VENTI DI PACE
CORRISPONDENZE DALL’ARMENIA
“Erano esseri remoti, non solo dai moderni ma dai loro contemporanei antichi. Distanti non già come un’altra cultura, ma come un altro corpo celeste”. Così scrive Roberto Calasso sugli uomini vedici dell’antica India sul principiare del suo libro L’ardore (Adelphi, Milano 2010, p. 17). Come gli uomini vedici anche il maestro armeno Avet Terterian (1929-1994) fu un essere remoto, financo nella sua stessa patria. Sebbene nell’Unione Sovietica d’allora egli fosse rispettato e internazionalmente riconosciuto, la sua musica rimane fino ad oggi qualcosa di inaudito, una musica raramente ascoltata.
Terterian riteneva la sua musica come una ‘musica per eletti’ e una ‘musica per tutti’. E qui non si può non sentire una eco lontana del sottotitolo dello Zarathustra di Nietzsche: Ein Buch für Alle und Keinen, ‘Un libro per tutti e per nessuno’. Evidentemente Terterian aveva una concezione esoterica della musica; ma tuttavia, al contempo, ammetteva che gli eletti non fossero pochi. In potenza ogni uomo è un eletto. Per esempio negli ultimi anni della sua vita, che tracorse per la maggior parte nel villaggio di Hajrawank, Terterian usava invitare dei semplici contadini con cui era in amicizia per ascoltare le registrazioni della sua musica e discuterle insieme a loro. Era sul finire degli anni Ottanta quando Terterian si fece costruire una casa in questo villaggio, Hajrawank, proprio presso il grande lago montano di Sevan, a quasi duemila metri di altezza, per ritirarsi lì in solitudine, nel silenzio, e comporre indisturbato, con tutt‘attorno acque e montagne.
Per il suo lavoro compositivo la solitudine, la vita ritirata, era stata sempre essenziale. Come tanti spiriti creatori Terterian cercava il luogo giusto dove potersi addentrare in se stesso, per sprofondare in un’atmosfera di silenzio, così da udire la ‘voce degli dèi’.
Prima di farsi costruire la tenuta di Hajrawank, per decenni il luogo di lavoro preferito da Terterian fu il cottage numero 10 nel villaggio dell’Unione dei compositori armeni a Dilijan. Dilijan si trova nel nord dell’Armenia, nella mite e boscosa regione di Tavush. Questo idilliaca cittadella attirò numerosi artisti; tra gli altri anche Shostakovich e Britten vi trascorsero dei periodi di ritiro creativo.
Terterian non ci andava soltanto d’estate, ma anche d’inverno, con la neve e col gelo. Egli diceva che a Dilijan riusciva a percepire il silenzio cosmico nella sua assolutezza. Il silenzio del luogo gli era altamente necessario, perché si sforzava di captare i suoni che, per così dire, si trovano al di là della soglia del silenzio. Quei suoni che sono udibili soltanto se si è attraversato il Grande Silenzio. E dunque non si tratta soltanto di un silenzio esteriore, bensì pure di un silenzio interiore. Una volta Roberto Assagioli, il padre della psicosintesi, così annotò su un foglietto: “La grande armonia delle sfere celesti è anche in te: fai silenzio, ascolta; la udrai salire sommessa e potente dalle misteriose profondità del tuo essere”. (Cit. da Paola Giovetti, in Roberto Assagioli. La vita e l’opera del fondatore della Psicosintesi, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, p.123).
Terterian riteneva che la vita di un compositore consistesse di tre fasi: dapprima gli anni di apprendistato, i Lehrjahre; poi gli anni della ‘scarabocchiatura’, del continuo scrivere più o meno da mestierante; e infine, se si ha la fortuna di essere in stato di grazia, vengono gli anni dell’‘ascolto interiore’. Il mondo dei suoni interiori, dei suoni liminali, si aprì per Terterian in maniera inattesa, durante le notti che trascorse al giaciglio di sua madre ammalata. Da allora furono sempre le prime ore del giorno, più o meno dalle quattro del mattino in poi, il momento in cui egli si trovava in un particolare stato psichico e veniva ‘visitato’ dai suoni: durante questa zona temporale incerta, al limite tra notte e giorno, tra sonno e veglia, tra morte e vita. Terterian diceva: “Io non compongo musica. Io la metto per iscritto”: l’atto del comporre è inteso dunque come una ‘trascrizione’ di ciò che si è udito – e visto! – interiormente. Qui non si può evitare di pensare subito a Giacinto Scelsi, il quale altrettanto diceva di non essere un compositore, bensì un semplice ‘postino’. E d’altronde non pochi artisti si sono considerati come ‘mediatori’, come canali o megafoni di forze superiori. V’è l’esempio paradigmatico di Karlheinz Stockhausen, il quale di sovente si paragonò ad un apparato radio che riceve dei segnali cosmici da essere tradotti per le orecchie umane. Stockhausen fu del resto un compositore assai stimato da Terterian, il quale amava molto questa metafora dell’‘apparato radio’, da lui stesso utilizzata per descrivere la propria attitudine artistica.
