MICHELE Il Conservatorio “Stanislao Giacomantonio” di Cosenza ha organizzato nelle giornate del 14 e 15 ottobre 2024 all’Auditorium Casa della Musica un Convegno internazionale sul tema La ricerca etnomusicologica in Calabria: lo stato dell’arte.
Le due giornate di studio sono state coordinate dal Professor Innocenzo Cosimo De Gaudio ed hanno contribuito ad approfondire in maniera ampia e specifica tematiche inerenti alla documentazione e l’analisi delle forme musicali, poetiche e coreutiche di tradizione orale in Calabria.
Un’attenzione particolare è stata dedicata agli aspetti legati alle numerose diaspore che la Calabria ha ospitato nei suoi lunghi secoli di penisola nella penisola, al centro del Mediterraneo, ponte tra oriente ed occidente, tra Balcani e Africa Settentrionale. Minoranze in transito o, poi, stanziali, vi hanno stabilito una rete complessa e strutturata di relazioni con le culture autoctone, tra ritualità, musica, poesia e danze.
I numerosi relatori hanno “raccontato”, quindi, dalla Megali Ellas alle epoche più recenti e fino ai giorni nostri con lo stabilirsi di nuove migrazioni dell’est europeo, un laboratorio informale plurisecolare che ha fatto della Calabria una regione ed un’area di profonde connessioni tra civiltà diverse. Parole, immagini e suoni, sottesi da strutturate competenze scientifiche e didattiche, sono state guida sicura a questo lungo viaggio tra intrecci di radici e storie che fanno la storia, non trascurando, anzi illuminandone gli aspetti più interessanti, le relazioni tra musica popolare e musica colta e/o liturgica.
Nuove proposte di studio afferenti a discipline musicologiche sono state presentate. E l’analisi, la teoria, l’etnografia e la storiografia hanno accompagnato i partecipanti nella comprensione della cultura calabrese dell’interno montano e degli scambi mediterranei.
Alla fin di queste due giornate di studio il Professor Innocenzo De Gaudio mi ha dedicato un po’ del suo tempo per qualche domanda ed un paio di curiosità che mi ero annotato ascoltando le relazioni…
Buongiorno Nino e grazie per aver accettato il mio invito a parlare di questo tuo recentissimo impegno. Ai nostri lettori preciso che – calabrese un pò greco e un po’ bizantino – da decenni ti occupi, per il tuo incarico istituzionale e per passione individuale, di etnomusicologia. Un termine che affascina già nel pronunciarlo. E che necessita, però, di una specifica perimetrazione per evitare confusioni con altre discipline,“di confine” ma pur sempre “altre”. Puoi introdurcela?
NINO Questa disciplina ha avuto origine in Inghilterra e in Germania, sul finire del XIX secolo, con la cosiddetta ”musicologia comparata” (vergleichende Musikwissenschaft), che si proponeva innanzitutto lo studio delle musiche extraeuropee e la loro comparazione con le musiche europee, colte e popolari. Anche se l’interesse verso la musica di continenti e civiltà extraeuropei si era già sviluppato intorno alla metà del Settecento, per effetto combinato del mito illuminista del ”buon selvaggio”, dell’interesse per un gusto tutto settecentesco per l’esotico, il “lontano”, l’Ur. Soprattutto in Francia, infatti, sono proprio i filosofi (cito a tale proposito J.-J. Rousseau e il suo “Dictionnaire de la musique“, Parigi 1768), che preparano l’atteggiamento mentale favorevole all’accoglienza della civiltà, persino mitizzata, dei Paesi dell’Estremo Oriente, che esploderà, più avanti, specie nel periodo della Belle Époque.
Per quasi tutto l’Ottocento, tuttavia, persiste tra gli studiosi una visione del tutto approssimativa delle musiche “primitive” ed extraeuropee, un approccio di ricerca e di indagini “da scrivania” viziate, peraltro, da aprioristici giudizi estetici negativi basati, essenzialmente, su report di viaggiatori, missionari, mercanti non in possesso, quasi sempre, né di competenze musicologiche, né di quelle antropologiche. Visione gradualmente sostituita sul finire del secolo XIX da un approccio sempre più oggettivo e scientifico, sviluppatosi in virtù delle nuove invenzioni, in primis il fonografo Edison (1877), che permetteranno finalmente di registrare il suono, inaugurando, di fatto, la stagione della ricerca “sul campo”.
MICHELE Partiamo dalle origini magnogreche. Colpisce subito come queste radici siano ancora vive, e “parlanti”, nella estrema propaggine meridionale della Calabria, l’area di lingua greca intorno a Bova. E se parlanti nella lingua che Rohlfs attesta risalente alla prima colonizzazione greca, mi viene spontaneo chiederti quali altre connessioni possiamo stabilire con l’attualità etnomusicale e liturgico/rituale di quell’area?
