L’infinito è la narrazione di alcune giornate della vita di uno sceneggiatore di successo: anni addietro ha collaborato alla sceneggiatura di un film che ha vinto un Oscar, ma ora sta attraversando una profonda crisi che investe la sua vita prima ancora che la sua professione. Chiede aiuto al suo agente nel tentativo di rilanciare la sua carriera, ma ne ha una risposta desolante: «Mi dica perché dovrei rappresentarla proprio ora, quando rotola nel baratro […]»? Lo stato di avvilimento in cui è caduto lo induce a riflettere sul proprio mestiere e sulla propria vita. Vari personaggi che incontra sembrano accendere in lui speranze e attese: gli apriranno nuove prospettive o gli serviranno solo a misurare la distanza tra una mitica vitalità del passato e l’aridità del presente?

Gentle on My Mind
La prima inquadratura, quella dei titoli di testa che si accendono in rosso sullo sfondo di un buio impenetrabile, è un’inquadratura fissa che ci dà la cifra stilistica del film, (quasi) del tutto sprovvisto di movimenti di macchina. Una luce violenta proveniente dall’alto illumina il torso nudo del protagonista lasciando in ombra i tratti del volto, mentre la colonna sonora c’investe con le note e i versi di Gentle of My Mind (1967) un classico della musica folk-country anni sessanta portato al successo internazionale dall’interpretazione di Glen Campbell (la stessa che qui ci è proposta):
It's knowing that your door is always open
And your path is free to walk
That makes me tend to leave my sleeping bag
Rolled up and stashed behind your couch
[È sapere che la tua porta è sempre aperta
E che il tuo cammino è libero da percorrere,
Che mi spinge a lasciare il mio sacco a pelo
Arrotolato e nascosto dietro il tuo divano.]
Fa uno strano effetto questa commistione tra l’ariosità scanzonata e nostalgica on the road di questa canzone e la postura dell’eroe, che sembra evocare romanzi sul dissolvimento dell’io e sperimentazioni linguistiche: penso all’incipit di Murphy di Beckett o di Le procès verbal di Le Clézio). L’eroe, impersonato dallo stesso Contarello nel ruolo di sé stesso, ci appare come una sorta di Tiresia «old man with wrinkled dugs» («vecchio dalle avvizzite mammelle», come è definito nella Waste Land di Eliot, nella traduzione di Montale) e, allo stesso tempo, come un immalinconito reduce dalla musica folk-country degli anni sessanta. Ma sono esattamente commistioni di questo tipo l’effetto perseguito attraverso il procedimento del doppio parodico, come vedremo meglio qui di seguito.

Le debite proporzioni
La grande bellezza di Paolo Sorrentino sta a La dolce vita come L’infinito di Umberto Contarello sta a 8½. Senza dimenticare che Contarello è coautore delle sceneggiature sia di La grande bellezza che di L’infinito (prodotto, quest’ultimo, dallo stesso Sorrentino, che è anche co-sceneggiatore).
Come è stato possibile stabilire puntuali corrispondenze tra La grande bellezza e La dolce vita, così si possono rapidamente elencare punti di contatto tra L’infinito e 8½. Il bianco e nero, prima di tutto, anche se usarlo nel 1963 significava qualcosa di diverso dall’usarlo oggi. Nel film di Contarello c’è una distribuzione diffusa, atmosferica verrebbe da dire, di un’ampia scala di grigi. Il sapiente dosaggio che sa farne l’ottima fotografia di Daria D’Antonio impregna figure e spazi di un’aura crepuscolare, malinconica, che si distingue nettamente dal bianco e nero inciso, essenziale, definitivo di 8½.
C’è poi quella che Metz ha divulgato come «costruzione in abisso» (il film nel film), desumendo il termine dalla scienza araldica, dove designa uno stemma che al suo interno replica sé stesso in dimensioni ridotte. Guido (Marcello Mastroianni), il cineasta protagonista di 8½, assomiglia al suo creatore come un fratello (la definizione è di Metz). Contarello, Umbe’ per gli amici, non assomiglia al, ma è il creatore del film; semmai ciò di cui si narra in L’infinito non è la difficoltà di dare forma alla sceneggiatura di un film (il celebrato turning point dei manuali di sceneggiatura), ma alla vita stessa del protagonista («Secondo te questo sarebbe il turning point della vita»?).
L’infinito, sembra configurarsi come una sorta di remake di 8½ o, se si preferisce sequel o pastiche: in effetti la requisitoria dell’agente cui Umbe’ si è rivolto, è un magnifico rifacimento delle stroncature del critico Daumier (Jean Rougeul) in 8½. Ciò che meglio qualifica l’operazione di Contarello non è tanto la corrispondenza, con questo o quel genere, quanto il “meccanismo” messo in atto e che definirei «doppio parodico»: nella teoria letteraria di Bachtin il doppio parodico è una forma di imitazione e, insieme, di derisione di un discorso autorevole, del quale smaschera attraverso la parodia le pretese di assolutezza.
