La bellezza e l’intensità della parola di Ghassan Zaqtan, poeta palestinese
“Né io né tu”
Versioni e nota di Stefano Strazzabosco
Né tu né io
Il bianco ha lasciato il suo muro e il tappeto persiano è arrivato.
I fari delle corriere fanno vibrare il letto e le ombre
e c’è un sussurro che viene dal quadro invernale appeso al buio,
il sussurro che illumina il bosco degli incubi.
Le pattuglie della Guardia e i loro appelli irritano le erbe e gli uccelli inattivi
e fanno sentire il ragazzo nascosto in un fosso come un panno morto.
La donna violentata quasi tutte le notti da suo marito si è addormentata alla finestra, aspettandolo.
Il bambino che piange, figlio della nostra vicina cristiana, continua a urlare sotto la zanzariera, mentre sua madre indica il buio.
La vedova guarda le foto e ride di gusto.
La luce della strada ha colpito il pavimento, la parete e il ritratto della famiglia,
le poche voci si arrampicano sui muri come fantasmi inquieti e silenziosi.
Tutto adesso è ombra al di là della linea di luce,
tutti sembrano ombre seccatesi al buio.
L’uomo che quasi tutte le notti violenta sua moglie è tornato dal lavoro e ha chiuso la finestra.
La nostra vicina cristiana, la madre del bambino che piange, prega davanti alla zanzariera sotto cui si è addormentato suo figlio, piagnucolando.
Nel fosso, il ragazzo si è accucciato come un feto, e qualcuno gridava nell’ombra.
La vedova si è addormentata, senza coprirsi, come al solito; il suo seno respira affannato sotto la luce
e il suo ginocchio brilla.
Intanto, nella foto, un uomo obeso ride come un bambino guardandola.
Né tu né io
possiamo cantare in questo deserto.
Una canzone
La gloria che è stata ripartita equamente
fra tutti
medaglie per i capi
preghiere per la truppa
e foto per i morti
ha finito il suo ciclo
e adesso si è appoggiata
sui sacchetti di sabbia – puoi rollare
e fumartela tutta
la tua razione di tabacco
prima che un’altra guerra inizi
Cuscino
Mi resta un po’ di tempo
per dirle
madre,
buonasera,
sono tornato
con una pallottola nel cuore
Là c’è il mio cuscino
voglio stendermi un po’
e riposare
Se la guerra
dovesse bussare
dille che sto
riposando.
Migrazione
Come se ne sono andati… tutti gli uomini,
senza lasciare un pagliericcio al nostro sonno,
senza lasciare un ragazzo “di guardia”,
una penna per scrivere
o del carbone per questo pauroso sopravvivere
E come se ne sono andati… tutti gli uomini,
senza lasciarci
un cesto per raccogliere i funghi,
un cappello per celare i nostri affanni grigi,
una mano da stringere
o una saggezza che ci aiuti
aldilà della loro saggezza di andarsene
E come se ne sono andati
berrettini in fila
processione di scarpe
fieno attaccato a una soffice lana.
La canzone della bambina al posto di blocco
Lasciami passare,
disse il viandante alla ragazza al posto di blocco.
Lo sconosciuto le disse:
lascia che la terra vada dalla sua gente
e lega il tuo ciuffo di capelli
perché tu sia felice col tuo sposo.
Un uccello di passaggio le disse:
Figlia mia!
Non dormire qui,
accendi il fuoco, che il freddo piega il cammino
dietro le colline come un tappeto in aria.
Il soldato disse alla ragazza:
non mi riconoscerai se torno,
la guerra si mangia chi uccide e chi muore
e niente torna indietro, solo l’ululato.
Un vicino le disse:
mio padre mi vide morto in sogno e mi allontanò da te.
Il pozzo disse alla ragazza:
io possiedo i tuoi occhi.
Per abitudine
Il soldato che è stato dimenticato dalla pattuglia nel parco,
la pattuglia che è stata dimenticata dalla Guardia di Frontiera al posto di controllo,
il posto di controllo che è stato dimenticato sulla soglia,
l’occupazione che è stata dimenticata nella nostra vita dal politico,
il politico che è stato soldato d’occupazione.