NINO I primi insediamenti in Calabria di popoli provenienti dalla Grecia risalgono già all’epoca Micenea, ma è solo a partire dall’VIII secolo a.C., com’è noto, che la presenza greca divenne più consistente, sino alla costituzione di quella meravigliosa civiltà (anche musicale) denominata Megale Hellas: Sybaris, Kroton, Locri Epizefiri, Kaulon, Rhegion… Basta scorrere l’indice dei lavori di Angela Bellia e di altri antropologi, archeomusicologi, etnomusicologi, per cogliere il filo sottile, che risale in superficie di volta in volta in maniera carsica, e che ci lega a quel mondo e a quelle ritualità.
E poi la Calabria è stata anche Bizantina. Tra l’VIII e il X secolo d.C. si assiste, infatti, ad una nuova ellenizzazione di questi luoghi, specie quando i monaci in fuga dall’iconoclastia (o dall’Islam) si insediano in Calabria che, oltre a diventare sede privilegiata del Misticismo Ortodosso Orientale (il Mercurion, Rossano, Stilo, Santa Severina, Gerace, Bivonci…), ha rappresentato un luogo di sincretismi culturali, rituali e melurgici.
Infine, la Calabria è ancora oggi grecanica, nelle estreme propaggini del territorio regionale, nell’area della Bovesia. Oltre la lingua (il grecanico), questa enclave minoritaria conserva ancora un ricco e prezioso patrimonio tradizionale, organologico e musicale.
MICHELE Una seconda, importante presenza diasporica in Calabria è costituita dalla minoranza arbëreshe. Albanesi che dal XV secolo al XVI secolo, in fuga da Albania, Epiro e Morea sotto la minaccia della conquista turca, si stabilirono in Calabria. Un progressivo fiorire di comunità ormai da secoli pienamente integrate nella nostra struttura sociale che tuttavia, con orgoglio, conservano e coltivano le proprie specificità. Penso alla lingua, alle strutture liturgico/rituali, all’importante patrimonio musicale che, rispettoso delle origini, non rinuncia a definirsi anche in forme più attuali. Mi viene in mente l’annuale Festival della Canzone Arbëreshe a San Demetrio Corone, ma anche i versi in musica di Anna Stratigò a Lungro o, addirittura, il rock arbreshe dei Peppa Marriti Band a Santa Sofia d’Epiro. Ce ne puoi parlare?
NINO La presenza di comunità albanesi sul territorio italiano è documentata in maniera evidente sin dal XV secolo sebbene, secondo alcuni studiosi, si registri già dal XIII. È comunque certo che solo a partire dalla fine del Quattrocento abbia avuto inizio un consistente e regolare flusso migratorio, destinato ad intensificarsi nei secoli successivi, dando luogo all’insediamento di molti gruppi arbëreshë in diverse regioni del Mezzogiorno. Oltre la lingua (arbërisht), che rappresenta il marcatore identitario più evidente e immediatamente distintivo di “alterità”, c’è da sottolineare il fatto che gran parte delle comunità italo-albanesi continua ancora oggi a professare la religione cattolica osservando l’antico rito greco-bizantino, sia per quel che concerne la solenne e maestosa liturgia, sia per la peculiare melurgia, caratterizzata prevalentemente dalla pratica dell’ison e dall’impianto modale dell’octoechos. La consapevolezza di una ancora attuale, diversa e peculiare identità religiosa – pur nell’unità del cattolicesimo – contribuisce a sostenere i calabro-albanesi nel più generale senso di appartenenza alla più vasta comunità della diaspora. Le comunità arbëreshe, inoltre, posseggono un copioso patrimonio di canto a più voci (a cappella) e quel che più colpisce, arrivando in una qualsiasi di queste comunità, è costituito proprio dalla diffusa presenza del canto, oltre ai suoni dell’arbërisht, quale elemento caratterizzante l’intero panorama sonoro. Basta avvicinarsi o entrare in una chiesa, partecipare a riti paraliturgici o a qualcuno dei numerosi consessi di socialità “profana” per notare quanti individui si misurino in performance canore, con una competenza e una naturalezza che sorprende. Per quel che concerne i gruppi di riproposta, personalmente preferisco quelle sperimentazioni che riescono a mantenere comunque un legame con la tradizione, adattandola alla società contemporanea (ma non solo con l’uso dell’arbërisht)
MICHELE Di un’altra diaspora stabilitasi nei secoli passati in Calabria abbiamo meno evidenze nell’attualità. Penso alle numerose Comunità ebraiche cancellate dall’editto dei Sovrani di Castiglia e d’Aragona dopo l’annessione spagnola del Regno di Napoli nel XVI secolo. Di questa presenza restano pochi reperti nel Parco Archeologico di Bova Marina, diffusi toponimi (le Giudecche) e qualche traccia di architetture e decorazioni cripto-giudaiche presumibilmente riferibili al fenomeno del marranesimo. Nel suo intervento al convegno la giovanissima erede degli storici liutai De Bonis di Bisignano, suggeriva un’attività di ricerca volta ad indagare eventuali influenze delle tecniche costruttive ebraico-sefardite sulla liuteria calabrese. Che ne pensi?