Fulcro nevralgico dell’arte di Terterian è il processo della ‘conoscenza attraverso il suono’. Il suo pensiero e il suo operato sono in questo senso spiccatamente phonosophici.
Terterian è stato un compositore di ‘musica cosmica’. Tuttavia l’armonia del mondo non contiene soltanto consonanze piacevoli all’orecchio, bensì pure delle aspre dissonanze e dei rumori lancinanti. Di solito si intende per ‘armonia’ qualcosa di eufonico, di consonante, di ‘armonioso’ appunto. Eraclito, tuttavia, ci confida che questa armoniosità comunemente intesa è un’armonia superficiale, addirittura banale, stucchevole; di contro l’armonia superiore, che rimane per lo più occulta (harmonia aphanes), porta in sé non solo la consonanza, ma anche il suo opposto.
Terterian era nato il 29 luglio 1929 a Baku, la capitale dell’Azerbaigian. Dalla metà del secolo diciannovesimo Baku era stata una città prosperosa, piena di vita, multiculturale. (La sua ricchezza era dovuta in gran parte alle sorgenti petrolifere). Baku era una vera e propria metropoli, in cui – a parte gli azeri stessi – ci vivevano russi, armeni, georgiani e industriali europei. In città la famiglia Terterian era nota per la sua ospitalità e non da ultimo per la sua musicalità. Entrambi i genitori di Terterian si dilettavano con il canto. Il padre, che di professione era medico, fu chiamato varie volte dal Teatro dell’Opera di Baku a sostituire dei solisti indisposti o impossibilitati. Per il piccolo Terterian la musica era dunque un liquido in cui sguazzava quotidianamente. Da bambino prendeva parte alle serate musicali organizzate dai genitori e spesso veniva portato anche all’Opera. Così già da giovinetto ebbe il vago desiderio di diventare musicista. Ma la decisione di dedicarsi alla composizione fu spronata da un incontro fatidico. Nel 1941 Sergiei Prokofiev era di passaggio nel Caucaso per una tourné concertistica, e così pernottò – quale ospite d’onore – in casa dei Terterian. All’epoca Prokofiev stava lavorando all’opera Guerra e Pace. Durante il suo soggiorno a Baku il compositore russo non fu disposto a modificare la struttura del suo quotidiano. Ogni giorno, molte ore erano dedicate intransigentemente alla composizione. Poi alla sera suonava al pianoforte, per la famiglia ospitante, le nuove parti dell’opera che erano state scritte in giornata. Il fanciullo Terterian, allora dodicenne, fu assai impressionato da questa auto-disciplina, da questo ethos creativo. E poi Prokofiev era una personalità di grande carisma. In lui Terterian vide il compositore ideale, per il quale vita e arte erano un tutt’uno.
Pochi anni dopo questo incontro Terterian cominciò i suoi studi musicali a Baku, e li proseguì in seguito al Conservatorio di Mosca. Studiò la composizione con il famoso pedagogo Henrich Litinski. Questi ad un certo momento gli consigliò di continuare i suoi studi compositivi in Armenia, nella classe di Edvard Mirsojan. Così Terterian si recò per la prima volta in Armenia, nella patria dei propri genitori, e a poco a poco cominciò a scoprire e ad amare questa terra originaria. (Del resto egli allora non padroneggiava ancora la lingua armena; come molti esponenti dell’intellighènzia sovietica di quel tempo, per tutta la vita Terterian parlò di preferenza il russo). Gli anni con il maestro Mirsojan al Conservatorio di Yerevan furono anni importanti di formazione. Allora Mirsojan era uno dei più celebri rappresentanti della generazione post-Kachaturian ed era direttore del dipartimento armeno dell‘Associazione dei compositori sovietici. Per quanto riguarda il linguaggio musicale Mirsojan era piuttosto tradizionale, sulla scia di Aram Kachatrian, ma come insegnante era però assai aperto. Cercava di aiutare ogni studente a trovare il suo proprio stile, la sua propria identità. E siccome all’epoca era un professore ancora relativamente giovane, Mirsojan coltivava un rapporto cameratesco con gli allievi. Dava loro persino consigli sull’aspetto esteriore e su come presentarsi quali giovani artisti. Ad alcuni consigliò addirittura di cambiare nome! Nomi come ‘John’ o ‘Alfred’, Mirsojan li trovava troppo operistici o persino da operetta, comunque non idonei alla vita da compositore. E ciò capitò anche ad Alfred Terterian. Perché è così che il nostro compositore si chiamava originariamente: Alfred. Un giorno Mirsojan gli propose di prendere un nuovo nome: Avet, che in armeno significa: ‘Annunciazione’. Fu come un battesimo. Sebbene questa ‘imposizione del nome’ non fu priva di tratti goliardici, essa ci può rimandare a quei rituali di iniziazione in cui il neofìta prende congedo dal suo nome per essere accolto nella cerchia degli iniziati. In anni più tardi Terterian ebbe a dire che Edvard Mirsojan fu il primo che lo riconobbe.
