«Era bella, di una bellezza tragica, impressionante».
Così Pier Luigi Vercesi, nel suo La donna che decise il suo destino (Neri Pozza Editore), imprime nel lettore la figura della principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso, di cui ricorre il centocinquantesimo anniversario della morte.
Attingendo a fonti quali l’imponente epistolario, in parte inedito, i capi d’accusa della Imperial-Regia Polizia austriaca, le lettere allo storico francese François Mignet, l’autore ricostruisce «la reale e intima Cristina», come scrive nel Preludio dal titolo “Una bellezza ingombrante”.
La vicenda biografica della principessa milanese riveste una grande importanza politica, sociale e culturale e Vercesi ne ribalta la prospettiva che la descrive come fanatica, sovversiva, «una facinorosa da tenere sempre alla larga», a cui vengono attribuite relazioni sospette.
Il libro delinea la sua personalità attraverso il succedersi di figure fondamentali nella formazione personale, culturale, politica e sociale di Cristina; dal padre, Gerolamo Trivulzio, che perde all’età di quattro anni, alla madre, Vittoria Gherardini, la cui villa di Affori è crocevia della cospirazione, come quella di Merate, di cui è proprietario il marito, Emilio Barbiano di Belgioioso-Este, «principe del Sacro Romano Impero, bello di una bellezza rara», che Cristina sposa nel 1824.
Con Emilio, affiliato alla Carboneria come lei, mantiene sempre una fitta corrispondenza. Di lui salda gli infiniti debiti e non tollera le infedeltà, tanto da richiedere e condurre vite separate, senza mai divorziare.
Quando lei arriva a Parigi, in fuga dalla polizia austriaca, il marchese di La Fayette diventa «un padre, un innamorato platonico, un alleato politico, un maestro da cui apprendere e al quale disubbidire». Lui si preoccupa del suo stato di salute – Cristina è affetta da crisi epilettiche e ha contratto la sifilide dal marito – e di tutelare la posizione sociale della giovane donna.
Di Heinrich Heine e Alfred de Musset la principessa sarà «amica devota, generosa e comprensiva», di Liszt avvierà la scalata al successo, mentre a Honoré de Balzac, consapevole che la principessa «non è alla sua portata», non resterà che sublimare il suo «desiderio inappagato», facendola vivere in alcuni personaggi: Fedora in Pelle di zigrino, Modeste Mignon e Massimiliana Doni nel racconto e novella omonimi.
In una costante concatenazione di legami sentimentali che si trasformano in amicizie e amicizie che non diventano mai relazioni sentimentali, i tratti distintivi della personalità di Cristina emergono chiarissimi al lettore: la generosità, la passione, la grande esaltazione in un clima illusorio e la conseguente delusione, l’azione riformatrice, l’affetto sincero e l’amore per la verità, pagati a caro prezzo, non solo emotivo e sociale, ma anche materiale.
L’immensa fortuna ereditata dal padre la «condiziona per tutta l’esistenza», afferma Vercesi, fino a diventare un affare di Stato.
Oltre a pagare i debiti del marito, la principessa finanzia i fuoriusciti italiani di Marsiglia e Lione, che la vedono come una «cassaforte» a cui attingere, attirando in tal modo le spie del governo austriaco.
Nel 1831 Carlo Giusto de Torresani Lanzfeld, a capo della polizia del Regno Lombardo-Veneto, dispone il sequestro dei beni della principessa, che ne tornerà in possesso tre anni dopo.
L’accanimento di Torresani, implacabile, è associato da Vercesi alla figura letteraria di Javert ne I Miserabili di Victor Hugo. «Calunniate, calunniate e qualcosa resterà», sosteneva, dando forma di motto al suo metodo, fondato su illazioni scritte, smentite e poi rispolverate, in cui la cospiratrice assume i tratti della «stravagante» o «immorale». Vercesi suggerisce, non senza fondamento, l’utilità di uno studio sul comportamento ossessivo, persecutorio e vendicativo di Torresani e aggiunge una nota di mistero, rimasto a oggi insoluto, se abbia agito su ordine di qualcuno. Si potrebbe pensare a Metternich, ma il principe smentisce l’ipotesi quando, intorno agli anni Quaranta, dà indicazioni a che la principessa non sia indotta a ulteriori atti sconsiderati, per sfuggire alle spie infiltrate tra i fuoriusciti italiani in Francia.
In sostanza, l’Austria preferisce Cristina di Belgioioso fuori dall’Italia, consapevole che la Francia non sosterrà mai la sua causa.
