Venezia, parrocchia dell’Angelo Raffaele. Nel 1679 un ragazzo sedicenne, orfano da tempo di entrambi i genitori, giunge a Venezia con la sorella. Nelle vicinanze della loro abitazione si trova Ca’ Zenobio, dimora patrizia il cui proprietario, il conte Pietro Zenobio, seguirà la formazione pittorica del ragazzo, diventandone pochi anni dopo il committente più importante. Luca Carlevarijs (1663-1730), questa l’identità del giovane artista, inizia la carriera con la pittura di soggetto religioso, ma ben presto è attirato dalle opere, in particolare porti e marine, eseguite dai pittori di paesaggio, provenienti dal Nord Europa, che si sono stabiliti a Venezia nel Seicento. Tra la fine del secolo e l’inizio del Settecento l’artista riceve l’incarico di dipingere le tele per il portego superiore di Ca’ Zenobio, edificio barocco con uno dei più bei giardini storici della città. Gli interni del piano nobile del palazzo saranno affrescati da Louis Dorigny, Gregorio Lazzarini e Giambattista Tiepolo, quest’ultimo agli inizi della carriera.
Ispirandosi ai pittori nordici attivi in città, dunque, Carlevarijs esegue Porto di mare, Paesaggio con cascata e carovana, Paesaggio con scena di mercato. Egli non intende imitare i modelli di riferimento; insieme a Marco Ricci (1676-1730) segnerà l’avvio di un nuovo genere pittorico che, grazie alle richieste di un nuovo collezionismo straniero borghese, legato soprattutto ai ceti mercantili, contribuirà a connotare una nuova scuola veneta, dopo quella del primo Cinquecento, basata su scelte figurative e modalità compositive di soggetto paesaggistico con o senza figure, o figurette, come verranno chiamate.
Già agli inizi del Settecento Carlevarijs è citato nelle guide dei pittori più noti di Venezia, sia come autore di vedute che di paesaggi. Pur partendo dal disegno dal vero, egli non segue fedelmente le regole prospettiche, creando dei paesaggi urbani che evochino da un lato la grandezza di Venezia, dall’altro le attività legate alla vita quotidiana. Carlevarijs, inoltre, anticipa istanze che saranno raccolte nuovamente dalla seconda metà del secolo, quando la sua figura sarà riscoperta, diventando essa stessa modello di riferimento anche nel secolo successivo.
In un eterno andirivieni, i vedutisti e paesaggisti operanti nel Settecento nelle terre della Serenissima Repubblica, alcuni dei quali si recheranno nelle corti europee per restarvi a lungo o per sempre, richiesti dai più potenti personaggi dell’epoca, oscillano fra l’incisione e la tela di piccolo o grande formato, che da un lato testimoniano fedelmente la magnificenza degli edifici storici di Venezia e la bellezza della laguna o la varietà del paesaggio rurale, lacustre e montano dell’entroterra, dall’altro assecondano l’estro e la fantasia dell’artista, che accosta edifici realmente esistenti a composizioni dell’immaginazione. L’esperienza che ne scaturirà non avrà soltanto i caratteri della scuola artistica, ma fungerà anche da importante testimonianza della stratificazione del paesaggio veneto, i cui luoghi sono riconoscibili, e darà ulteriore conferma della permeabilità dell’artista, che si lascia plasmare da esperienze altre e allo stesso tempo delinea, anticipandole, istanze culturali che matureranno in un momento successivo.
Nel 1703 Luca Carlevarijs incide centoquattro tavole all’acquaforte raccolte ne Le Fabriche e Vedute di Venetia. In altre opere ritrae dal vero i personaggi, inserendoli, però, nel soggetto scelto seguendo il suo estro e dando vita a numerosi “capricci”, opere pittoriche in cui in un paesaggio sono presenti edifici di pura invenzione, molto spesso rovine di monumenti antichi o commistioni di marine e entroterra.
