RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

“Il tempo è un altro – Dialoghi con Anna Maria Ortese“, a cura di Ivana Margarese / Intervista di Michele Andronico

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Anna Maria Ortese

MICHELE Con questo saggio pubblicato nel febbraio 2025, Ivana Margarese si cimenta per la terza volta in una sperimentazione letteraria che ha il fascino del collettivo e la peculiarità di un canto al femminile. Fondatrice e direttrice editoriale della rivista Morel, voci dall’isola, Ivana ha conseguito un dottorato in Studi culturali all’Università di Palermo e un postdoc in Cinema documentario presso l’Università Elte di Budapest. È stata docente a contratto di Teoria della letteratura all’Università degli Studi di Palermo. Ha curato Ti racconto una cosa di me (Edizioni di passaggio 2012), I miti allo specchio (Mimesis 2022) e Tra amiche (Les Flâneurs, 2023) e ha pubblicato racconti in diverse antologie. Fa parte della Società italiana delle letterate, collabora con le riviste Leggendaria e Letterate Magazine e Dialoghi mediterranei. Da quest’anno è curatrice della rassegna letteraria Transiti che si svolge nel mese di luglio a Filicudi.

Il progetto per una rilettura di Anna Maria Ortese nasce nel 2024, in occasione del centodecimo anniversario dalla sua nascita e viene alle stampe per Iacobelli Editore nel febbraio 2025.  Margarese aggrega intorno a sé undici studiose che affrontano gli ambiti della produzione letteraria (inclusa quella epistolare) di Ortese. Il testo raccoglie, infatti, oltre il suo, undici altri contributi critici di Monica Acito, Lea Barletti, Lilia Bellucci, Annachiara Biancardino, Rossella Caleca, Gianna Cannì, Lavinia Mannelli, Gisella Modica, Giusi Murabito, Nina Nocera, e di Rebecca Rovoletto.

Già in passato Ivana ha curato e costruito opere collettive al femminile. Come in “Tra amiche” (ed. Les Flaneurs 2023) in cui indaga il tema della solidarietà femminile – negata nel canone dei trattati tradizionali – partendo dal mito, con un suggestivo dialogo immaginario tra Cassandra ed Ifigenia. Oppure ne “I miti allo specchio” (ed. Mimesis 2022) dove Circe, Arianna, Elettra, le Sirene sono liberate dall’archetipo della narrazione maschile. E come nelle precedenti esperienze, anche stavolta l’approccio è multidisciplinare. “Il Tempo è un altro – Dialoghi con Anna Maria Ortese” – pubblicato da Iacobelli Editore nel febbraio 2025 curato da Ivana Margarese con prefazione di Monica Farnetti – si articola, infatti, in nove saggi, due racconti ed un dialogo teatrale.

L’occasione è data, come anticipato, dal centodecimo anniversario dalla nascita di una delle scrittrici più interessanti nello scenario italiano dagli ultimi anni ’30 del Novecento fino al termine del secolo e del millennio. Un bel modo non per celebrare, ma per approfondire riflessioni e suggestioni ancora di estrema attualità. E, soprattutto, per ridare visibilità ad un’intellettuale talvolta trascurata non solo dalla critica ma anche dal milieu letterario di cui pure faceva parte a pieno titolo.

Incontro Ivana Margarese alla Libreria Cuori d’inchiostro di Vibo Valentia per la rassegna Il maggio dei libri. Ed al termine della presentazione di questo volume ci intratteniamo a discuterne.

“Il tempo è un altro. Dialoghi con Anna Maria Ortese” a cura di Ivana Margarese, Iacobeli Editore

Bello ritrovarsi ancora qui, Ivana – stavolta per il “Maggio dei libri” – a discutere del tuo ultimo lavoro su Anna Maria Ortese. Conosco da tempo il tuo approccio collettivo ed al femminile. Non solo metodo, ma rappresentazione del tutto nuova che, dopo aver ridotto in frammenti gli stereotipi maschili ricompone l’immagine in una nuova prospettiva, un nuovo “unum”, quasi un caleidoscopio. Nell’incipit della tua introduzione scrivi: “Questo libro è una tessitura a più voci… Una partitura di scritture che non offre una trattazione sistematica o scientifica dell’opera della scrittrice, ma piuttosto raccoglie conversazioni e domande… una maglia di scritture intrecciate… attraverso il luogo mobile e non codificato del fare esperienza insieme”. Sembra un manifesto programmatico… 

