“Weave, weaver of the wind”. Tessi, tessitore del vento.
In un passo dell’Ulisse di Joyce il personaggio e alter ego Stephen Dedalus si abbandona a balenanti riflessioni sulle possibilità della Storia. Cosa sarebbe potuto accadere se certi fatti non fossero avvenuti? “Se Pirro non fosse caduto ad Argo per mano di una vecchiaccia, o Giulio Cesare non fosse stato ucciso a coltellate. Cose che non si possono abolire con il pensiero. Il tempo le ha segnate col suo marchio, e in ceppi dimorano nel luogo delle infinite possibilità che esse hanno estromesso. Ma possono essere state possibili dato che non furono mai? O fu possibile solo ciò che avvenne?”.
Il richiamo a colui che tesse il vento sigilla i suoi vertiginosi interrogativi.
Dev’essere pura la devozione con cui Romano Augusto Fiocchi, autore del romanzo Il tessitore del vento edito da Ronzani a cento anni esatti dalla pubblicazione di Ulysses, gli rende omaggio riecheggiando nel titolo quell’espressione. Un romanzo, questo di Fiocchi, che con i paradossi e la vertigine del tempo gioca senza risparmio dal principio alla fine.
Ventisei i personaggi, per fermarci ai principali. Sono elencati come tali “in ordine di ingresso” in calce al libro. Da “Federico Grandi, disoccupato e scrittore inedito”, fino a “La Morte con la bautta”, che inevitabilmente chiude le danze.
Perché lo scrittore Federico Grandi sia a capofila dell’elenco è presto chiaro. È lui, in preda alle proprie ossessioni, responsabile ma soprattutto vittima del fatto che le ombre dei personaggi del libro che sta scrivendo escono dalle pagine nel cuore della notte contro la sua volontà e si affollano al suo cospetto raccontandosi. Dunque, facendosi protagonisti una seconda volta, perché finiscono per dare vita alla partitura del romanzo di Fiocchi. Tutto ha inizio davanti a un nauseato Grandi il quale vorrebbe arrestare con ogni mezzo le apparizioni, chiuso in una suite dell’Hotel Danieli di Venezia di cui è ospite. Un luogo che assurge così a teatro dell’assurdo.
Quella di Federico Grandi è una storia grottesca e tragica insieme. Ma sia benedetta la sua lucida follia, che dà lo spunto a Fiocchi per intrecciare i microcosmi di molte altre storie sugli sfondi veneziani. Si fa avanti una teoria di figure che a turno si ripresentano regolarmente prendendo la parola, in un vortice di narrazioni che conducono il lettore attraverso vie sempre traverse (pardòn, attraverso canali, calli, rii, campielli e sotoporteghi). Apprendiamo così la misteriosa morte di Annella Candiani, studentessa annegata in laguna, e la scomparsa di Laura Zulian di cui Annella è nipote. Ma veniamo a conoscenza, o attendiamo pagina dopo pagina la scoperta, di molto altro.
Tra i personaggi che entrano in scena, come non presentare anzitutto la figura imponente e disturbante di un mercante d’arte che si fa investigatore e che erra alla spasmodica ricerca della verità (anche di quella con la maiuscola), dibattendosi tra crasso e sublime?
“È lui al centro di ogni cosa e al centro di ogni storia. È lui, con la sua forza fisica e immaginativa che ha imposto il ritorno. Ha un nome splendidamente banale: Rubes Tavazzani”.
Ruolo chiave, complesso e ambivalente, quello di Rubes Tavazzani: antagonista, quasi un villain ma a tratti degno di compatimento se non di qualche tentazione di simpatia. Il timbro ricorrente della sua “voce roca, leggermente nasale” è un marchio inconfondibile che ci seguirà per tutto il romanzo, fino a L’Ultima Thule, pagine conclusive.
Senza dimenticare ovviamente le figure dell’editore Aldo Fongher, di Veronica Zulian madre di Annella, di Giovanni Cosulich poeta e insegnante di origini slave con l’appellativo di Foscoletto, innamorato follemente di Laura; e poi della dolce Cristiana Furlan, cameriera del Danieli dal ruolo affatto significativo, del vecchio gondoliere Alvise, della violinista ebrea Marta Ferrara, del fotografo Scipio Candiani, di Carlo Scarpa, omonimo del celebre architetto veneziano del XX secolo, ma più modesto portiere d’albergo, dell’oste Moreto, e così via. Impossibile qui dare conto di tutti.