Dal 1704 al 1714 l’artista dipinge Capriccio con veduta di porto, L’arco di Costantino e monumento equestre, Capriccio con rovine, fontane e cavalieri, Capriccio architettonico con porto di mare, Porto con ponte e torre, per poi ritornare alla pittura dal vero e soddisfare le richieste del mercato dell’arte, che dal 1725 vedrà brillare la stella di Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto (1697-1768), per il quale sarà fondamentale l’incontro con Joseph Smith (1682-1770), console britannico a Venezia, suo committente e intermediario con altri collezionisti. Un rapporto, dunque, molto fluido, come quelli fra altri artisti e committenti, sia in relazione alla provenienza geografica e sociale dei committenti stessi che ai soggetti richiesti.
Il console Smith farà la fortuna del Canaletto, che nel 1744 pubblica una raccolta di vedute incise all’acquaforte, Vedute altre prese da i luoghi altre ideate, dove l’esattezza topografica e prospettica e la veduta ideale non sono in contrapposizione ma complementari; in poche parole, secondo la sua poetica pittorica, un artista può interpretare il paesaggio in modi differenti, nessuno dei quali si esclude a priori.
Altri autori di vedute e paesaggi come Michele Marieschi (1710-1743), Marco Ricci e Francesco Guardi (1712-1793) proseguono nella direzione tracciata da Carlevarijs.
Il bellunese Marco Ricci, affiancabile al suo modello Salvator Rosa anche per il carattere rissoso, che lo costringerà a fuggire più volte da Venezia e Londra per poi farvi ritorno, si assocerà allo zio Sebastiano, dopo un soggiorno londinese (1708-1711) insieme ad Antonio Pellegrini, con il quale allestisce le scenografie per Pirro e Demetrio di Alessandro Scarlatti. Ricci, allievo dell’anconetano Antonio Francesco Peruzzini (1643-1724), dipinge paesaggi dai colori caldi e con una forte connotazione chiaroscurale, dove la natura è selvaggia e lirica, protagonista di una visione insieme ideale e quotidiana. Nelle sue opere Ricci lascia allo zio Sebastiano l’esecuzione delle figure.
La sua lezione sarà ripresa da Michele Marieschi, la cui breve vita non gli consentirà di dare maggiore forza all’adesione a una poetica pittorica fantastica di gusto pre-romantico. Figlio di un intagliatore e formatosi come apprendista scenografo, poi allestitore di feste religiose e laiche, vive il 1735 come anno di svolta. Egli, infatti, conosce il feldmaresciallo Johannes Matthias von der Schulenburg (1661-1747), che in cinque anni gli commissiona dodici vedute di grande formato per la sua galleria, fra cui Il Canal Grande a Ca’ Pesaro, La piazzetta dei Leoncini, Il ponte di Rialto con la riva del Ferro, La chiesa della Salute.
In quest’ultima opera l’inquadratura è ripresa da un’incisione di Carlevarijs. Santa Maria della Salute è situata in posizione centrale, mentre a destra si riconoscono il convento e l’abbazia di San Gregorio. Le figure inserite in primo piano non sono state attribuite a Marieschi, ma a suoi aiutanti.
Negli anni Trenta del Settecento egli soddisfa anche il mercato del collezionismo che richiede tele di minore formato e di impianto compositivo più estroso. Ecco, quindi, che per i viaggiatori inglesi dipinge, ad esempio, Capriccio con villaggio sulle rive di un fiume, in cui riprende la lezione dei paesaggi di Marco Ricci come Paesaggio con boscaioli e cavalieri, Veduta del parco di una villa, Paesaggio con lavandaie, torrente e monaci, opere dipinte fra il 1715 e il 1730, contrapponendo i primi piani in ombra agli sfondi luminosi.
Nel 1737 Marieschi sposa Angela Fontana, figlia di Domenico, proprietario di una bottega di quadri in Campo San Luca.
L’artista è di umili origini e per gli artisti esordienti e di talento, ma con scarsi mezzi a disposizione, le botteghe di quadri sono un luogo fondamentale. Accanto al commercio di tele di piccolo formato come le vedute e i capricci, richieste dai viaggiatori stranieri, nelle botteghe si montano le opere sui telai, si provvede all’imprimitura, si restaura, si eseguono e si fanno eseguire copie. Se è necessario, il titolare della bottega può anche fungere da perito, stimando il pregio artistico, il valore economico dell’opera.
La bottega di quadri è, dunque, un luogo privilegiato per misurare le variazioni del mercato e stabilire chi è il viaggiatore straniero che vi si reca.
