Il silenzioso affiorare di un uomo e di un poeta alla luce del suo puro spirito
Serata dedicata a Luciano Cecchinel, Auditorium Stefanini – Treviso, 10 novembre 2017
di Diego Lorenzi
La rivista culturale Finnegans aveva dedicato alcuni mesi fa un lungo reportage al poeta di Revine Lago Luciano Cecchinel, quale voce poetica tra le più elevate, in considerazione di una scrittura impervia e lussureggiante, accorata e forte, densa eppur soffice e cristallina, arcaica e così contemporanea e familiare. Preceduta dai saggi di due critici del calibro di Pietro Gibellini e Matteo Vercesi, si è snodata lungo il percorso editoriale un’intervista che, curata dal sottoscritto e dall’amico Giuseppe Stefanel, ha attraversato in lungo e in largo quasi tutta la vita del poeta, dalla giovinezza all’ultimo periodo, sostando nelle piccole e grandi stazioni di viaggio della sua esistenza.
In chiusura, a fare da contrafforte all’intera costruzione narrativa, è stata inserita una prima selezione di poesie, curata dal poeta stesso e, in aggiunta, un ampio stralcio di commenti critici selezionati da Matteo Vercesi.
La serata di venerdì 10 novembre, dunque, è approdata all’auditorium Stefanini di Treviso come punto d’arrivo dell’intero itinerario letterario ed editoriale iniziato una domenica di febbraio scorso nella casa di Luciano Cecchinel a Revine Lago. L’appuntamento – soprattutto per molti di noi estimatori dei suoi versi e della sua figura umana e poetica che si staglia nitida e imponente all’orizzonte delle nostre passioni letterarie – era molto atteso. Avevamo scelto questo luogo perché volevamo inserirlo in una cornice consona alla natura e statura di poeta appartato ed essenzialmente «privato», un vicino di casa gentile e ospitale, nonché un uomo di lettere colto e geniale, che è entrato nel palcoscenico artistico sommessamente e quasi di sbieco attraverso la sublime porta di servizio della poesia e per la cui grandezza siamo qui a celebrarlo come merita. Ed infatti l’auditorium si è rivelato una perfetta ambientazione per la circostanza poetica.
E così, il piccolo apparato celebrativo è entrato in azione: Luciano Cecchinel al centro della scena, affiancato da Giovanni Turra, che ne ha analizzato l’opera, sulla quale ha scritto dei saggi rilevanti, con il suo acume di critico e la sua sensibilità di poeta; da un critico-moderatore, Giuseppe Stefanel, che ha conosciuto l’autore da vicino e intimamente per poterne parlare in maniera autorevole, dalla padovana Carla Stella, un’attrice con nutrienti quanto importanti frequentazioni poetiche e letterarie e da Alessandro Radovan Perini e Michele Costantini, un duo di musicisti-chitarristi che ha armonizzato la serata, attraverso un contrappunto attraversato da istanze e riflessioni poetiche.
Le considerazioni di Turra si sono concentrate in particolare su alcuni testi poetici, a partire da Al tràgol jért, esordio in lingua dialettale del 1988, per finire con i suoi ultimi lavori, In silenzioso affiorare (2015) e Da un tempo di profumi e gelo (2016), transitando attraverso Sanjut de stran (2011), Le voci di Bardiaga (2008), Lungo la traccia e Perché ancora (2005).
Senza entrare a capofitto nel denso e articolato commento critico che ha innervato l’intero arco della riflessione sulla poetica cecchineliana – per cui rimandiamo per l’approfondimento alla lettura delle poesie e delle recensioni critiche apparse in Finnegans – sentiamo di dover mettere in evidenza il terreno fondativo di gran parte della poetica di Luciano Cecchinel, quella «civiltà contadina» o nel suo caso, meglio «silvo-pastorale», che fa parte della sua prima autobiografia. Su quell’humus originario sono poi attecchite, per conviverci simbioticamente, vicende storico-politiche e sociali esposte in chiave poetica, come la guerra, l’emigrazione, l’abbandono della terra e l’urbanizzazione industriale, e di seguito su tutte, le luttuose vicende familiari, tatuate nella mente del poeta in maniera indelebile e oggetto di molte composizioni ed intrecci sempre più fitti con tutte le sue innumerevoli dimensioni, letterarie, umane e civili: la resistenza, la sopravvivenza, la solidarietà, l’amore per gli altri, il dolore, la pietas, il «movente più forte, al punto da indurre il poeta alla catalogazione amorevole delle tracce dei tanti che furono travolti dagli sconvolgimenti della storia, sottraendoli così a un precipite oblio» (…), (G. Turra, da La parola scoscesa, Marsilio 2012).