Il Merkava1 che è stato dimenticato dall’esercito a scuola,
l’esercito che è stato dimenticato dalla guerra in città,
la guerra che è stata dimenticata dal Generale nella stanza,
il Generale che è stato dimenticato dalla pace nei nostri sogni,
la pace che guidava il Merkava
continua a sparare sulle nostre teste
senza ordini,
così,
per abitudine.
Quella vita
Vado a vedere come sono morti
vado lassù fino a quelle macerie
vado a vederli là
quieti sulla collina del combattimento
Caro narciso del mercoledì, che ora è
che morte è
che pianeta nella mano della vedova
cinque o tre?
La sua veste fioriva
eravamo
fiori dimenticati sul suo vestito
Care soglie delle donne, quant’è una vita
quale tempo è un fiume
quante spade ci sono nel sangue
del ciclone
tre o cinque?
Abbiamo lasciato che la città giocasse
e abbiamo arrotolato i nostri ampli sudari
Vado a vedere come sono morti
vado lassù fino a quelle macerie
vado a vederli morti
colline del nord
vento che s’alza a sud
vado a chiamarli ciascuno col suo nome
Morte collettiva
La sera non scese senza il suo buio
dormimmo senza un tetto ma coperti
e di notte non venne nessun sopravvissuto
a raccontarci la morte degli altri.
I sentieri continuarono a fischiare
e il posto era stipato di ammazzati
che venivano dalla caserma vicina
e le cui urla fuggivano fino a noi.
Vedemmo e ascoltammo
i morti camminare in quell’aria
legati al filo del loro spavento
e il loro mormorio tirava i nostri corpi
fuori dai mantelli di paglia dorati
una mannaia luccicante
cadeva e ricadeva sui sentieri
le donne partorivano
solo quelli che morivano
e non l’avrebbero fatto mai più.
Chi hai trovato per caso nello specchio
Chi hai trovato per caso nello specchi
nel suo angolo buio per essere esatti
era già lì da tempo, e ti pensava,
e diventava amico della tua solitudine
Quello che, visto che ormai non ti serve compagnia,
chiamavi dal suo buio e cui davi da mangiare
con le tue mani
Tu lo chiamavi, lui veniva
tu lo indicavi e lui scattava in piedi
e non appena ti voltavi scaricava su di te
il suo sguardo di iena e tornava al suo angolo
ora ricordi tutto questo
visto che a lungo dovrai stare qui
guardando lo specchio
il suo angolo buio per essere esatti
Mentre lui si siede sulla tua sedia
ti dà da mangiare con le sue mani
ti offre un po’ d’acqua
ti chiama
e tu vai
Cavalli neri
I nemici uccisi
Mi pensano senza alcuna pietà nel loro sonno eterno
Fantasmi salgono per le scale di casa, girano gli angoli
I fantasmi che ho raccolto sui sentieri
E radunato coi peccati intorno al collo d’altra gente.
Il peccato è fermo in gola come un nodo
È lì che cresco i miei fantasmi e li nutro
I fantasmi che fluttuano come cavalli neri nei miei sogni.
Con la forza dei morti s’alza l’ultimo blues
Mentre rifletto sulla gelosia
La porta aperta e imbarcata, il respiro filtra dalle sue fessure
Il respiro del fiume
Il respiro degli ubriachi, il respiro
Della donna che si sveglia dal suo passato in un parco pubblico.
Quando dormo
vedo un puledro che pascola
Quando mi addormento,
Il cavallo veglia sui miei sogni
Sul mio tavolo a Ramallah
Ci sono lettere da finire
E foto di vecchi amici
Il manoscritto di un giovane poeta di Gaza
Una clessidra
E righe d’inizio che sbattono nella mia testa come ali
Voglio mandarti a memoria come quella canzone della prima elementare
Quella che mi ricordo ancora
Tutta e
Senza errori
La blesità, quelle teste chinate, stonate
I piedini che battevano sul cemento impazienti
i palmi aperti che battevano sui banchi.
Tutti sono morti in guerra
I miei amici e i compagni di classe
Coi loro piedini
Le loro manine impazienti… battono ancora per terra in ogni stanza
Battono sui tavoli;
E battono ancora sulle strade, sulle schiene dei passanti, sulle spalle.