La polifonia delle voci dei (doppi) personaggi si fa, a poco a poco, coro di una condizione umana tragicomica, sospesa tra amore, mistificazione, fallimento e morte. Ma l’eterno ritorno degli intrusi nella suite del Danieli genera una consuetudine sempre più gradita al lettore, via via che li conosce attraverso le raffigurazioni incise al bulìno che ne fa Fiocchi, sensibile alle loro psicologie e alle loro miserie, attento ai loro tratti e alle sfumature delle loro voci con descrizioni puntuali quanto argute e profonde.
Tanto più che le vicende individuali, nello sfiorarsi e intrecciarsi, mantengono viva la costante percezione di un mistero sovrastante. O, anzi, di più di un enigma. Ma nulla è prevedibile, le deduzioni logiche non bastano nell’universo de Il tessitore del vento.
Oltre a una morte per annegamento e a una scomparsa da indagare, un mistero che attraversa il romanzo è quello legato al celebre dipinto rinascimentale La Tempesta di Giorgione, conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia. Ed è anch’esso un arcano doppio: sia per il collegamento del dipinto con le vicende, sia per le ipotesi interpretative da capogiro che da sempre hanno tentato di schiudere il significato oscuro dell’opera, in cui taluno ritiene di scorgere anche riferimenti alchemici.
Nella storia è poi immanente il mistero del tempo. Se per il sommo Agostino di Ippona costituiva “fatto limpido e chiaro che né futuro né passato esistono”, Il tessitore del vento a una scansione temporale non sembra rinunciare affatto. Anzi, la struttura del romanzo è tripartita, dedicata a presente, passato e futuro, quasi come categorie ideali prima che come cronologia, non lineare, della vicenda. Ma i cortocircuiti non mancano. Gli orizzonti di pensiero sono ampi, tuttavia lo sguardo che li abbraccia rimane ammiccante, il tono è di intelligente leggerezza.
Abbiamo lasciato Federico Grandi nel suo lussuoso appartamento dal quale in prima pagina ha cominciato a parlarci angosciato alle tre di notte, alle prese con l’avvento inarrestabile dei suoi personaggi. Ma come si è ridotto in quella condizione? Lo scrittore, alla disperata ricerca di un editore che finalmente pubblichi una sua opera dopo i tanti, dolorosi rifiuti, è giunto a stringere un patto estremo, peggio del famoso contratto shakespeariano del Mercante di Venezia. Lo ha stipulato con uno spregiudicato direttore editoriale disposto sì a pubblicare il suo romanzo, ma a una condizione: che lui, l’autore, si tolga la vita di fronte al pubblico il giorno della presentazione. Garanzia, per l’editore, di grande risonanza e clamoroso successo di vendite e, per il povero Grandi, di un’agognata notorietà post mortem. Ecco perché il direttore Della Rocca si è fatto carico senza badare a spese di alloggiare lo scrittore presso uno dei migliori hotel di Venezia, dove Grandi da sei mesi si prepara all’evento. Ma il tempo è quasi al termine.
Volgendoci verso lo scrittore autentico, Romano Augusto Fiocchi, va segnalato, tra le curiosità, un suo vizio letterario mostrato in passato, quello di assumere cose inanimate come protagonisti narranti (ne è esempio il delizioso racconto Opernplatz, in cui a parlare è quel che resta di un libro); perché pure nel Tessitore si affacciano quasi come camei, accanto agli umani, oggetti personificati (una maschera ricalcata sul viso angelico di Annella e tre pipe). Intrusioni che si ammettono come naturali, senza avvertire forzature.
Così è per la personificazione suprema, quella della Morte. Appare pure lei, indossando “tricorno e bautta rigorosamente neri, marsina settecentesca, guanti di cotone color panna, un tabarro bruno” che scende per le spalle di sotto la bautta, il viso “nascosto da una maschera bianca”. “Sono ciò che sarà”, afferma beffarda palesandosi sulle Fondamenta Nuove, di fronte all’isola di San Michele. La vediamo a un certo punto in scena, benché non in volto, in un romanzo in cui Eros e Thanatos giocano a rimpiattino. Leggiamo di scomparse e di morti, vere, pattuite o in tabarro, ma pure di sentimenti d’amore così come di pulsioni assai meno nobili, inconfessabili ma confessate senza sconti.