Nel frattempo, a Parigi, privata dei suoi beni, Cristina si guadagna da vivere come ritrattista, giornalista e traduttrice. La sua formazione artistica è legata a Ernesta Legnani Bisi, maestra di disegno, «colta, discreta, comprensiva e al tempo stesso sovversiva» affiliata alla Carboneria, che ripara in Svizzera, una «madre spirituale».
La scrittura completa la sua vita fra salotti e barricate. Gli articoli hanno il proposito evidente, maturato negli anni 1831-32, di «ridisegnare l’immagine dell’Italia all’estero, rimuovere i luoghi comuni, disarmare l’ostilità delle classi dirigenti».
Ma cosa pensano i Francesi dei fuoriusciti politici italiani? Che fanno parte di una «cospirazione senza volto, intabarrata, pronta a sferrare a tradimento una pugnalata in una notte senza luna».
Cristina soccorre quella che lei definisce sbandata emigrazione, nell’illusione di farla rigare dritto, ma in seguito raffredda la sua generosità anche materiale.
Appare interessante l’analisi del perché i suoi appelli ad appoggiare la causa italiana in Francia non siano accolti. «Le aspirazioni nazionali italiane – sottolinea Vercesi – collimano con le rivolte operaie nelle regioni manifatturiere francesi, ma chi deve donare il denaro e non lo fa è quella classe borghese desiderosa di godersi le opportunità di arricchirsi».
Cristina è oggetto di «feroci inimicizie». Non a caso l’autore intitola “Nido di vipere” e “Guerra dei salotti” due dei capitoli centrali del libro.
Nei suoi salotti la principessa «amalgamava i cospiratori suoi protetti a politici e aristocratici di gran nome in fuga dai salotti frequentati dalle loro mogli – come quello della contessa Marie d’Agoult – dove si annoiavano ed erano costretti a calibrare ogni frase proferita».
Rientrata in possesso dei suoi beni nel 1834, quattro anni dopo Cristina vive un evento spartiacque. Il 23 dicembre 1838 nasce Maria, la sua unica figlia, l’angioletto presso cui sono rinata. Nell’amore di quella creatura – scrive a Niccolò Tommaseo – ho trovato la forza di rinunciare a tutte le lusinghe che mi potevano da lei staccare.
Nonostante le cinquantasei lettere inedite di Cristina, rinvenute nell’archivio di Fançois Mignet, rimane il dubbio che «l’uomo a cui rimase legata tutta la vita» non sia davvero il padre di Maria. Ciò che risulta fondamentale e certo è che Mignet, conosciuto nel 1831, «completò la sua educazione intellettuale, cercò invano di moderarne gli eccessi, ne osservò gli interessi, facendole esplorare i meandri della storia e del giornalismo».
Nel cruciale 1838 l’Imperatore Ferdinando concede un’amnistia ai fuoriusciti politici e Cristina, avvicinatasi nel frattempo al Cristianesimo sociale e al socialismo utopistico, grazie all’incontro con Augustin Thierry, e convinta che con l’elevare socialmente le masse si costruisce un mondo migliore e più giusto, ritorna in Italia.
Dal 1839 al 1850 vive a Locate Triulzi, nel castello di sua proprietà. Ritenendo che i proprietari di terre e manifatture debbano dare l’esempio, trasforma un luogo di assoluta miseria in «una comunità ispirata al principio di solidarietà fra individui».
Dal 1840 al 1845 Cristina fonda asili e scuole, laboratori professionali, al piano interrato rende disponibile uno scaldatoio per le mamme che allattano, una cucina pubblica in cui si preparano minestre per pranzo e cena.
Ricordiamoci – scrive – che le moltitudini non possono mantenersi affezionate ad un ordine di cose da cui non traggono alcun beneficio materiale, né qualche speranza di futuri e prossimi vantaggi. Lo scopo a cui dobbiamo tendere, innanzitutto, è lo spargere luce nelle menti delle classi povere delle nostre popolazioni, onde renderle consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri.
Eppure, nessuno segue il suo esempio.
Dopo la partecipazione alle Cinque giornate di Milano e il suo prodigarsi in favore dei feriti durante l’assedio francese a Roma, di cui si parlerà a breve, Cristina ripropone il suo ideale di proprietà terriera a Ciaq Maq Oglou, nel cuore dell’Anatolia, dove ha acquistato un appezzamento di terreno per farne una fattoria e «vivere isolata dal mondo, tradita dal disincanto per la politica e per gli uomini». Dall’ottobre 1850 all’estate del 1855 la principessa e la figlia cercano «un nuovo futuro», viaggiando in continuazione da Malta alla Grecia, da Costantinopoli all’interno della Turchia, da Antiochia a Gerusalemme, in una sorta di «byronismo al femminile», senza l’aura da eroina romantica che i contemporanei hanno voluto associare a Cristina, «idealista, sì, ma con la praticità femminile. Mirava al fine, calibrava i mezzi, non disdegnava di imboccare nuove strade».