Ovunque vada
Li vedo
Li sento.
Lupi
La partenza degli uccelli dal suo cuore
sbianca le pianure
in cui ogni storia è bianca
e ogni sogno è bianco
e il silenzio è l’icona del muezzin.
Una risata di sabbia sorgerà all’aprire la porta
dall’angolo della paura, un inno
er l’inverno finale, e le voci
di chi se n’è andato tempo fa salteranno come cavallette
all’aprire la porta.
Aspettaci, aspettaci un momento
mentre ci asciughiamo un momento
che nelle nostre impronte abbiamo
un lamento imprudente
e un uccello di ceramica…
e attento alle collane sul soffitto
Perché non accendi la luce
o te la godi seduto
a osservare quei frutti per terra
La tua voce nella mia stanza logora il silenzio
il silenzio dei vasi
il silenzio degli scaffali
il silenzio dello scrivere
il silenzio delle luci
e il silenzio della sopravvivenza
che ho raccolto per anni
con la pazienza di chi sta solo col giardino d’estate
o di chi recupera assenza
l’assenza
che non la smette mai.
Buio
Il buio ha un buco
con spazio sufficiente per una mano,
nera, con cinque dita e un braccio
Il buio ha una casa,
infestata dai morti,
che riseppelliscono i loro segreti tra i mattoni
Il buio uccide le voci
che mimano dalle rocce,
soffocate dalle ortiche del fondo del pozzo
E un lamento,
un duro grido di protesta,
s’alza dal buio cuore del legno.
©riproduzione riservata
Nota
di Stefano Strazzabosco
Ghassan Zaqtan è uno dei poeti palestinesi più noti e riconosciuti all’estero. Nato nel 1954 a Beit Jala, vicino a Betlemme, ha vissuto in Giordania, Siria, Libano, Tunisia e attualmente risiede a Ramallah, in Cisgiordania. Ha pubblicato una decina di raccolte di poesia – tra cui un’importante antologia tradotta negli Stati Uniti per la Yale University Press -, quattro romanzi e un’opera teatrale. Sostenitore del movimento di resistenza palestinese, Zaqtan è stato editore della rivista letteraria dell’OLP, “Bayader”, del giornale di poesia “Al-Soua’ra” e della pagina letteraria del quotidiano di Ramallah “Al-Ayyam”. Fondatore e direttore della Casa della Poesia di Ramallah, Zaqtan è stato anche Direttore Generale del Dipartimento di Letteratura ed Editoria del Ministero della Cultura palestinese.
Le poesie che qui si presentano, tradotte dall’inglese e dallo spagnolo (ma scritte in arabo), danno conto della mescolanza di fatti personali e pubblici di cui si nutre la scrittura di Zaqtan, muovendosi in un’aria rarefatta da sogno o da incubo ma tenendo sempre ben presente la realtà della sua gente, costretta all’esilio, alla lotta e alla morte da decenni.
Zaqtan usa la memoria e la poesia come armi politiche: “visto che questi posti sono così incerti, che anche la nostra vita qui è così incerta, dobbiamo proteggere la nostra storia personale. Un intero popolo ha perso il suo futuro, ha perso la sua terra. E ovviamente la poesia è uno dei mezzi più potenti per arrivare alla gente. È per questo che i poeti sono stati i primi a ricordare al nostro popolo la sua identità”. Un’identità che in questi testi sembra fatta soprattutto di morti, perdite, assenze, mancanze, partenze, desolazione e macerie, ma in cui vibrano anche la resistenza, la dignità e la memoria, appunto.
Laicamente, pazientemente, con la forza dello scacco permanente, con la bellezza e l’intensità della parola, Zaqtan cerca e trova nella poesia quella giustizia che è negata a lui e al suo popolo, fedele all’esempio del maestro e amico Mahmoud Darwish, scomparso prematuramente nel 2008.
Oltre che in inglese e in spagnolo, Ghassan Zaqtan è stato tradotto anche in francese, in tedesco, in italiano e in norvegese.
1 Merkava: il principale carrarmato dell’Esercito israeliano.
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