In principio Terterian saggiò il proprio mestiere compositivo in diversi generi: scrisse musica da camera, cantate sinfoniche, financo romanze per canto e pianoforte che stilisticamente sono a metà strada tra Čajkovskij e Rachmaninov, e delle quali il compositore anni dopo non potè che sorridere.
Terterian raggiunse piuttosto tardi la maturità artistica. La sua Prima Sinfonia la compose nel 1969, quando aveva già quarant’anni. Il suo caso ricorda un po‘ quello di Anton Bruckner, che altrettanto tardi cominciò la sua portentosa opera sinfonica. E proprio come Bruckner anche Terterian come compositore viene identificato principalmente con il corpus delle sue sinfonie. E l‘ingiusta critica che viene fatta a Bruckner, si ripete con Terterian: quella di aver composto in fondo sempre ‘la stessa sinfonia’. In questa critica c’è qualcosa di vero… Le otto sinfonie di Terterian possono ad un certo modo essere considerate come un unico opus. Una ‘Nona Sinfonia’ venne da Terterian soltanto schizzata, ma per la morte improvvisa, soggiunta nel 1994 a Ekaterinburg, fu lasciata incompiuta.
La sua musica non è stata una scoperta postuma. Terterian godette di una certa fama internazionale già durante la sua vita. Ciononostante la sua opera rimane fino ad oggi un caso d’eccezione. Basti pensare alla musica di un suo contemporaneo come il buon compositore armeno Gagik Hovunts, che fu praticamente anche vicino di casa di Terterian. Ma che distanza siderale nel loro modo di esprimersi musicalmente!
Per rendersi conto del suo ‘essere remoto’, financo nella sua stessa patria, bisogna ripercorre brevemente la più recente storia della musica armena. In realtà la ‘musica classica’ in Armenia comincia soltanto nel Novecento. Va da sé che la tradizione musicale d’Armenia è assai più antica, a dire il vero antichissima. E qui parliamo della musica popolare, ma anche della musica degli ashug, dei bardi, dei musici vaganti; se si vuole, una sorta di ‘trovatori’ armeni. E parliamo naturalmente anche della musica della Chiesa armena. Tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo fu fondamentale il lavoro pionieristico di Komitas Vardapet, monaco e musico, che oggi in Armenia è una sorta di eroe nazionale. Padre Komitas raccolse e trascrisse innumerevoli canzoni del popolo, studiò gli antichi canti liturgici e la loro notazione. Ed elaborò polifonicamente questi canti, però sempre attenendosi alla ritmica originaria e alla modalità della monodia armena. Perché l’essenza della musica armena è infatti monodica. Grazie a Komitas naque in Armenia per la prima volta una musica polifonica scevra da falsificazioni, ovvero da armonizzazioni alla europea.
Più o meno negli stessi anni in cui visse Komitas, a cavallo tra i due secoli, cominciò ad allignare in Armenia la tradizione classica, soprattutto per opera del compositore Aleksandr Spendiarjan. Questi era stato allievo di Rimsky-Korsakov, il quale lo aveva incoraggiato a confrontarsi con il folklore musicale dell’Europa dell‘est e del Caucaso. Così Spendiarjan utilizzò nelle sue composizioni sinfoniche innanzitutto musica popolare dei tatari di Crimea; ma verso la fine della sua vita fece anche uso di melodie armene, per esempio nei suoi Yerevanian Etiudner, gli ‘Studi yerevanensi’ per orchestra.
Dunque Spendiarjan è da considerare come il fondatore della ‘scuola nazionale armena’: è con lui che in Armenia comincia una vera e propria tradizione sinfonica e operistica, basata su elementi della musica popolare. Ad ogni modo non bisogna dimenticare che la storia culturale d’Armenia è complessa. L’Armenia non ha da essere considerata in maniera meramente geografica. Si pensi che all’inizio del ventesimo secolo la maggior parte dell’intellighènzia armena viveva all’estero, dunque ancor prima della diaspora. (E d’altronde tutt’ora gli armeni che vivono in Armenia sono appena tre milioni, quindi meno della metà degli armeni sparsi per il mondo). Per esempio non solo Baku, ma anche Tbilisi, la capitale della Georgia, all’inizio del Novecento era un centro importantissimo per la cultura armena. A Tbilisi nacque tra gli altri Aram Kachaturian, che è forse il più noto compositore armeno in assoluto.