In effetti, nella sua ripresa di temi e figure di 8½, Contarello ripercorre il procedimento del doppio parodico che consiste nel sottoporre un testo ad una rilettura parodica, che ne evidenzia gli aspetti “bassi”, grotteschi, “volgari”, qualcosa di simile a quanto accade con la tradizione dell’epica cavalleresca in Don Chisciotte di Cervantes e a quanto accade, fatte le debite proporzioni, in La grande bellezza rispetto all’originale felliniano di La dolce vita; qui la fascinazione e l’incanto delle location originali (il parco degli acquedotti, il chiostro del Bramante, le magnificenze della Roma barocca) convivono con una deriva che sembra destinata a non avere limiti (la festa dell’arte, la cerimonia del botox).
Nel caso di L’infinito non si tratta, però, di un’operazione puramente caricaturale in quanto si stabilisce un rapporto dialogico, grazie al quale il doppio parodico dialoga con l’originale, interpretandolo criticamente. In L’infinito, la requisitoria dell’agente di Contarello (il bravissimo Bruno Cariello) viene curiosamente riformulata adottando lo schema dei quiz con risposte a scelta binaria in uso nei test scolastici.
Ad apertura di L’infinito Umbe’ dichiara al suo agente che avvilimento è il termine con il quale definirebbe la sua situazione. Quelli che seguono sono alcuni stralci dalla batteria di domande del quiz cui viene sottoposto Umbe’: «Ora, è corretto dire che lei è sempre povero perché ha condotto una vita sregolata, vacua, eccentrica? […] È corretto dire che lei è uno sceneggiatore bugiardo, presuntuoso, inaffidabile»? L’ammissione di Umbe’ non si fa attendere: «È corretto…Se vuole anche vanesio. Ma mi pento…Ci si può pentire?»

Vitalità
Cosa può aver spinto Umberto Contarello a debuttare nella regia all’età di sessantaquattro anni con un film, ispirato a 8½, che narra le vicende di uno sceneggiatore in crisi. Io credo che una risposta stia nella vitalità, nella ricchezza tematica e stilistica che quel film esprime, come accade per La dolce vita di Fellini rivisitato da Paolo Sorrentino (e Umberto Contarello). Oppure nel riconoscimento di qualcosa di molto intimo e personale che quel film riesce a raccontare e sul quale l’autore avverte la necessità di ritornare, adottando un altro punto di vista. Contarello popola la sua Roma in bianco e nero di fantastici don-chisciotte che s’illudono di ridare vita alle peripezie degli eroi felliniani e che sono invece solo dei patetici imitatori, inconsapevoli traghettatori di quello che Bachtin chiama il doppio parodico.
Si tratta di un tentativo di immersione nella vitalità di una stagione irripetibile, di quella che Gianni Canova, recensendo il libro La bella confusione di Francesco Piccolo, ha chiamato l’età dell’oro del cinema italiano. Una stagione che si svolge all’insegna della vitalità che paradossalmente è rappresentata da un film come 8½. Dico paradossalmente perché, secondo Alberto Moravia, c’è un paradosso rappresentato da 8½. Esso consiste nel fatto che una storia di nevrosi d’impotenza, di collasso delle capacità creative dovuto a mancanza di vitalità diventa per Fellini occasione per fornire «una bella prova di vitalità». Anche Francesco Piccolo s’interroga sull’estrema vitalità (la definizione è sua) di 8½. La definisce un «incomprensibile mistero» che egli enuncia così: «come sia possibile che un film che parla di un uomo che non sa più cosa fare, che è in crisi su tutto, che scappa da tutto, dia come risultato un film che ha nella vitalità la sua evidenza maggiore, che ti fa uscire dalla visione con una forza e una voglia strepitosa di aggrapparti alla vita».
In L’infinito noi seguiamo le giornate di Umbe’ che, in preda al suo avvilimento, si disperde in una miriade di tentativi a vuoto. Cercando di recuperare il rapporto con Elena, la figlia adolescente, riesce solo a provocare un intasamento del box di messaggi della ragazza. Cercando di seguirne le attività sportive finisce ingabbiato tra i rami di una siepe e scambiato per un voyeur. L’inaspettata visita di un ragazzo gli apre la prospettiva di una paternità fino allora insospettata (si pensa a un novello Stephen Dedalus alla ricerca di Leopold Bloom). L’incantamento da cui si fa prendere alla vista della piccola suora armena che lava i vetri dell’edificio di fronte al suo non prelude a una replica del simbolismo della ragazza della fonte di 8½ sulla quale Daumier aveva sentenziato: «Di tutti i simboli che abbondano nella sua storia, questo è il peggiore». Semmai al simbolismo del folle volo di un San Giorgio in sella a un destriero che diventa una corsa notturna in monopattino alla quale i personaggi con le loro pose “statuarie” cercano di imprimere un’improbabile grandezza.