La stessa Venezia non è un semplice scenario del romanzo.
La città dei Dogi, come osservava Raffaele La Capria nella prefazione al libro di Predrag Matvejević L’altra Venezia, è man mano scomparsa sotto le rappresentazioni che ne sono state fatte, che hanno reso tutto un déjà-vu e che anzi si sono sostituite, come un luogo comune, alla realtà rappresentata, sovrapponendosi. La Venezia di questo romanzo non difetta certo delle più classiche icone dell’immaginario veneziano. Ma la cura, possiamo dire l’attenzione filologica di Fiocchi nel descriverle (dalle maschere, ai costumi, alle gondole, ai pupparini che gondole non sono) tradisce un grande amore. Allo stesso tempo la Serenissima del Tessitore è una città corrosa, dal mare e dal turismo di massa soffocante – troviamo notazioni sarcastiche su questo aspetto –, messa a nudo, che lancia un grido di dolore. Ma appare anzitutto come una creatura magica, colta da un occhio visionario. Memore della propria Storia, ma atemporale e metafisica. Essa stessa, infine, personificata, eccola a pagina 13 con la sua voce “asessuata e metallica” (costumi e sonoro sono da Oscar in questo romanzo), le “lunghe vesti arabescate”, e ammonisce “Non si possono affogare le storie”.
Insomma, è una Venezia vera oltre il velo e oltre il vero. E alla fine di tutto, non solo metaforicamente, ogni sovrapposizione di orpelli del comune immaginario svanirà: “Non un fiore di plastica. Non un cuscino ricamato con arabeschi. Non una fisarmonica abbandonata. Non un remo. La gondola è nuda” (siamo quasi al redde rationem conclusivo).
Tra le infinite sfaccettature della Venezia del Tessitore potremmo persino scorgere certi aspetti grotteschi e onirici, di commistione tra realtà concreta, anche bassa, ed elevazione al sogno, del cinema di Federico Fellini, che sul soggetto della Città dei Dogi progettò un film mai realizzato, pensato come “Un gioco di ombre e di luci, un racconto visionario, fantastico, stratificato, metà in costume, metà attuale, metà inventato, come se in quell’unico elemento liquido su cui galleggia Venezia si fossero per l’appunto dissolti i confini del tempo e dello spazio”: parole del Maestro – il quale un’altra opera ambientata a Venezia in effetti realizzò, Il Casanova, film visionario del 1976 – che si potrebbero prendere a prestito per questo romanzo.
Come esempio di concretezza che si mescola al fantastico il romanzo ha, se si può dire, una forte nota sensoriale, ed è un suo tratto davvero notevole. Odori e sensazioni tattili, luci, ombre, cromatismi, musiche, timbri di voce e suoni formano una tela di contrappunti che va a comporre le atmosfere. Con l’avvertenza che “Per le cose più ineffabili non ce n’è come utilizzare i sensi meno nobili, l’olfatto e il tatto”, Rubes Tavazzani dixit.
Anche il piacere dei paradossi disseminati è una bella qualità. Basti dire che oltre al patto sciagurato di Federico Grandi ne conosceremo un altro, singolare, stretto da un novello Faust al contrario perché sarà lui, da buon mercante (immaginate chi?), ad acquistare un’anima da un’entità sulfurea, anziché vendere la propria…
Il tessitore del vento è un romanzo sorprendente, letterario. È un universo che tutto racchiude entro orbite irregolari, e dove tutto si specchia nel suo opposto.
Arduo ricondurlo a un genere, la creatura è refrattaria a una classificazione. Giallo metafisico, a sfondo storico-artistico? L’abito sta stretto. Le ombre ectoplasmatiche dei narratori, certe epifanie lagunari e il surreale della vicenda fanno pensare a un lungo strange tale? Non è così. Realismo magico? Forse, nel senso che si accetta e si vive il sovrannaturale della vicenda come perfettamente naturale, con una logica e un realismo talvolta molto tangibile e corporeo. Genere grottesco? Anche, ma i toni sono vari e modulati. Romanzo filosofico? Irrompe addirittura il lampo di una deriva fanta-apocalittica.