«Innanzi tutto, Michele, ti ringrazio per la domanda. In effetti, hai ragione, lo è perché ciò che ho proposto alle autrici del libro è stata una sperimentazione che permettesse a ciascuna di noi, dalla sua posizione, di raccontare Ortese, o meglio quanto la lettura dei testi di Ortese avesse irrorato le nostre pratiche quotidiane e contribuito a ampliare il nostro sguardo sul mondo, avvicinandoci a temi importanti come la questione etico-ecologica e cosmo-politica. Il libro offre un processo di diffrazione che vuole essere un omaggio alla natura composita e fluida di questa scrittrice e alle sue, come scrive Monica Farnetti nella Prefazione, “incalcolabili diramazioni” in modo da riflettere attraverso più punti di vista l’opera feconda e sensibilissima di questa rabdomantica autrice».

Anna Maria Ortese, dunque. Una intellettuale dalla vita riservata e sovente solitaria. Una scrittrice cui il milieu letterario – cui pure apparteneva di pieno diritto – non ha riservato forse l’attenzione che avrebbe meritato. 

«Anna Maria Ortese ha avuto una vita segnata da solitudine e nomadismo. Non ha frequentato la scuola regolarmente per questioni inizialmente di salute – da bambina a sette anni si ammalò gravemente ai polmoni – e poi per scelta dopo i quattordici anni. Non si è sposata né ha avuto figli, ha vissuto con la sorella in condizioni economiche precarie, raramente si è avvicinata ad altre scrittrici o scrittori. Di questo sentimento di inquietudine e estraneità al mondo, oltre che nelle sue opere, troviamo ampia testimonianza nelle lettere a Franz Haas e all’amica Helle alla quale scrive nell’aprile del 1938 quando non ha ancora venticinque anni: “Io sono una ragazza piena di tanti difetti e tante pene, una ragazza svogliata, che non ha mai voluto andare a scuola (e perciò teme sempre di fare errori di grammatica), una ragazza che qualcuno ha spinta generosamente nella luce, ma che ora è rientrata nella sua naturale ombra, e si sente così triste, sapessi, cara Helle, triste da vedere a volte tutto il mondo con occhi placidamente disperati”».

Anna Maria Ortese

Partiamo dai suoi esordi. E dall’influenza che i continui trasferimenti in Italia e all’estero per il lavoro del padre hanno avuto sul suo modo di osservare il mondo. Ortese incontra fin da bambina la diversità. E con questa si confronta per tutta la vita adulta. Penso, in prima approssimazione, alla lunga permanenza a Napoli, la città magica che le ispira una delle sue prime opere, Il Monaciello di Napoli. Quanto questa continua “addizione” di esperienze e di visioni negli anni della infanzia e della adolescenza ne ha influenzato il percorso letterario? E soprattutto quanto il magico di una città che conserva nelle sue viscere il mistero dell’Uovo di Virgilio ha contribuito alla formazione di una visione universale e compassionevole del mondo? E della vita nel suo complesso, non solo quella degli umani ma le vite tutte dell’intero creato?

«Dopo aver vissuto in Libia con la sua famiglia per tre anni, dal 1925 al 1928, dagli undici ai quattordici anni, esperienza che fu per lei determinante e che descrive come un’esperienza dello spazio, un sentirsi all’interno della natura anziché fuori, un vivere non avendo alcun nome come una pianta, Anna Maria Ortese si trasferisce a Napoli, una città che le appare lacera e antica, dove trascorre intere giornate a camminare per la città senza prendere mai un autobus o un tram per mancanza di soldi, al pari di Dasa ne Il Porto di Toledo. Ne L’Infanta sepolta descrive Napoli come una città dove “tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato” si trovano a essere saldamente strette, amalgamate tra loro, quasi si trattasse di una orchestra i cui strumenti invece di obbedire alla bacchetta intelligente del Maestro, si esprimessero ciascuno per conto proprio suscitando effetti di meravigliosa confusione.

Questo vagabondare di Ortese attraverso spazi, volti e suoni, ha certamente influenzato la sua scrittura ondivaga e pluriforme, gli intrecci ibridi, la visione ‘allargata’ del reale. Cosetta Zeno definisce lo stile di Ortese con una bella espressione: “avventuroso realismo”. Uno stile che non sceglie di imprimere la propria azione o ordinare separando qualcosa da qualcos’altro, ma segue più una percezione, un ascolto, e si richiama alla sapienza dell’attesa.