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Ma non s’erano superate due miglia dall’erta, quando quel travagliato ronzino, contrastando con uno di que’ passi disastrosi, restò disarmato dell’altro ferro dell’altro piede dinanzi. Non ne volli più sapere altro, ed uscii dal mio sterzo; e, discernendo a un tratto di trecento passi una casa a mano mancina, volli avviarmi; ed ebbi di grazia a farmi seguitare dal postiglione. E quanto io più m’appressava, la prospettiva di quella casa mi veniva riconciliando col mio nuovo infortunio. Consisteva in una cascinetta attorniata da forse sette pertiche a vigna e d’altrettante di campi a biada. Avea prossimo dall’un de’ lati un orto di poco più d’una pertica, provveduto di quanto mai l’abbondanza può consolare la mensa d’un contadino. Prosperava dall’altro lato una selvetta liberale di ombre al riposo e di legna al focolare*
Nel 1768 muoiono Canaletto e Laurence Sterne (1713-1768), uomo di Chiesa e poliedrico scrittore inglese, il cui “Viaggio sentimentale di Yorick tra la Francia e l’Italia” (A Sentimental Journey through France and Italy. By Yorick) è pubblicato nello stesso anno. In quest’opera letteraria l’autore mette alla berlina quei viaggiatori che tanto avevano fatto la fortuna di Canaletto, gentiluomini inglesi che compivano il Grand Tour in Europa a conclusione del loro percorso educativo, e le pubblicazioni che ne erano state il frutto, composte da resoconti di usi, costumi, descrizioni di monumenti antichi, scarse notizie autobiografiche. Sterne dissacra, si sofferma sul particolare, su ciò che all’occhio può sembrare piccolo e transitorio, rende protagonista l’Io, che dà la misura della realtà, del vero nell’esperienza del viaggiatore Yorick, suo alter ego. Non è un caso che Ugo Foscolo, dopo varie traduzioni, pubblichi quella definitiva nel 1813 con lo pseudonimo di Didimo Chierico. La ricerca che il viaggiatore compie non è più per confermare le informazioni derivate dai suoi studi, ma si configura come un percorso interiore, il cui punto di partenza è sì nei fatti e nelle situazioni esterne presentate, ma il cui punto di arrivo è nella relazione che intrattiene con la realtà che incontra e vuole raccontare o che sia raccontata e raffigurata.
Nella seconda metà del Settecento, dunque, oltre a due modelli di pittura, si sviluppano due modelli di scrittura, guidati dall’Io razionale osservatore dal vero e dall’Io ispirato e ispiratore.
La letteratura e il viaggio non sono dipendenti l’una dall’altro, come non lo sono la pittura dal vero e la pittura legata allo stato d’animo dell’artista; danno forma a una realtà mobile fra soggettivo e oggettivo, a visioni e impulsi individuali e collettivi.
Yorick, per esempio, nel breve passo citato, racconta al lettore e a se stesso la visione di un paesaggio, laddove gli elementi naturali, atmosferici e antropici, alcuni dei quali soltanto intuiti, evocati, infondono nella sua coscienza di scrittore-viaggiatore e nel lettore un’alterazione dell’umore, uno stato d’animo di mutua partecipazione.
Allo stesso modo nella pittura di veduta e di paesaggio non scompaiono il disegno dal vero e la fedeltà topografica, che sono ancora richiesti dal collezionista, ma ciò che interessa di più è l’esperienza visiva dell’emozione, mantenendo inalterato il mercato per soggetti pittorici come il paesaggio urbano e naturale.
Francesco Guardi, in particolare negli ultimi anni di attività, è l’espressione di questa nuova inquietudine, in cui la veduta e il paesaggio si trasformano in luogo dell’ignoto, diventano visione.
A Venezia si è creato un vuoto sia nell’ambito istituzionale, nei cui gangli si intravvedono già i segni della fine, che in quello pittorico, a causa della morte di Canaletto e della scelta esistenziale di suo nipote Bernardo Bellotto (1721-1780), che dopo una vita artistica e personale spesa alle corti di Vienna, Monaco e Dresda, per ragioni economiche decide di accettare, nello stesso 1768 a cui si è già fatto riferimento, la nomina a pittore di corte offertagli dal re di Polonia, Stanislao Poniatowski.
