novecento italiano tra musica e cinema, recentemente confluita nel volume Luigi Nono e il cinema, dato alle stampe dalla Libreria Musicale Italiana nella collana «Quaderni di Musica Realtà» e presentato nella giornata finale del festival.
Una giornata, al teatrino Junghans, tutta filmica, avviata con la visione di alcuni documentari «militanti» (L’Arno è anche un fiume, Crimini di pace, La fabbrica, un episodio de La guerra del golfo… e dopo?, incredibilmente attuali nella riproposizione di mali antichi: dalla devastazione del paesaggio alle morti sul lavoro, dal lavoro alienante alle guerre «infami»), proseguita con un incontro a più voci sulle ragioni del libro e del tema (in presenza dell’autore, con interventi di Marco Bertozzi, Nicola Cisternino, Marco Dalla Gassa, Roberto Pugliese, Veniero Rizzardi e di chi scrive, in qualità di conduttore) e infine conclusasi in serata sulle immagini del cubano Un hombre de éxito di Humberto Solás (1986), il solo ad accreditare esplicitamente nei titoli di testa, quale compositore, il nome del musicista veneziano, anche se in realtà non di sole musiche di Nono il film si plasma, men che meno appositamente composte (si tratta di interventi tratti dall’opera Das atmende Klarsein, «Il respiro della chiarezza», composta qualche anno prima). Restando oltretutto, il cubanissimo Solás, meno vicino alle istanze noniane di altri combattivi cineasti sudamericani, fra tutti l’argentino Fernando Solanas e il boliviano Jorge Sanjinés dell’amatissimo Sangue di condor, di taglio documentaristico non a caso, laddove Un hombre de éxito tende ad una più tradizionale struttura bionarrativa nel raccontare l’ascesa al potere di un uomo senza scrupoli, «prima della rivoluzione».
L‘indagine ad ampio spettro di Calabretto non tralascia alcunché, puntualizzando ogni possibile aspetto del tema in questione: dalle frequentazioni del Cineclub Pasinetti, nella Venezia ancora molto viva e artisticamente feconda degli anni Cinquanta, alle predilezioni per le avanguardie russe (Ejzenštejn, Vertov, in particolare quelle loro pratiche di montaggio fortemente sperimentali e creative) ed in genere per gli autori dalla poetica intransigente (Godard, per dire, e poi i «giovani tedeschi», con uno dei quali, Alexander Kluge, le occasioni di proficuo scambio non mancheranno), dalla frequentazione di festival e registi politicamente affini in epoca di cultura militante alla conseguente generosa offerta di proprie composizioni (edite e non) al repertorio documentaristico, che costituisce la parte più rilevante e per così dire «esposta» del Nono cinematografico. «Un’arte di lotta e fedele alla verità» reca in sottotitolo il libro di Calabretto e non v’è dubbio che proprio nel documentario di lotta e di denuncia, lontano da ogni tentazione descrittiva e naturalistica, certamente «cinema del reale» (per usare una terminologia di poi), ma debitamente conflittuale e dialettico, trovino la più consona collocazione gli interventi musicali dell’autore, in quella dimensione dello schermo sonoro dove è decisamente estranea la pratica solitamente in uso del commento e dell’accompagnamento. Di qui anche una successiva tendenza segnalata dall’autore della ricerca: l’utilizzo della musica come «materiale». «Un “materiale” – scrive Calabretto – che si presta in maniera molto efficace ad essere una componente della colonna sonora di un film, come avevano ben intuito registi illuminati come Tarkovkij e Antonioni a proposito della musica elettronica, anche per la sua vocazione ad entrare in dialogo con rumori ed effetti sonori di diverso genere».
E proprio il capitolo Tarkovkji, terminale di un lungo e costante processo di fascinazione che ha accompagnato l’esistenza e l’opera di Nono nell’intero loro evolversi e spiegarsi, costituisce un punto d’arrivo da cui possibilmente ripartire. Ben più che le recriminazioni intorno alla mancata collaborazione con Luchino Visconti a proposito del film Lo straniero, da Albert Camus, o di un possibile rapporto con Stanley Kubrick, che resta nel campo dell’aneddotica, la visione di Sacrificio diviene accertata folgorazione, culminante nella dedica al regista russo della celebre composizione No hay caminos, hay que caminar… Andrej Tarkovskij , «un omaggio molto particolare – osserva Calabretto – che comporta una ricomposizione musicale dell’estremo lascito del regista russo». Un comune «sentire», potremmo ben dire, e un agire artistico conseguente, su cui già si erano concentrate le riflessioni di Giovanni Morelli, gran musicologo e indimenticato maestro, non solo di Calabretto:
«(…) l’effusione, compressa, di un sistema di molte comprensioni simultanee dell’ultima opera del regista russo (esperite sincronicamente da Nono, intuitivamente da spettatore ingenuo, ma con convinzione estatica). Comprensioni d’ipersensibilità recettiva plurime, tutte restituite in un particolare stato d’omaggio, oscillante fra il sentimento di riconoscenza per quel quanto di autocoscienza poetica che l’incontro, tardivo, con l’opera di Tarkovskij ha trascinato nel processo di rappresentazione dell’idea-motto dell’ “hay que caminar” e il sentimento, forse inconfessato di invidia per quel che Offret/Sacrificio riesca a essere nella sua forma compiuta e finita; irrimediabilmente, e oramai […] quasi retoricamente “ultima”».