NINO Come dicevi in apertura di questa chiacchierata, la Calabria è una penisola nella penisola e, nel corso dei secoli, è stata attraversata in lungo e in largo da culture, popoli e civiltà differenti. Purtroppo, le tracce del passaggio e del contributo che le comunità ebraiche hanno offerto a questa terra, a parte i toponimi cui accennavi tu, appaiono piuttosto sbiaditi. Convengo tuttavia con l’ipotesi organologica suggerita da Rosalba De Bonis, pur non essendo uno specialista di tecniche costruttive, considerata la presenza, in Calabria e in parte del Mezzogiorno d’Italia, di alcuni strumenti musicali, in primis la chitarra battente, che rimanda all’oud e al rinascimentale liuto, oltre a svariati strumenti a corda (mandolini, mandole, etc..), che presentano tutti la “gobba” nella cassa di risonanza, la “rosetta”, le decorazioni, etc., tutti elementi che rimandano, a loro volta, a quella stupenda civiltà musicale sefardita che, sino alla tragica ”cacciata”, operata dai sovrani di Castiglia e di Aragona, si era sviluppata col contributo delle tre maggiori religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo e Islam), che convivevano pacificamente ed avevano elaborato una cultura musicale raffinatissima.
MICHELE Finora ci siamo occupati di diaspore. È, però, necessario ricordare che il Convegno ha visto importanti momenti dedicati alle tradizioni etnomusicali più squisitamente autoctone. Non possiamo dimenticare gli interventi che hanno illustrato storie di identità musicali perdute tra passato e presente (la memoria dei briganti così come recuperata da Eugenio Bennato) o di identità ritrovate tra tradizione ed invenzione (la tarantella). Ed ancora particolarmente interessanti gli approfondimenti specifici su origini, tecniche costruttive ed utilizzi di strumenti popolari come la zampogna e la chitarra battente. Nonché un affascinante raffronto tra la lira calabrese e la lira cretese.
NINO La musica è sempre stata “specchio” della società e strumento privilegiato di comunicazione e grido di rivolta e, soprattutto in una situazione di banditismo e conflitto, quale veicolo di propaganda e di speranza. Tuttavia, il fenomeno del brigantaggio “in musica” è riemerso in maniera più evidente, a parte rare eccezioni, solo dopo il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. In particolare, con la pubblicazione del libro di Eugenio Bennato, Brigante se more. Viaggio nella musica del Sud (Coniglio Editore, 2010). Un tema controverso, che ha sempre visto una contrapposizione tra “sostenitori” e “denigratori” di questi personaggi, considerati, a seconda dei casi, quali “patrioti”, eroi, novelli Robin Hood o, al contrario, semplici criminali e assassini fuorilegge. Tuttavia, la tradizione di studi musicali non ha ancora riconsegnato alla memoria collettiva fatti e momenti di storia sociale e politica sul brigantaggio com’è avvenuto, ad esempio, per altre tradizioni di canto di protesta, di rivendicazione sociale, e altro ancora. Ci sembrava utile, in un Convegno che si proponeva di fare il punto sullo stato dell’arte della ricerca etnomusicologica in Calabria, proporre anche questa tematica. Diverso è il caso delle “tradizioni inventate” e della tarantella. Per quel che concerne “l’invenzione della tradizione”, preferisco rimandare all’omonimo testo a cura di Eric J. Hobsbawn e Terence Ranger, di cui riporto sinteticamente una definizione, a mio parere, molto efficace: Per “tradizione inventata” si intende un insieme di pratiche […] dotate di una natura rituale o simbolica […] nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. La tarantella è, infatti, uno dei casi che alcuni studiosi definiscono quale sopravvivenza dell’idea, di ascendenza romantica, nella quale la tradizione è un mondo ipostatico, che custodisce reliquie e vestigia, relitti e testimonianze di mondi antichissimi, ma spesso decisamente più recenti.