Di metaletteratura si può parlare, questo è sicuro, e di mise en abyme, essendo evidente che si tratta (pure) di un romanzo sulla possibilità di un romanzo e sul valore della scrittura; di un autore che scrive di un autore allo specchio; di personaggi che al modo di Pirandello escono dalla carta (ma qui sono più di ventisei, non sei, e non tutti di specie umana, e l’autore non lo ricercano, è lì davanti a loro in una stanza d’hotel); di strati della storia che si sovrappongono; e si tratta per di più di un prodotto editoriale che si interroga con esito dissacrante su un certo mondo dell’editoria (si gustino i connotati del tristo direttore editoriale Della Rocca). Molti poi i rimandi e le citazioni letterarie, pittoriche, musicali, funzionali alla narrazione.
Interrogarsi sul genere o sullo stile di questo originale romanzo dai dieci livelli e più, che spazia dalla vertigine dell’abisso al gusto delle sarde in saòr, rimane in fin dei conti un esercizio retorico superfluo. Se mai si potessero rintracciare, se non modelli ispiratori, dosi omeopatiche di grandi autori del Novecento, i nomi potrebbero essere quelli di Garcia Marquez, Calvino, Buzzati. Ma la paternità di quest’opera resta tutta di Romano Augusto Fiocchi. Il quale, in una intervista, confessa un Pantheon personale occupato da Joyce (l’omaggiato), Garcia Marquez e Perec.
Ciò che più importa è che Il tessitore del vento può dirsi ispirato anzitutto da un indubbio rispetto per la scrittura. La struttura complessa e frammentata è accompagnata, oltre che da una corrente immaginifica ricca, da uno stile accurato e suadente, mai gratuito. Fiocchi sa variare i registri dal sarcastico allo struggente e oltre, mantenendo un fil rouge di ironia e, in fondo, di sornione voyeurismo per la bizzarra galleria delle figure. Non ridotte però a parodie fini a sé stesse ma vive, emblemi di un’umanità tormentata o deprecabile, inscritte loro malgrado nel grande Gioco cosmico, come in un moderno universo di Hieronymus Bosch.
Le quasi quattrocento pagine seguono percorsi labirintici, sfuggono a un centro di gravità e risultano ambiziose. Eppure scorrono fluide, con l’ebbrezza di un aperitivo opalescente (a base di bitter venezianissimo, ovvio) centellinato al tramonto di fronte all’isola di San Giorgio. A patto naturalmente che il lettore sia disposto, come dev’esserlo un vero viaggiatore, a perdersi lungo la via e indugiare per il piacere raffinato di farlo. Senza chiedere alla narrazione di giungere a una meta in tempi certi o di ricondurre necessariamente all’ordine il caos.
Quanto all’epilogo, la platea di questo teatro fluttuante verrà pilotata in una dimensione futura – siamo nella parte terza del libro – incontro a un orizzonte d’acqua escatologico. Quale sorte conoscerà la Serenissima, con il suo piccolo scettro di corallo rosso? E a decretarla sarà un’Apocalisse o la penna di Federico Grandi?
Forse ci attende un finale aperto che non estromette affatto altre “infinite possibilità”, per rubare le parole a Stephen Dedalus. O forse verremo colti dal sospetto di un’inquietante circolarità. Non si può dire. Di certo assisteremo a un ultimo paradosso.
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Romano Augusto Fiocchi è scrittore e giornalista pubblicista e collabora con il blog letterario Nazione Indiana. Nel 1983 è stato finalista al premio di poesia Guido Gozzano, ha pubblicato un centinaio di racconti suddivisi in varie raccolte, tra cui Racconti da un mondo offeso (2018). Nell’ambito di questo genere, nel 2009 ha vinto il premio InediTo-Città di Chieri e Colline di Torino con Il gatto del soldato e nel 2013 il premio Le storie del Novecento con Opernplatz. Su invito del curatore Francesco Permunian ha partecipato nel 2020 all’opera collettanea Piccola antologia della peste (anch’essa edita da Ronzani) con il racconto Civico trentanove: il suo nome compare, fra gli altri, accanto a quelli di Laura Pariani, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Silvio Perrella.
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Marco Reali è nato a Pavia nel 1962. Nel campo della narrativa è autore di Verità o conseguenze, raccolta di racconti pubblicata dall’editore La Vita Felice (2014).
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