* Articolo pubblicato originariamente sul quotidiano Domani del 20 gennaio 2022
Negli ultimi anni l’Antisemitismo ha assunto un ruolo sempre più rilevante nel dibattito pubblico. Vissuto come emergenza inattesa, come strumento di propaganda politica o come linguaggio utile ad alimentare il cosiddetto black humor nei social, la sua presenza produce disagio e non è facilmente identificabile nei suoi tratti salienti. In anni recenti ne sono state proposte alcune definizioni, elaborate da gruppi di lavoro assai diversi e rispondenti a esigenze istituzionali differenziate. La working definition dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) è stata approvata nel 2016. Si tratta di un testo che ha avuto molta fortuna grazie alla natura intergovernativa dell’organismo che l’ha prodotto, e ha generato una serie di importanti azioni con ricadute anche molto visibili. Il Parlamento Europeo e numerosi fra i Parlamenti nazionali l’hanno fatta propria, nominando dei coordinatori incaricati di produrre azioni concrete nell’ambito del contrasto all’odio antiebraico. È stata varata una strategia europea, che prevede l’investimento di risorse non indifferenti in progetti transnazionali che si occupano di formazione, di comunicazione e di ricerca. Strategie nazionali vengono implementate nella stessa direzione, con l’intervento diretto dei governi. Non è cosa di poco conto. Per la prima volta nella storia le istituzioni pubbliche riconoscono che l’antisemitismo non è un reperto storico del lontano passato, ma un’emergenza sociale del nostro presente, al pari del razzismo, del discorso d’odio e dell’intolleranza contro la comunità LGBT. Altre definizioni sono state prodotte di recente in ambito accademico. In particolare, hanno suscitato un certo dibattito la Jerusalem Declaration on Antisemitism e il Nexus Document. In entrambi i casi siamo di fronte a tentativi di definizione che in maniera più o meno esplicita avanzano riserve sul modo in cui vengono considerate le critiche verso Israele nella definizione dell’IHRA, addentrandosi di conseguenza in valutazioni politiche.
Al di là delle definizioni (che pure producono importanti azioni di contrasto nella società, nei mezzi di comunicazione e fra i decisori politici) penso sia importante fare chiarezza su due aspetti fondamentali. Da un lato – in special modo in concomitanza con il Giorno della Memoria – è urgente chiarire quale sia stato il rapporto fra l’ideologia antisemita e le dinamiche politiche, economiche e militari che hanno permesso il funzionamento della macchina dello sterminio organizzata dal nazismo e attuata con la collaborazione di molti altri soggetti. E, d’altra parte, è necessario interrogarsi su quali siano i meccanismi presenti nella società contemporanea che alimentano e sostengono l’antisemitismo nel nostro presente.
Il rapporto fra la Shoah e l’antisemitismo è complesso e per nulla lineare, per quanto questa affermazione possa suscitare sconcerto. Nell’Europa degli anni Venti e Trenta il sentimento antiebraico era molto diffuso. Fondato su pregiudizi di natura religiosa (il cosiddetto antigiudaismo, assai presente in ambito cristiano) a cui si aggiungevano antichi stereotipi di natura economica che dipingevano l’ebreo come particolarmente abile nel maneggiare il denaro, l’antisemitismo si era concretizzato ed era divenuto una vera e propria ideologia politica già nella seconda metà dell’Ottocento. La pubblicazione e la traduzione in numerose lingue del falso libello intitolato in italiano “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” aveva contribuito non poco a diffondere un’idea di complottismo (con soggetti “attivi” gli ebrei) che si era dimostrato particolarmente utile a livello di propaganda. Da allora e fino ai nostri giorni la cospirazione segreta è uno degli strumenti più diffusi nel mondo dei populismi: utilizzato ampiamente da fascisti e nazisti, oggi è molto presente in movimenti che si auto-definiscono alternativi come i Qanon, i suprematisti bianchi di vario genere e naturalmente il variegato arcipelago dell’estremismo islamista. Tutto ciò premesso, se è indubbio che l’antisemitismo costituì una base ideologica chiara del nazismo, a partire dal Mein Kampf di Hitler, è tuttavia anche vero che esso non è sufficiente a spiegare nel suo complesso il tentativo industriale di eliminare milioni di ebrei europei messo in atto durante la guerra. La connessione fra Shoah e antisemitismo indubbiamente c’è ed è evidente, ma non si può ipotizzare una sovrapposizione delle due dinamiche. Tanto è vero che – terminata la guerra e posto fine al massacro – in effetti l’antisemitismo continuò il suo percorso nella storia del Novecento per giungere ai nostri giorni. È tristemente noto l’episodio di antigiudaismo di antica matrice che si perpetrò già nel 1946 a Kielce in Polonia, dove i pochi ebrei superstiti dai lager vennero accusati nientemeno che di omicidio rituale. Ci furono in quell’occasione decine di vittime con un vero e proprio pogrom popolare, alimentato da pregiudizi e rancore e non ostacolato dall’autorità pubblica.