Il suo viaggiare senza sosta è la conseguenza di quanto vissuto al ritorno in Italia fra il 1839 e il 1849, quando Cristina comprende che i Camaleonti cambiano pelle e si riprendono le posizioni di potere, seppellendo coloro che la pelle non l’hanno mai cambiata.
Che pelle è stata, dunque, quella di Cristina Trivulzio di Belgioioso? La pelle di una «furia tragica», alla testa di volontari napoletani durante la Cinque giornate, alla ricerca di donne romane che assistano i feriti e i malati sotto l’assedio francese, una pelle vestita della bandiera italiana, dell’indipendenza dell’Italia tutta.
Cristina ritiene necessario fare prima gli Italiani e poi l’Italia, attraverso un lavoro lento, paziente di preparazione morale. Attenta alle condizioni sociali verificate sul campo, scrive articoli e dirige giornali. Tra il 1845 e il 1847, cercando appoggi per la libera circolazione della stampa, viene ricevuta anche da Carlo Alberto, che le risponde favorevolmente, salvo poi assumere i tratti del traditore. Le Cinque giornate di Milano la rendono consapevole che i rivoltosi non sanno cosa farsene della libertà e matura la convinzione che sia necessario lottare per l’indipendenza dell’Italia tutta.
Torna a Milano nel 1855 per restarvi fino alla morte, il 5 luglio 1871. Nel 1858 muore il marito Emilio e tre anni dopo la figlia Maria, riconosciuta dalla famiglia Belgioioso, sposa il marchese Lodovico Trotti. Cristina continua a scrivere fino al 1869. Gli scritti pubblicistici sono inscindibili dalla sua azione politica e riformatrice: Essai sur la formation du dogme catholique (1842), La Science nouvelle par Vico (1844), Premieres notion d’histoire à l’usage de l’enfance: Histoire Romaine (1850), Della presente condizione delle donne e del loro avvenire (1866), Osservazioni sullo stato attuale dell’Italia e sul suo avvenire (1868), Sulle moderne politiche internazionali. Osservazioni (1869) sono solo alcuni dei titoli, originali o tradotti.
Niccolò Tommaseo le chiederà perché non ha scritto in italiano e lei risponderà che il francese è «la lingua dell’esilio a cui è stata costretta».
Quale eredità ci ha lasciato Cristina? Siamo Italiani in grado di raccoglierla?
«Il dramma di Cristina – afferma Vercesi – era che pensava troppo in anticipo sui tempi» con un cuore «di una spiritualità terrificante» come scrive Augustin Thierry.
La causa principale di tutte le sue disavventure, conclude Vercesi, è stata «la subordinazione a cui gli uomini si ostinavano a costringere le donne», in un’epoca in cui «non era concessa la libertà di essere indipendenti da una figura maschile».
A centocinquant’anni dalla sua morte la strada da percorrere è ancora lunga. Nel suo nome dobbiamo continuare a studiare e agire.
Immagine di copertina
Girolamo Induno, La Trasteverina uccisa da una bomba, 1850, olio su tela, 114,5×158 cm, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
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Autore: Pier Luigi Vercesi
Titolo: LA DONNA CHE DECISE IL SUO DESTINO. Vita controcorrente di Cristina di Belgioioso
Editore: Neri Pozza
Collana. I Colibrì
Anno di pubblicazione: 2021
Pagine: 288 – 18 euro
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Pier Luigi Vercesi è inviato speciale del Corriere della Sera. Tra i suoi libri più recenti, La notte in cui Mussolini perse la testa (Neri Pozza 2019), Il Naso di Dante (Neri Pozza 2018), Ne ammazza più la penna (Sellerio 2015). È autore di documentari televisivi di argomento storico: “La Roma di Nerone”, “La Germania del Novecento”, “La Prima guerra mondiale”.
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Annarosa Maria Tonin è nata a Vittorio Veneto nel 1969. Laureata in Lettere moderne all’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sugli inviati veneti alla corte di Rodolfo II d’Asburgo, è stata docente di Materie Letterarie e Storia dell’Arte nelle scuole medie e superiori. Curatrice di eventi culturali, collabora con la rivista trimestrale Digressioni e la libreria Tralerighe di Conegliano. Autrice di racconti, romanzi e saggi, ha pubblicato per Digressioni editore la raccolta di saggi “L’uomo nell’ombra. Storie d’arte, potere e società” (2019) e il romanzo “Anatolia” (2020).
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