Sacrificio è del 1986, lo stesso anno in cui Tarkovskij andrà a spegnersi a Parigi. No hay caminos… è dell’anno dopo, 1987, un «dover camminare» (pur sapendo, il viandante, che non ci sono strade) simbolico e costante negli ultimi lavori del musicista, che ci lascerà pochi anni dopo, nel 1990. Non hanno avuto il tempo di approfondire ulteriormente. Possono sempre farlo coloro che hanno cara la memoria di questa significativa convergenza, non solo affettiva.
Roberto Ellero
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Musicisti d’oggi
di Leonardo Pinzauti (1970)
«Luigi Nono abita a Venezia, nel quartiere popolare della Giudecca: ci eravamo incontrati molte volte, prima di questo “colloquio”, davanti alla Fenice, a Roma e a Firenze; ma erano stati brevi scambi di saluti, spesso polemici, perché Nono si sente sempre in trincea, e quindi sospettoso, combattivo e appassionato nei suoi odi e nei suoi amori. E chi gli si avvicina, anche se non è uno dei suoi “nemici”, rischia sempre di restar compromesso – proprio come al fronte – dal tiro incrociato che parte della sua “trincea”, anche nel caso in cui cercasse di presentarsi come paciere. Quando sono riuscito finalmente a recarmi a casa sua, e stavo seduto davanti a lui nel chiarore nebbioso e spoglio della laguna, mi sembrava a momenti di esser quasi il plenipotenziario incaricato di una trattativa: un plenipotenziario “borghese”, s’intende, a cui per l’occasione si consentiva un dialogo più o meno provocatorio, e su argomenti non soltanto musicali. Perché nella poetica di Nono la politica, i fenomeni sociali, i miti della società industriale come della rivoluzione cinese hanno un peso non accessorio: sono il suo “impegno” di musicista, e non possono essere elusi attraverso un questionario di estetica; ed è per questo che il nostro colloquio ha dovuto essere articolato in un modo tutto particolare, usando un dizionario – direi – che è stato diverso da quello che mi ha messo in comunicazione con Dallapiccola o con Henze, con Donatoni o con Sauguet.
Mentre si parlava, un cane lupo di aspetto non rassicurante – che mi aveva fatto fermare perplesso davanti al cancelletto del giardino di Nono, e che in realtà si è poi rivelato mansueto e dolcissimo – giocava con un bastardo nero, anch’esso timido e quasi sonnolento; e la signora Nuria (la figlia di Schoenberg) accudiva alla casa. Ogni tanto la più piccola delle bambine di Nono, Bastiana, veniva a curiosare, e il padre si rivolgeva a lei con grande mitezza, prendendola sulle ginocchia, interrompendosi per parlarle sottovoce. Dalla laguna veniva soltanto il rumore di qualche barcone, il muggito lontano di una sirena; e guardandomi intorno, sotto l’occhio vigile di una fotografia di Che Guevara, con una grande riproduzione di “Guernica” di Picasso, ogni tanto provavo davvero l’impressione di essere approdato in uno strano “ritiro”: quello di un intellettuale che molti a Venezia conoscono soltanto come “Gigi”. (Quando cercavo la sua casa, un ometto anziano mi aveva detto: “Luigi Nono? Chi? Lo scrittore?…”. “No, fa il musicista” avevo risposto. Ma lui aveva replicato: “Sì, insomma, è lo stesso… È un bruno grando, che chiamano Gigi?”)».
«[…] Ma fra trenta o quarant’anni risponde subito Nono – ci sarà altra musica. Io lavoro per oggi, nei problemi di oggi: non penso mai alla musica del futuro che credo sia un concetto ottocentesco, di quando si scoprì la “storia” della musica. Questo della musica del futuro è un concetto che lascio volentieri ai visionari musicisti tedeschi; allo stesso modo credo che il continuo ritorno al passato, impostoci dal consumismo di oggi e dall’industria culturale, sia una sorta di bloccaggio per tentar di farci perdere il senso dei problemi della nostra epoca: sono convinto che anche attraverso la musica di oggi (indipendentemente dal fatto che sia legata a un testo o no) è possibile analizzare, conoscere e intervenire nella nostra vita. Non per scelte culturali-politiche che illuminano l’uso, la funzione e la finalità dei mezzi tecnico-espressivi a disposizione o “inventati” dal musicista» (Leonardo Pinzauti, Venezia 14 gennaio 1970).
Note biografiche
Gualtiero Bertelli (Venezia, 1944) è un cantautore italiano, fondatore del Canzoniere Popolare Veneto, con Alberto D’Amico, Luisa Ronchini, Rosanna Trolese, Tiziano Bertelli e Policarpo Lanzi. È autore di parecchie canzoni popolari sia in veneto che in italiano, tra cui Vedrai com’è bello cantata da Bruno Lauzi e Nina ti te ricordi incisa da Francesco De Gregori.
Roberto Ellero, veneziano, giornalista e critico cinematografico, è stato direttore del settore Cultura-Turismo del Comune di Venezia fino all’agosto del 2016 e del periodico «Circuito Cinema». Ha all’attivo numerose pubblicazioni, fra cui lavori monografici su André Delvaux, Sidney Lumet, Martin Ritt, e Simenon al cinema.
Giovanni Morelli (Faenza, 1942 – Venezia, 2011) è stato un musicologo e docente italiano presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, particolarmente vicino a Luigi Nono negli anni Ottanta
Leonardo Pinzauti (Firenze, 1926 – 2015) è stato un critico musicale e giornalista italiano de La Nazione e Il Resto del Carlino. Ha pubblicato per la ERI (Musicisti d’Oggi – Venti colloqui, 1978)
Festival Luigi Nono alla Giudecca (vedi articolo di Serena Nono in Finnegans del 4 ottobre scorso http://finnegans.it/luigi-nono-alla-giudecca-di-serena-nono/
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