Per quel che concerne, invece, l’interesse per l’organologia calabrese, posso affermare che la Calabria è una regione particolarmente ricca di strumenti musicali in varie aree territoriali. La zampogna, ad esempio, lo strumento “a sacco” delle culture pastorali, è presente in varie fogge, tipologie, dimensioni (si misura in “palmi”) e sonorità diverse dal Pollino allo Stretto, anche nella fattispecie più piccola, ma più squillante, denominata surdulina; calami e ciaramelle, tamburi a cornice con e senza sonagli, chitarre battenti, già citate più sopra e, ultima non ultima, la lira calabrese. Un antico strumento ad arco, derivato dalla lira di Bisanzio per il quale, in questa occasione si è proceduto anche ad un confronto con la lira cretese (kritikì lìra), evidenziando alcune caratteristiche organologiche comuni e la simile destinazione d’uso in contesti di musica strumentale – di accompagnamento delle danze tradizionali – con la ‘sorella’ calabrese.
MICHELE Una riflessione su come l’etnomusicologia sia una disciplina che nel suo “vivere per addizione” (cito Carmine Abate) osserva ed indaga la “carne viva” della gente. Le due giornate ci hanno presentato studi attenti e profondi sulle tradizioni (prevalentemente liturgiche) calabresi che affondano nei secoli le loro origini: i canti della Settimana Santa a Belvedere Marittimo, il Rosario cantato di Gallico, i canti delle Confraternite tra Serre e Jonio. E mi piace, poi, ricordare l’interessantissimo ed inedito contributo su come suoni e movimenti ritualizzati, riportando figure femminili divine, aprano un dialogo tra etnomusicologia ed archeomusicologia.
NINO I canti paraliturgici, le pratiche devozionali popolari e quelle delle confraternite laicali usano ancora oggi ornare con canti e musiche le varie ritualità legate a precise scadenze calendariali, ricorrendo a uno straordinario, ricco e variegato corredo di repertori. Basti pensare ai canti e alle ritualità della Settimana Santa o agli innumerevoli contesti dedicati alla Vergine, alle processioni in onore di Santi e Beati. E queste “tradizioni” vengono da lontano. Un più recente filone di studi è proprio quello indagato dall’archeomusicologia, che si spinge ad indagare indietro nel tempo, nel tentativo di fare emergere performance musicali e coreutiche al fine di ricostruire relazioni fra rituali e culti del mondo antico. In questi casi non siamo, ovviamente, in presenza di “tradizioni inventate” ma di seri studi scientifici e ricerche che si propongono di studiare prassi musicali e coreutiche sfruttando tutte le conoscenze derivanti dall’iconografia, dai reperti archeologici (strumenti musicali compresi), applicando le più recenti tecniche d’indagine dell’archeologia moderna, con l’ausilio di sofisticati e innovativi apparati tecnologici: cito, ad esempio, le tecniche utilizzate per la ricostruzione dell’aulòs di Selinunte o quella dello spazio sonoro di luoghi di culto dell’antichità.
MICHELE Uno studio specifico è stato dedicato alle migrazioni dall’Europa orientale ed alle comunità romene stabilitesi di recente in Calabria. Mi ha colpito vedere Santi della Doxologia Orientale riaffiorare alla memoria grazie all’esperienza liturgico/religiosa di questi fedeli. I santi Elia il Nuovo e Filarete l’Ortolano riportano a Seminara memorie del monachesimo italo-greco, prevalente nella nostra regione fino alla latinizzazione normanna. Ed il recupero del Monastero di San Giovanni Theristis a Bivongi fa risuonare, nella vallata dello Stilaro, antiche melurgie bizantine.
NINO Come già accennato più sopra, l’Oriente, Bisanzio e il Monachesimo italo-greco non sono estranei alla cultura calabrese. Basti ricordare San Nilo (da Rossano) e San Bartolomeo (da Simeri), che, tra X e XI secolo, incalzati dalle incursioni arabe, si erano spostati dalla Calabria in Campania e infine a Grottaferrata, ancora oggi fucina di esperti cantori e di melurgia bizantina, segnata, peraltro, in una complicatissima semiografia neumatica. Per quel che concerne invece i Balcani e l’Oriente più prossimo, oserei dire che i rapporti e gli scambi sono altrettanto antichi.
Il nuovo campo d’indagine dovrà comprendere ricerche e studi anche sulle nuove diaspore, comprese quelle dovute alle più recenti immigrazioni, ai nuovi sincretismi e alle auspicabili “contaminazioni” che, inevitabilmente si sono già generati e si svilupperanno anche nella piccola “penisola nella penisola”, baricentrica nel Mare Nostrum: la Calabria.
MICHELE Siamo giunti alla fine del nostro incontro. Le due giornate di studio sono state preziose. Hanno accresciuto conoscenze e suscitato curiosità e spunti di riflessione forieri di ulteriori approfondimenti. I numerosi interventi dei partecipanti li fanno già intravedere. E sono certo che questa nostra chiacchierata sarà occasione di suggestioni – e di approfondimenti, perché no – per chi ci leggerà. Grazie Nino!
Immagine di copertina: Delilah Gutman, Nel cielo le radici.
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