Kachaturian studiò e visse in Russia per la maggior parte della sua vita. Insieme a Shostakovich e Prokofiev è stato indubbiamente una delle stelle più fulgenti della musica sovietica. L’opera di Kachaturian è impregnata dello spirito e del colorito della musica popolare del Caucaso; in questo senso egli fu un raffinato continuatore del lavoro cominciato da Spendjarian.
Kachaturian fu il modello indiscusso per la generazione di compositori armeni immediatamente posteriore alla sua. Di questa generazione si distinsero in particolare cinque compositori, i cui nomi in Europa sono quasi del tutto ignoti: oltre al già menzionato maestro di Terterian, Edvard Mirsojan, abbiamo Arno Babajanian, Aleksandr Harutsunian, Ghasaros Saryan e Adam Chudoyan. Questo ‘gruppetto dei cinque’ funge in un certo qual modo da pendant armeno del mogučaja kučka, il ‘potente mucchietto’ russo.
Di contro, alcuni compositori della generazione ancora successiva, in particolare personalità quali Tigran Mansurjan (nato nel 1939), cominciarono a prendere una netta distanza dallo stile patetico di Khachaturian e dei suoi delfini, per dedicarsi ad un’‘autentica’ musica armena, alla sua purezza monodica, combinandola con sensibilità debussyana e tecniche seriali. In questo contesto vi fu quindi una sorta di riscoperta del lavoro di Komitas. Ma, mentre parecchi compositori tra gli anni Sessanta e Settanta si dedicavano alla rivalorizzazione del Medioevo armeno, Terterian rivolgeva il suo sguardo ad un passato di gran lunga più lontano. L’arcaicità immaginosa della sua musica ha radici nell’Armenia pagana e precristiana.
In Armenia Terterian era in rapporto cordiale con diversi colleghi compositori, ma tra di essi non v’era quasi nessuno che fosse sulla sua stessa lunghezza d’onda. Nel quadro più ampio dell’Unione Sovietica Terterian si intendeva particolarmente bene con personalità quali Gija Kantscheli e Sòfia Gubaidulina.
Sebbene Terterian avesse un’inclinazione quasi eremitica, non si può dire che fosse totalmente estraneo alla vita culturale attorno a lui. Per un periodo fu addirittura vice-presidente dell’Associazione dei compositori armeni e ricoprì alcune altre posizioni istituzionali. Nel 1972 gli fu chiesto di fare un viaggio in Mongolia come membro di una commissione, per esaminare la cultura musicale del paese. Questa sorta di viaggi di servizio in realtà non gli erano mai piaciuti, non vi trovava interesse alcuno. Ma questa volta volle parteciparvi. Lo ammaliava l’idea di visitare la Mongolia, questa terra lontana e leggendaria; e, inoltre, da tempo sognava di visitare un tempio buddhista. Va da sé che una tale visita non era prevista dal programma, la delegazione sovietica aveva ben altro da sbrigare… Tuttavia con l’aiuto di alcuni amici Terterian riuscì a farsi portare in un monastero per assistere ad un rituale. Le impressioni che ne ricevette furono così forti che, dopo il suo ritorno, abbisognò di molto tempo per elaborarle interiormente. Per anni non ne parlò con nessuno.
Alla fine degli anni Ottanta raccontò al figlio Ruben della particolare sonorità dei gong suonati dai monaci all’inizio del rituale, della loro forza spirituale, del loro mistero.
L’esperienza di questo rituale buddhista in Mongolia, anche se unica e non ripetuta in seguito, fu decisiva per Terterian. Egli fu colpito non da ultimo dalla lentezza dello svolgimento. Questo rituale gli aprì la porta su nuove dimensioni temporali e sonore. Subito dopo quest’esperienza, lo stesso anno, nel 1972, compose la sua Seconda Sinfonia.