Traendo ispirazione da queste considerazioni, Il tempo è un altro. Dialoghi con Anna Maria Ortese è un progetto che si propone non come operazione di critica letteraria ma come costellazione di soglie attraverso cui osservare la poetica di Ortese. Uso il termine soglie con un riferimento a Benjamin de I «passages» di Parigi, ovvero a uno spazio permeabile dove è possibile sostare senza definirsi in contrapposizione ad altro, senza praticare il conflitto come chiave dell’esistenza, ma piuttosto contemplare sguardi diversi, abbracciando la complessità. Mi viene anche in mente un testo prezioso e fulminante di Maria Zambrano, pensatrice affine alla sensibilità di Ortese, La tomba di Antigone, in cui si susseguono incontri sulla soglia, tra veglia e sonno, per permettere alla giovane figlia di Edipo di darsi nuova nascita oltrepassando il peso mortale dei suoi destini familiari» .

Il Maggio dei libri. Libreria Cuori d’inchiostro di Vibo Valentia, presentazione del libro con, da sinistra, Francesca Griffo, Ivana Margarese, Michele Andronico, Luciana De Palma.

Il mare non bagna Napoli, raccolta di racconti, segna nel 1953 il suo affacciarsi alla notorietà, ma anche una contemporanea cesura con quel mondo della rinascita post-bellica partenopea che si era ritrovato intorno alla rivista Sud-Giornale di cultura di Pasquale Prunas. Ho la sensazione che la vicenda della piccola Eugenia – nel primo racconto “Un paio di occhiali” – sia emblematica del suo stesso percorso. Dal “giubilo segreto” del “Mammà, oggi mi metto gli occhiali” allo smarrimento e svenimento finale per la realtà, finalmente vista e non solo appresa e costruita dalle e sulle parole degli altri. Uno smarrimento che la gente del vecchio palazzo immagina conseguente alla elevata graduazione delle lenti: Eugenia ha una forte miopia che l’ha resa, finora, quasi cieca. Ortese, però, sembra insinuare un dubbio sulla realtà e sul suo racconto. Dubbi che lei stessa forse chiarirà nella nota e margine di una nuova edizione nel 1994.     

«Il mare non bagna Napoli è tra i libri più letti di Ortese. Ho condiviso in una classe di terza liceo il racconto che citi, “Un paio di occhiali”, coi miei studenti e ho chiesto loro di scrivere una riflessione in merito. Mi sono divertita a osservare le loro differenti percezioni e quanto acutamente riuscissero a individuare facilmente i temi del racconto e il sentimento di illusione e disillusione della protagonista. Rispondo alla tua domanda riportando questo piccolo esperimento didattico che a mio parere testimonia, nonostante l’uso di un linguaggio talvolta faticoso, la capacità di comunicare semplicemente».

Uno dei saggi è dedicato all’analisi del “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”. Un rimando forte ancora a quella città che l’ha vista formarsi fuori da ogni canone scolastico, tra strada e letture e a quel “giovane favoloso” – suo l’appellativo che Martone sceglierà come titolo del noto film – la cui tomba “in un paese di luce” Ortese, con incedere claudicante (quanto di reminiscenze classiche c’è in questo?) va a visitare in silente dialogo.   

«Il saggio di cui mi chiedi è di Lilia Bellucci, studiosa attenta di Ortese, a cui ha dedicato alcuni libri. Il riferimento è al racconto della visita alla tomba di Leopardi, poeta assai caro alla scrittrice, che lo sente affine sia nella solitudine (“Forse nessun uomo fu più solo”) sia nel sentimento della vita che gli è appartenuto fortemente (Il sentimento della vita sì bella e fugace lo dominava come un prodigio) e che lo spingeva a vedere e ad ascoltare andando oltre gli oggetti semplici verso ciò che di arcano e inafferrabile c’è nel mondo. Scrive Ortese in Corpo celeste: “Se tu ci pensi, si scrive infatti perché si è tristi, perché tutto questo – la seconda natura, con quanto implica di rinnovamento e di gioia – non c’è, o è tenuto distante: oppresso da un inganno, un potere strano, che ne rimanda in eterno l’avvento”».

Di quest’opera hai curato il progetto, l’architettura e l’introduzione. Ma hai anche dato un tuo singolare contributo raffrontando l’opera di Ortese con quella di Cristina Campo. Al lettore dici subito che “c’è filosofia ovunque ci sia pensiero e di pensiero originale… dà prova molta scrittura letteraria”…

«La frase riprende una riflessione di Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione: la vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo. Affermazione che restituisce bene la ragione per cui da giovane ho deciso di iscrivermi a Filosofia. Da studentessa universitaria ho inoltre apprezzato le bellissime pagine che il filosofo francese dedica alla pittura di Cézanne, su cui tornerà più volte in vari scritti e in cui si mostra come lo spazio sia legato a noi in modo organico e le cose siano molto più di una semplice somma di elementi o qualità.