La strepitosa voglia di Umbe’ di aggrapparsi alla vita, per riprendere l’efficace espressione di Piccolo, culmina nella scena di sesso orale con la sua ex, dal quale non trae alcun piacere né emozione: scena di una ridicola “tragicità” tutta fantozziana, verrebbe da dire. Contarello ci riporta alla dimensione del «basso corporeo» (il riferimento è ancora a Bachtin e alla dimensione materiale e grottesca del corpo).

Per farla finita con gli anni sessanta
Quando Umbe’, nel colloquio con il suo agente definisce avvilimento il termine più adatto per descrivere la sua situazione, indossa un abito antracite con camicia bianca e cravatta che sortisce un effetto caricaturale non solo perché è una goffa versione XL del completo scuro indossato con impeccabile eleganza da Guido/Mastroianni in 8½, ma soprattutto perché è grazie a questi dettagli del costume di scena che si attiva la dimensione del doppio parodico sulla quale abbiamo concentrato la nostra attenzione.
Ed è appunto il legame tra il costume di scena e lo stato di avvilimento ad attivare questo effetto di doppio parodico. Si pensi alla scena in cui Carla (Sandra Milo), in 8½ si esibisce in una querula lamentazione a proposito del marito («Stai a vedere se questa adesso non mi riparla del marito. Dici di no? Vedrai, vecchio Snaporaz…»). E infatti la donna s’affretta a precisare che il marito che «non è uno di quelli che si fa avanti e che al contrario si avvilisce».
Non so se qualche giurìa, una di quelle che distribuiscono david-di-donatello, nastri-d’-argento e grolle-d’-oro abbia pensato di premiare L’infinito per i costumi. Sarebbe stata una scelta più che appropriata, in quanto Contarello ci illustra perfettamente l’uso paradigmatico dei costumi di scena che esibisce in un sovraccarico carrello appendi abiti, una sorta di dizionario del vestire pronto per qualsiasi circostanza. È questo il suo repertorio di indumenti che ha sempre a disposizione e che varia con una certa frequenza, si tratti del classico completo scuro che abbiamo appena citato, oppure di un maglione a collo alto, di una vestaglia, di una sciarpa o di un cappotto. Gli servono per proteggersi, nascondersi, travestirsi, ma anche per orientare lo spettatore, oltre che sé stesso.
Quest’immersione nella vitalità dei primi anni sessanta ha come risultato un allentamento delle funzioni narrative a vantaggio di una concezione epifanica della scena (“scene che non servono a niente” versus “turning point”): una scena non deve funzionare (quello è affare dei rubinetti), una scena deve essere bella, un’epifania, manifestazione di bellezza. «Se uno dice epifania, dicono che è retorico, che è enfatico, che è rottura di coglioni». Anziché seguire un procedimento dialogico, Umbe’ preferisce disseminare i suoi dialoghi di aforismi, sentenze apodittiche, giochi di parole, illuminazioni improvvise: «Io non ho più niente da dare. Ho solo qualcosa da dire… forse». A chi gli chiede perché racconta che sua madre era austriaca e che è morta a Vienna, risponde: «Perché mi serve una grande bugia». A chi gli chiede se ha paura di morire, risponde: no, di sopravvivere.
Antonio Costa, saggista e storico del cinema
Riferimenti
- Samuel Beckett, Murphy (Id., 1938), trad. it. di G. Frasca, Einaudi, Torino 2003
- J.-M-G. Le Clézio, Il verbale (Le procès verbal, 1963) trad. it. di Gioia Zannino Angiolillo, Einaudi, Torino 1965.
- Gianni Canova, 1963: l’età dell’oro del cinema italiano, in «Ottoemezzo», n. s., n. 69, autunno 2023.
- Christian Metz, La costruzione “in abisso” in “Otto e mezzo” di Federico Fellini, in Id., Semiologia del cinema. Saggi sulla significazione nel cinema (1968), trad. it. di A. Aprà e F. Ferrini, Garzanti, Milano 1972.
- Claudio Milanini, Introduzione a Bachtin, Laterza, Bari-Roma 1995.
- Francesco Piccolo, La bella confusione. L’anno di Fellini e Visconti, Einaudi, Torino 2023.
- Alberto Moravia, Scopre in sé stesso un personaggio, in «L’Espresso», 17 febbraio 1063, poi in Id. Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, a c. di A. Pezzotta e Anna Girardelli, Bompiani, Milano 2010.
Immagine di copertina
Umberto Contarello, L’infinito, da sinistra Umberto Contarello e Alessandro Pacioni. Foto di Daria D’Antonio
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