Luciano Cecchinel, ha osservato poi Turra, è un poeta plurilingue: ha scritto nella parlata di Revine-Lago, in italiano (un italiano di ascendenza anche illustre, con frequenti tratti primonovecenteschi) e, episodicamente, in inglese (Lungo la traccia), sulla scia dell’emigrazione trentennale di suoi avi negli Usa, dove sua madre è nata e cresciuta. Ma tratto distintivo della sua poesia è l’uso del dialetto, che è stato all’origine dell’espressione del suo universo interiore, all’interno del quale il suo «io poetante» ha attraversato la natura arcaica delle sue contrade e del loro paesaggio naturale, quell’idioma di Revine Lago di cui il poeta ha spesso messo a frutto le «potenzialità fonico-ritmiche, affidandosi alla capacità generativa di quei suoni».
Basta intraprendere la lettura dei due testi-cardine della sua opera dialettale, Al tràgol jért e Sanjut de stran, per essere penetrati dalla bellezza, dalla forza e dalla pregnanza poetica delle sue composizioni, qualità che si estendono comunque anche agli altri testi, in lingua italiana e in lingua inglese. E a proposito del richiamo alla raccolta italoamericana – o romanzo in versi come lo chiama il critico Maurizio Cucchi –, Turra ha sottolineato come molte poesie di quest’ultima, ma anche di quelle in dialetto, gli ricordino il procedere del grande poeta americano Walt Whitman, in riferimento soprattutto ai versi lunghi a giustapposizione di sintagmi nominali, in special modo nel primo caso soprattutto in Addio strada percorsa, Suite appalachiana e Junction to W. Va, nel secondo in Cantar del bòsc, in Cantar del prà e Angonìa de primavera. Per sottolineare poi come la tavolozza pittorica delle immagini poetiche, dalle «colorazioni fredde e cupe a un tempo», rimandino all’espressionismo letterario del primo Novecento, da Rebora a molti poeti cosiddetti «vociani» (dalla rivista «La Voce», fondata da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini) e poi a Block, Esenin, Mandel’štam, ecc., soprattutto per la natura e le sperimentazioni del linguaggio, un linguaggio nutrito spesso di immagini e figure che si fondono talvolta tra loro secondo le condensazioni proprie di un’attività onirica.
E veniamo brevemente al poeta, giacché tutto attorno a lui affluiva e risuonava. Va detto che, al di là di alcune osservazioni e considerazioni specifiche in risposta alle sollecitazioni interrogative dei due interlocutori sulla natura di alcuni aspetti della sua scrittura – per cui si rimanda alle considerazioni soprattutto dei professori Giorgio Agamben1 e Pier Vincenzo Mengaldo2 –, è sembrato che Luciano Cecchinel abbia disseminato il tragitto narrativo e celebrativo della serata di lunghi silenzi, di attoniti e invitanti sguardi evocativi e invocativi, quasi dissimulando un’intima felicità ritrovata (e pur sempre dolorosamente tenuta a bada), e poi di intense luminescenze poetiche che dissolvendosi a poco a poco lasciavano tutto lo spazio alla manifestazione pubblica del suo puro spirito.
Ma ben altri quattro protagonisti hanno occupato egregiamente la scena letteraria e musicale, attraverso alcune performance che hanno inciso notevolmente sul livello qualitativo dell’evento, dispiegando un canovaccio armonico di grande efficacia. Parliamo del moderatore Giuseppe Stefanel, raffinato critico cinematografico e nella fattispecie letterario, che ha diretto il piccolo ensemble con maestria, inserendosi spesso e volentieri nel dialogo serrato tra il poeta ed il critico presente, tra l’attrice e il duo musicale, incalzando i due protagonisti con sollecitazioni ed acute osservazioni critiche, inseguendoli sul loro terreno prediletto, mettendo in scena quasi una partita di caccia sulle tracce di probabili disseminazioni poetiche, significati nascosti o non ancora svelati, illuminandone spesso le fessurazioni con richiami e rilievi esplorativi di indubbio valore semantico e filologico.
Dell’attrice Carla Stella e della sua indiscussa capacità di rigenerare la parola poetica e di farla risplendere di nuova luce s’è detto in varie occasioni: secondo chi scrive è una delle poche, autentiche attrici presenti sulla scena artistica e letteraria veneta e nazionale che riescono ad interagire col testo che scorre e a farlo vibrare in assonanza con i significati, i suoni e i colori più autentici che sprigionano dai versi di un autore. E anche in questa serata ha dispiegato il suo grande talento descrittivo e interpretativo restituendo alla poesia un‘impareggiabile dignità espressiva, una ricchezza di sonorità perdute e ritrovate, un caleidoscopio di suggestioni e di pulsioni emotive – in particolare sugli strazianti e straziati versi di Cecchinel dedicati alla figlia perduta – di lancinante e atroce bellezza, facendo quasi germogliare il proprio «canto» negli interstizi segreti di alcune «stanze» fittamente poetiche. Terminando la sua «orazione» in memoriam con un soprassalto emozionale che si è librato a lungo nell’aria come un’autentica intermittenza epifanica: quell’invocazione Silvia meritavi ben di più che ha inciso l’atto sublime della creazione poetica zanzottiana nella sfera più sacra dell’intimo cecchineliano. L’attrice ha quindi valorizzato, pariteticamente alle composizioni poetiche scelte per la serata, degli stralci da recensioni, in particolare di Franco Brevini, Andrea Zanzotto e Cesare Segre.