Se la Prima Sinfonia era ancora abbastanza ecclettica e, se si vuole, opera appartenente in un certo qual verso ancora alla fase della ‘scarabocchiatura’, per usare le parole di Terterian stesso, nella Seconda Sinfonia si palesano tutti gli elementi tipici del suo linguaggio sinfonico posteriore. Un tipico procedimento compositivo di Terterian è la crescita testurale mediante la graduale aggiunta di singoli strati sonori ripetitivi. Non di rado le sue sinfonie cominciano con dei singoli impulsi ritmici, dai quali poi si dipanano, uno dopo l’altro, dei singoli strati sonori. Per esempio, all’inizio della Quarta Sinfonia abbiamo dei suoni di campana; all’inizio della Sesta dei colpi di gong; e la Settima comincia con violenti colpi di timpano. In principio è dunque il ritmo, l’elemento più elementare della musica. Pure a questo riguardo le sinfonie di Terterian hanno qualcosa di cosmogonico. A partire da un singolo elemento, sia esso un lieve impulso ritmico, un’esplosione o un unico suono tenuto, il tutto si sviluppa sempre in maniera graduale e organica.
La sinfonia è stato l’ambito prediletto da Terterian. È lì che il maestro è riuscito ad esprimersi al meglio. Di certo non si tratta di sinfonie nel senso classico-romantico. Il termine ‘sinfonia’ proviene originariamente da symphonos, ‘ciò che suona assieme’. Già con la Nona di Beethoven, ma in maniera ancor più estrema con compositori quali Bruckner e Mahler, si ha avuto un allargamento enorme delle possibilità espressive. E tutte le convenzioni saltano in aria. Nel Novecento la sinfonia non è più legata ad un obbligatorio schema formale. Essa può essere ogni cosa: anche l’intero mondo. Soltanto le prime tre sinfonie di Terterian constano di tre movimenti; tutte le altre sono in un movimento solo. Nelle sue sinfonie non troviamo temi o motivi che vengono sviluppati o elaborati. Piuttosto egli lavora con l’elemento-suono in se stesso, con stratificazioni della materia acustica e giustapposizioni di blocchi sonori mediante tecniche del montaggio. Terterian avrebbe potuto dire con Mahler: “Sinfonia per me significa: creare un mondo con tutti i mezzi della tecnica a disposizione”.
Per Terterian la sinfonia era un mezzo per rivelare un contenuto spirituale. La sua musica necessita l’esperienza individuale. L’ascoltatore deve sprofondare nel suono. E per fare ciò deve per prima cosa calmarsi, raggiungere uno stato di quiete.
È molto probabile che Terterian durante la sua vita non abbia mai sentito nulla di Giacinto Scelsi e della sua musica. Ma l’affinità nell’attitudine dei due compositori nei confronti del suono – e, si direbbe, del cosmo – è sorprendente. Strano che finora quasi nessuno vi abbia fatto caso. In Son et Musique Scelsi sottolineò come la musica classica d’Occidente si sia concentrata in maniera quasi esclusiva sulla cornice, su ciò che si chiama forma, dimenticando però di studiare le leggi dell’energia sonora. La costruttività va a scapito di una concezione della musica come energia, dunque come vita. Sono state così prodotte migliaia di magnifiche e vuote cornici. Le stesse melodie si muovono da suono a suono, ma gli intervallli sono spazi vuoti. Ai suoni manca il potere di agire.
Qualche anno più tardi Terterian, in un’intervista televisiva, si espresse in maniera simile: “L’Europa ha dimenticato o forse non ha mai saputo cos’è il suono. Il suono è grande e onnicomprensivo. Qualsivoglia melodia, anche la più bella, è sempre soltanto uno ‘stato’. Non v’è melodia alcuna che sia capace di esprimere il Tutto. Il Tutto si trova soltanto nel suono […]. Il microcromatismo ci permette di interpretare il suono non più come punto, bensì come spazio”. Terterian riconobbe nella musica una via di conoscenza: di conoscenza di sé e del mondo. Una porta sia verso il subcosciente che verso il sovracoscente, una breccia verso altre dimensioni. Sia Scelsi che Terterian consideravano il singolo suono come un intero cosmo, all’interno del quale è possibile trovare ogni cosa: melodie, ritmi, armonie, contrappunti, colori mai visti. Ed entrambi insistevano sulla concezione del suono come energia – e sul potere spirituale del suono.
Qualcuno si chiederà: com’è possibile che due artisti, senza essersi conosciuti e senza sapere nulla l’uno dell’altro abbiamo potuto esprimersi quasi con le stesse parole? Si potrebbe certo parlare di ‘sincronicità’ come fa Carl Gustav Jung, oppure con Rupert Sheldrake tirare in ballo la teoria della risonanza e dei campi morfogenetici. Ma ad ogni modo è molto probabile che ciò dipenda dal fatto che sia Scelsi che Terterian – anche senza aderire dogmaticamente all’antroposofia – fossero grandi estimatori di Rudolf Steiner, e che la lettura delle sue conferenze sulla musica li abbia segnati in maniera decisiva. E infatti ancora all’inizio del ventesimo secolo Steiner parlò di una musica ‘mono-tonica’. La musica del futuro, dice Steiner, sarà basata sulla vita interiore del singolo suono.