Quest’atmosfera sorgiva, intreccio tra visibile e invisibile, su cui si sofferma Merleau-Ponty, mi ha probabilmente spinta a citarlo all’inizio del saggio dedicato a Ortese e Cristina Campo, entrambe animate da una ricerca di fili invisibili nel visibile. Ortese dichiara di credere in ciò che non vede; Campo associa con un’immagine efficace il destino a un tappeto di meravigliosa complicazione del quale il tessitore non mostri che il rovescio: “Solo dall’altro lato della vita – o per attimi di visione – è dato all’uomo intuire l’altro lato”».

Sempre nel tuo saggio – La Chimera, che sottotitoli Note per immagini – analizzi anche la relazione tra l’opera letteraria di Ortese e la cinematografia di Alice Rohrwacher. Ti soffermi su Corpo celeste – che darà copiosa linfa al suo primo, omonimo, lavoro cinematografico – e su La Chimera. Quanto “sguardo dell’altrove” passa dalla letteratura di Anna Maria Ortese in queste due opere cinematografiche che citi nel tuo saggio?

«Alice Rohrwacher è una regista che apprezzo perché fa un cinema di ricerca che non si propone di intrattenere ma di far riflettere, anche con linguaggi non immediati o compiacenti. A Rohrwacher appartiene la tensione verso l’invisibile propria di Ortese (e Campo), il desiderio di restituire alle cose, alle persone, un lato invisibile. L’ultimo suo film, La Chimera, mostra un’umanità derelitta, assillata dalla miseria, che diviene «uno straordinario luogo di osservazione della realtà». Ne La Chimera ci troviamo a contatto con un mondo profanato, dove non c’è più niente di sacro. Non è più sacra la natura, i boschi, i corpi delle persone. Nel dialogo con Goffredo Fofi la regista dice: «Fare vuol dire proporre uno sguardo, uno sguardo dall’altrove […]. Per contemplare infine sguardi diversi, per accettare la complessità, la contraddizione, e muovere un passo verso la pace». Anche Alice Rohrwacher mi pare quindi offra una visione poetica della soglia che si sottrae a una logica di dicotomie e fazioni e invita a un dislocamento di sguardo, a quel “making kin” di cui scrive Donna Haraway e di cui Ortese è luminosa anticipatrice».

Le opere di Anna Maria Ortese sottendono sempre – come un basso continuo nel barocco musicale – un sentimento di comunione con il creato in una sensibilità profeticamente antesignana dei più recenti movimenti ecologisti. E l’assunto che non esista salvezza individuale se non sia anche collettiva. Mi sembra di risentire Simone Weil…    

«Angela Borghesi dedica un saggio che vale la pena di citare, leggere e rileggere, al legame di Elsa Morante e Anna Maria Ortese con Simone Weil, che l’autrice non esita a definire tre donne estreme. A entrambe le scrittrici appartiene lo sguardo creaturale, attento «agli ultimi tra gli ultimi», e la fede in ciò che è inafferrabile – salvifico è ciò che non si vede, che appare nascosto – si ritrova in Simone Weil. Nella filosofa troviamo inoltre una critica della pretesa dell’uomo a considerarsi il centro dell’universo e un invito a riconoscere che tutti i punti del mondo sono centri a pari titolo. Infine Ortese e Weil possono essere accomunate da un sentimento d’esilio che le porta a non riconoscersi all’interno della società della forza, come avviene per Jaffier, lo straordinario protagonista di Venezia salva».

Siamo giunti alla fine del tempo a nostra disposizione. È tardi, non possiamo approfittare oltre dell’ospitalità della libreria Cuori d’inchiostro; la serata fresca, poi, sembra dissuaderci dal proseguire alla terrazza di un caffè. Lasciamoci allora su un arrivederci con il prossimo lavoro: il tuo sguardo mi dice che è già un progetto. Sbaglio? 

«Non sbagli, anche se si tratta di un progetto che sta venendo fuori lentamente e che si rivolge alla riscoperta di scrittrici nate in Sicilia, come la bravissima Laura Di Falco, che in vita ebbe riconoscimenti e premi ma che oramai è pressoché dimenticata. La casa editrice siracusana VerbaVolant, diretta peraltro da una sua pronipote, ha curato la ripubblicazione dei suoi romanzi e spero questo possa contribuire alla sua riscoperta».

Impaziente di leggerti ancora. A presto, allora…

Michele Andronico


Immagine di copertina HG Studios, Il tempo è altro


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