Guardi, dunque, rimane l’unico modello di riferimento in un momento di epocale trasformazione di Venezia e dell’entroterra. Come sceglie di raccontarlo?
Le atmosfere liriche impresse sulle sue tele anticipano esperienze che saranno pienamente mature nell’Ottocento europeo; i colori sfrangiati e i contorni sfumati valorizzano la materia pittorica, laddove vedute e paesaggi in forma di capriccio sono congeniali al suo estro intuitivo. Si tratta di capricci architettonici, vedute fantastiche campestri, paesaggi campestri o boschivi, capricci in miniatura con marine e rovine come in Arco fantastico con figure umane (1770), Paesaggio campestre (1775-1785), Capriccio con ponte su un canale (1780 ca.).
Chi sono i committenti di Francesco Guardi, non potendo egli godere dell’influenza di un agente come Smith o di incarichi molto remunerativi come Bellotto? La Chiesa è ancora un mecenate importante e continua a prediligere tele di grande formato di soggetto celebrativo. Molto attiva è anche una committenza appassionata e passionale, che intuisce la novità e originalità delle tele di piccolo formato dai toni lirici come Gondole sulla laguna (1765 ca.), che evoca la visione di una città interiore oltre la distesa d’acqua; si tratta di un’opera che sia dal punto di vista compositivo che dei toni del blu, verde e nero, rinvia al secolo successivo e ai paesaggi lagunari di William Turner (1775-1851) e James Whistler (1834-1903).
Francesco Guardi non è un viaggiatore, non lascia la sua Venezia al tramonto.
Nella prima metà dell’Ottocento Ippolito Caffi (1809-1866) prosegue la sua lezione stilistica, coniugando, però, anche lo spirito irrequieto del tempo e la necessità esistenziale di viaggiare continuamente, senza dimenticare quella Venezia che è per lui, bellunese di nascita, la città delle affinità elettive.
En plein air lavora alla prima stesura delle sue opere, per poi elaborarle in studio, pittore di una luce che è comprensione del dato atmosferico da un lato e dall’altro contaminazione di sensazioni personali e influenze di luoghi e esperienze dei viaggi per scelta negli anni 1841-43 (Roma, dove si sente libero di sperimentare, Napoli, che lo conquista con la sua luce, il Vicino Oriente e la Grecia) e per necessità di fervente patriota (la pittura di battaglie per l’indipendenza italiana a cui partecipa) fino alla tragica fine, durante la battaglia di Lissa.
L’arte di Ippolito Caffi è simboleggiata in Venezia, Neve e nebbia in Canal Grande (1842).
La città e il paesaggio appaiono diversi nella misura in cui lo stato d’animo del pittore si diffonde nel soggetto dipinto fino a diventarne una componente e darne, così, attraverso la maggiore o minore, realistica o fantastica luminosità, un tono emotivo. Anche l’osservatore si sente immerso nella nebbia, è partecipe dell’atmosfera invernale. L’opera di Caffi è, dunque, l’espressione dell’armonia d’atmosfere fra l’Io e il mondo. La veduta che diventa visione.
*L. Sterne, Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, cap. LXII, trad. di U. Foscolo, edizione illustrata a cura di G. Puglisi, Bompiani 2009, pg.244
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Annarosa Maria Tonin è nata a Vittorio Veneto (TV) il 22 aprile 1969. Laureata in Lettere Moderne all’Università Cà Foscari di Venezia con una tesi di storiografia dal titolo “Per una storia della corte praghese di Rodolfo II. Gli inviati veneti (1595-1609)”, ha svolto attività giornalistica e di ricerca nell’ambito storiografico e storico-artistico ed è stata docente di Materie Letterarie e Storia dell’Arte nelle scuole medie e superiori.
Autrice di racconti, romanzi e saggi, cura eventi legati alla promozione della lettura. Redattrice di “Digressioni”, rivista culturale cartacea trimestrale, per la quale cura una rubrica di Storia dell’Arte, ha ideato e curato la rassegna “Incontrarsi in via Manin”, tenutasi nell’ex Ghetto Ebraico di Vittorio Veneto nel 2017 e 2018.
Ha pubblicato nel 2019 “L’uomo nell’ombra. Storie d’arte, potere e società” (Digressioni Editore).
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