Per addentrarsi più profondamente nel suono è necessario farlo durare. Tenendo a lungo un suono è possibile divenire più consapevoli della sua vita intima, della sua poli-dimensionalità, e delle sue continue oscillazioni: frequenziali, dinamiche, temporali.
Un’ulteriore cosa in comune tra Scelsi e Terterian è che entrambi ad un certo punto abbandonarono il pianoforte. Dagli anni Cinquanta in poi Scelsi preferì improvvisare la sua musica con l’ondiola, una sorta di proto-sintetizzatore elettronico, in modo da avere vibrati, glissandi, microtoni eccetera. Pure Terterian ad un certo momento smise di comporre al pianoforte, giacché esso cominciò a rappresentare un impedimento per la sua fantasia sonora. Il pianoforte disturbava la sua percezione interiore di ‘suoni altri’, conducendo cosí alla ‘scarabocchiatura’ e all’inautenticità. Nei momenti di ascolto interiore, diceva Terterian, perfino il proprio respiro può annientare la musica in stato di germinazione. È interessante notare che una simile concezione la si ritrova proprio nelle conferenze di Rudolf Steiner. Questi sosteneva che per raggiungere ‘il musicale autentico’ l’uomo deve liberarsi dell’impressione pianistica.
Il pianoforte è invero una personificazione del sistema temperato equabile. E con il pianoforte non è possibile suonare intervalli più piccoli di un semitono. Per di più il pianista non è sovrano dell’andamento dinamico del suono. Dopo che un tasto viene pigiato, il controllo che si può esercitare sul suono è alquanto esiguo, per lo più coloristico (attraverso giochi di pedali eccetera). Un suono pianistico non può essere tenuto. Il pianoforte è in un certo senso una negazione del continuum sonoro.
Il principio dei suoni tenuti ha il suo modello in diverse tradizioni del mondo. Si tratta della nota tecnica del ‘bordone’. Nella musica classica dell’India, che del resto Terterian considerava come una delle vette dell’arte umana, abbiamo ad esempio il tambura, che suona per tutto il tempo il tono fondamentale, che non cambia mai. Il bordone è un simbolo del suono perenne. Nella musica armena vi è un simile concetto. In Armenia questo suono tenuto, il bordone, si chiama ‘dam’. Questo funge da accompagnamento, ovvero da fondamento armonico, da sostegno sonoro per lo strumento melodico.
Terterian parlava spesso della differenza tra Oriente e Occidente in particolare per quanto riguarda l’esperienza del tempo. Nella Quinta Sinfonia abbiamo la confrontazione di due principi: l’Occidentale e l’Orientale, il drammatico e il meditativo.
La prima esecuzione della Quinta ebbe luogo ad Halle nel 1980. Il direttore d’orchestra era Christian Kluttig. A questo proposito Terterian racconta un significativo aneddoto. La sinfonia comincia con un lungo suono tenuto dei violini. Poi ad un certo punto si aggiunge un ritmo puntato del pandeiro, un piccolo tamburo a telaio (di origine brasiliana) con delle alette metalliche (i jingle), che evoca non da ultimo il suono del turibolo armeno durante le funzioni liturgiche. Durante la prima prova il direttore era stupito dalla lunga durata di questo suono iniziale dei violini e cercava ogni volta di far di tutto per abbreviarlo, dando il prima possibile l’attacco al pandeiro. Ma Terterian, che era presente alla prova, insistette sul fatto che il suono dovesse durare quanto stabilito in partitura. Terterian cercò in tutti i modi di far comprendere a Kluttig il significato di questo lungo suono, e lapidariamente aggiunse: “La fretta è il più grande peccato”. Dopo alcune prove, racconta Terterian, il direttore si era talmente immerso e immedesimato nel suono iniziale, che alla fine lo faceva durare più del necessario!
Al colorito di questa sinfonia contribuisce non poco l’impiego della kamancha, uno strumento tradizionale tipico dell’Armenia e in generale del Medio Oriente. La kamancha è diventato un simbolo per eccellenza della musica degli ashugh, di questi musici erranti. Non da ultimo grazie alla celebre canzone del grande Sayat-Nova, che si intitola proprio Kamancha, in cui lo strumento viene paragonato all’amata.
Nella Quinta Sinfonia la kamancha viene contrapposta all’orchestra, sia timbricamente che drammaturgicamente. Si potrebbe dire che mentre la kamancha rappresenta il principio orientale-contemplativo, l’orchestra incarna il principio occidentale, attivo, volitivo. Attraverso l’integrazione di uno strumento tradizionale come la kamancha Terterian connette mondi sonori arcaici con strutture dissonanti e amorfe tipiche della più nuova musica d’Occidente.