A proposito della presenza del sentimento antisemita nella società contemporanea e in particolare in Italia, sono numerosi i sondaggi sia di natura qualitativa sia quantitativa che sono stati prodotti negli ultimi anni. I risultati sono univoci, a prescindere dalle metodologie di rilevamento adottate, e non sono per nulla confortanti. Cresce la percentuale di coloro che esprimono sentimenti pregiudiziali di ostilità antiebraica (in Italia approssimativamente un cittadino ogni dieci), ed è in continuo aumento il linguaggio aggressivo sui social sia in termini numerici sia nelle sue caratteristiche violente. Si registra inoltre un utilizzo maggiore rispetto al passato di temi connessi all’antisemitismo nel dibattito politico quotidiano, vuoi a livello locale (forse riconducibile a forme di ignoranza), vuoi a livelli più elevati fino ad entrare in diverse espressioni utilizzate da esponenti parlamentari. L’effetto non può che essere devastante. Da un lato, chi ascolta un leader politico che utilizza stereotipi del classico antisemitismo (il complotto, le lobbies ecc.) si sente autorizzato a farne libero uso nella quotidianità. E, d’altro canto, questa visibile diffusione del linguaggio d’odio aumenta la percezione della sua pericolosità e pervasività. Una recente ricerca qualitativa compiuta tramite interviste a esponenti di spicco del mondo della cultura, della comunicazione e della politica italiana (Fonte: Osservatorio Antisemitismo, CDEC) ha restituito in tal senso un’immagine molto netta. Fra gli intervistati, c’è chi riconosce il complottismo come strumento dell’antisemitismo, e chi ritiene esista davvero una connessione effettiva fra ebrei (nel loro complesso) potere e denaro. C’è chi nega (“il popolo italiano non è assolutamente a mio giudizio antisemita e c’è un’amicizia storica con il popolo ebraico”, con buona pace delle leggi razziste ideate dal fascismo e attuate per anni senza opposizione né contrasto) e chi addossa la responsabilità della crescita dell’odio antiebraico a dinamiche politiche della parte avversa (destra o sinistra), oppure all’aumento dell’immigrazione islamica.
Se il tema è ben presente, quindi, la confusione anche a livello di leadership sembra regnare sovrana. La speranza, per il nostro paese, è che la strategia nazionale per la lotta all’antisemitismo produca nel prossimo futuro azioni concrete ed efficaci. Se queste non riusciranno a estirpare definitivamente l’odio antiebraico, potranno comunque contribuire a alla formazione dei troppi esponenti del mondo della politica e della comunicazione che ancora sembrano non capire.
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Gadi Luzzatto Voghera è direttore della Fondazione CDEC, Centro di documentazione ebraica contemporanea. Storico, ha insegnato alla Boston University e a Ca’ Foscari.
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