Ed ecco affacciarsi, a questo punto, il duo di chitarre, dapprima timidamente – come da partitura sonora – riversandosi lentamente e quasi magicamente sul palcoscenico poetico. La musica scorre in delicati effluvi sonori: le corde vibrano e fanno tutt’uno con l’eco dei versi sospesi nell’aria, il timbro è luminoso e raffinato, impreziosito dal calore delle vecchie chitarre d’epoca, la delicata partitura dispone le antiche melodie con una ricchezza timbrica e figurale fantasmagorica. Si assiste qua e là ad una spiritualizzazione del linguaggio musicale offerta dalla suggestione poetica dell’evento e da un’interpretazione personale di assoluto livello; nessun accenno a lusinghe effettistiche, ma molte occasioni virtuosistiche come si addice alle composizioni dei due autori presentati: l’italiano Mauro Giuliani (1781-1829)3 e il croato Ivan Padovec (1800 -1873)4 autentici innovatori del linguaggio musicale dell’epoca, il primo più del secondo, ma tant’è.
Ultima annotazione: grazie ad un’attenta ed armoniosa sceneggiatura d’insieme, dovuta soprattutto all’impronta poetizzante della serata cecchineliana, alle presenza spiritualmente imponente dello stesso poeta ed infine ai riverberi dell’interpretazione di Carla Stella, l’affresco sonoro e musicale del «19th Century Guitar Duo» è risultato di forte impatto emotivo, partecipando i musicisti ai sentimenti espressi sia dal brano che dal contesto artistico d’insieme.
In definitiva, la serata è affiorata stagliandosi all’orizzonte letterario e culturale trevigiano in tutta la sua forza e vitalità, per celebrare sì un poeta, ma soprattutto per rivendicare il ruolo della poesia come fonte generativa (e rigenerativa) per tutti noi.
Diego Lorenzi
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Note
1 Il poeta è stato quindi sollecitato dalle domande dei due interlocutori innanzi tutto sulla natura di quel tipo di versificazione. Egli, in parallelismo con l’interpretazione di grandi intellettuali – nella fattispecie soprattutto di quella recente del professor Giorgio Agamben che vi ha visto la tendenza ad approssimarsi al «chiamare» anziché al «dire» e quindi alla funzione vocativa – lo ha anche riferito all’intento di rendere il pensiero in una situazione di sforzo che lo ottunde, lungo sequenze di natura complessivamente più sensoriale che mentale e rimanendo così più sul piano della selezione che della combinazione, per dirla nei termini dello strutturalismo come «in absentia».
2 E in un secondo tempo, sul tema della traduzione dal dialetto, in relazione alla quale egli ha puntualizzato, sulla scia di un saggio del professor Pier Vincenzo Mengaldo, di non essersi attenuto ad una traduzione di mero servizio – come viene ordinariamente consigliato in questo caso – ma di essersi fatto prendere, per un rispecchiamento di tipo narcisistico anche nella traduzione, dalla dialettica degli effetti anche là perseguibili di natura connotativa e fonico-ritmica. Per quel tipo di traduzione che sempre il prof. Mengaldo ha definito «d’autore» e quindi, con certa autonoma valenza, poetica.
3 Mauro Giuliani, esecuzioni: dieci walzer, op. 116 «Le avventure di Amore», composti nel 1831
1. L’invito al ballo
2. L’affetto
3. La dichiarazione
4. Il rifiuto
5. Il dispiacere
6. La disperazione
7. La partenza
8. Il pentimento
9. Il ritorno
10. La pace. Finale
4 Ivan Padovec, esecuzioni: «Polonaise Opera 3». Il brano è composto per duo di chitarre, più specificamente per chitarra normale e chitarra terzina (terz guitar), quest’ultima più piccola della normale e accordata una terza sopra; ha un carattere struggente e malinconico nel suo complesso: parte nella tonalità di «la minore», poi vi è una sezione centrale con ritmo più vivace che presenta una modulazione in tonalità maggiore (la maggiore), vi è infine il ritorno al carattere malinconico con la tonalità di «la minore».
La foto di copertina è di © Roberta Cuzzolin
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