Terterian utilizza strumenti tradizionali non solo nella Quinta, ma anche in altre sinfonie. Questa integrazione di strumenti tradizionali è una sorta di rammemorazione genetica di un Oriente perduto. Nel primo movimento della Terza Sinfonia si ha una sezione contemplativa di due tromboni. E dopo una drammatica pausa e un colpo di frusta, attaccano improvvisamente, con una selvatichezza barbarica, due zurna. La zurna è una specie di oboe, con un suono nasale, assai penetrante. Questo strumento viene utilizzato soprattutto in occasione di matrimoni o altre festività tradizionali.
Un‘atmosfera pagana, da festa dionisiaca, la si trova anche in altre sinfonie di Terterian, per esempio in certe parti della Quinta. Tali momenti così saturi ed eccessivi della musica di Terterian mostrano anche una notevole affinità con la musica sacral-orgiastica di Hermann Nitsch. Simile è l’utilizzo di un principio compositivo a strati e l’improvvisa giustapposizione di diversi blocchi sonori. Un’ulteriore affinità tra Nitsch e Terterian sta nell’impiego dell’accordo di do maggiore. Questo è un ingrediente immancabile in quasi tutti i lavori musicali di Nitsch. Esso simbolizza la luce assoluta, la resurrezione. Non molto diverso è il significato del do maggiore nella musica di Terterian. Soltanto per comodità lo chiamiamo do maggiore. In realtà si tratta semplicemente di tre altezze simultanee: do, mi e sol. Al di fuori di qualsiasi contesto tonale. Esse danno luogo ad una sonorità. Terterian dice: “Nel do maggiore, più che in altre tonalità, io sento qualcosa di assoluto”: un irradiamento puro.
Si può dire che la musica di Terterian sia una ‘musica oggettiva’. Essa non esprime dei sentimenti soggettivi o degli stati psicologici individuali. Il protagonista delle sue sinfonie è l’homo cosmicus. Ma cosmo non significa soltanto ‘dolce canto di sirene’. Nello spazio ultraterreno – come sapeva bene uno come Iannis Xenakis – hanno luogo continuamente ‘catastrofi’: immani collisioni, esplosioni, scissioni, disgregamenti, eccetera. In questo senso la musica di Terterian può in parte suscitare sensazioni simili a quelle della musica tarda di Luigi Nono. Anche in Nono, il quale sempre ebbe una inclinazione drammatica, si sentono spesso delle ebollizioni sonore, delle catastrofi, e tra di esse: vuoti, isole di silenzio.
Non è un caso che tra Terterian e Nono vi fosse simpatia reciproca. Si conobbero nel 1986 a Berlino, in occasione della prima esecuzione della Sesta Sinfonia di Terterian, un’opera che Nono apprezzò molto per i nuovi orizzonti che rivelava. Un anno dopo, Terterian fu a Venezia e non mancò di visitare Nono nel suo studio alle Zattere. Stettero per ore a parlare di musica, ascoltarono registrazioni di opere di Nono e della Settima di Terterian. Congedandosi Nono gli regalò un cofanetto di dischi con tutte le sinfonie di Mahler dirette da Mitropoulos.
In quegli anni Nono era occupato principalmente con due temi: con quello del silenzio e con la questione dell’ascolto. Temi divenuti cari anche a Terterian. Che cosa significa ascoltare? Una delle opere maggiori dell’ultima fase di Nono si chiama infatti: Prometeo. Tragedia dell’ascolto. L’ascolto non è un’attività passiva, bensì una facoltà che ha da essere continuamente esercitata e raffinata. Terterian era convinto che non solo il compositore, ma che anche l’ascoltatore dovesse avere talento. Talvolta nutrì financo il sospetto che l’ascoltatore fosse più importante del compositore. Ad ogni modo una musica come quella di Terterian, o quella del tardo Nono, è una musica che rende l’ascolto stesso udibile.
A prescindere dai momenti tellurici di grande potenza sonora, che possono rimandare alla musica di Varèse, di Xenakis o dello stesso Scelsi, nelle sinfonie di Terterian vi sono anche grandi distese contemplative, notturne, quasi al limite del silenzio. E c’è il canto. Anche se sinfonica, la musica di Terterian è essenzialmente ‘monodica’. Giacché è proprio la monodia o il suono singolo che funge da punto di partenza per processi graduali di accumulazione. La musica di Terterian è spesso mono-tonica e anti-contrappuntistica. Non punti contra punti, ma oggetti sonori proiettati nello spazio. La particolarità dei frammenti melodici di Terterian consiste nel fatto che essi vengono poggiati su dei vasti tappeti sonori, e danno l’impressione di objets trouvées. E poco importa se siano stati inventati dal compositore stesso o ricavati da un’altra fonte. In diverse sinfonie di Terterian troviamo delle isole di canto solista. Per la prima volta nella Seconda Sinfonia, nel cui movimento centrale emerge dal silenzio un arcaico canto. Questa semplice melodia, nella sua purezza, è come una preghiera. In partitura Terterian scrive: “Il canto deve essere vicino al carattere popolare”. Un gesto simile lo troviamo anche nella Terza Sinfonia. Il movimento centrale è di nuovo monodico. Ma questa volta è una monodia suonata dal duduk, uno degli strumenti armeni più emblematici. Come nella musica popolare, anche nella Terza di Terterian il duduk viene suonato in coppia. Un duduk suona la melodia, mentre un altro duduk suona il dam, il bordone.
La semplicità e la delicatezza di queste oasi melodiche è in contrasto con i brutali paesaggi sonori che si ascoltano spesso in Terterian. Queste melodie sorgono dal silenzio oppure da un suono tenuto a lungo. Nella Quinta Sinfonia sentiamo inizialmente un suono tenuto della kamancha. E a poco a poco questo suono comincia a disgelarsi, a vivere, a vibrare e ad ardere. E da questo ardore nasce la melodia.
Soltanto una volta Terterian ha integrato nella sua musica una ‘melodia trovata’. Si tratta di un’antichissima melodia ugaritica che Terterian scoperse grazie all’orientalista Vjatscheslàw Iwanof. Terterian l’ha utilizzata nella sua opera teatrale Das Beben (basata su una novella di Kleist) e poi nella Settima Sinfonia. Nell’opera la melodia funge da ‘tema dell’amore’. Nella Settima appare verso la fine, come monologo lirico della viola solista, a mò di misterioso commiato. Nel contesto di questa Settima Sinfonia l’antichissima melodia ugaritica fa l’effetto di un ‘oggetto sonoro’ che sia stato incollato, come in un collage. Una delle caratteristiche salienti della fattura sinfonica delle opere di Terterian è proprio questo utilizzo di tecniche del collage, o meglio di principi di costruzione a blocchi. Diversi eventi sonori vengono posti l’uno accanto all’altro, come in un montaggio su nastro. E infatti questo procedimento compositivo ci rimanda alle tecniche utilizzate dai compositori elettroacustici in studio. È innegabile che se egli avesse avuto a disposizione uno studio avrebbe composto anche musica elettronica. In realtà in alcune sinfonie Terterian ha utilizzato dei nastri con suoni preregistrati, e questi fungono da ‘aperture’ dell‘orchestra su spazi più vasti. Ma, comunque, non ebbe modo di lavorare con uno strumentario elettroacustico di qualità, perché allora – come ora – in Armenia questo genere non ha preso piede. Tuttavia Terterian, da artista visionario qual’era, riconobbe subito il potenziale creativo dell’elettroacustica. Nelle conversazioni con il figlio Ruben (che sono state pubblicate in lingua russa) una volta disse di considerare l’elettroacustica una delle più grandi scoperte per la musica del secolo ventesimo. Ammetteva di conoscerla poco, ma con la sua chiaroveggenza ne presagiva le possibilità future.
L’approccio di Terterian al suono è sculturale, plastico. Come nel caso di molti altri compositori del Novecento sarebbe meglio non più parlare di ‘materiale’, ma di ‘materia musicale’, oppure – come dice Francisco López – di ‘sonic matter’, materia sonica. Si potrebbe addirittura azzardare a gettare un ponte tra Avet Terterian e Francisco López.
Francisco López ha lavorato quasi esclusivamente in ambito elettroacustico, ma proprio come Terterian egli è interessato soprattutto a suoni continui e acusticamente complessi, ai suoni a ‘banda larga’. Per poter comprendere la ricchezza acustica della ‘materia sonica’ bisogna raggiungere un particolare stato della mente, ciò che López chiama profound listening, ‘ascolto profondo’. López è convinto che nell’ascolto sia necessario dimenticare sé stessi, per essere soltanto nel suono, per identificarsi con esso. Perciò egli parla anche di ‘ascolto trascendentale’, un ascolto al di là di qualsivoglia tendenza associativa. Il suo è di certo un atteggiamento estremo, puristico. Per intensificare questo stato dell’ascolto profondo, durante i suoi concerti invita gli ascoltatori a bendarsi gli occhi. Il fatto di essere bendati non solo aiuta a concentrarsi sui suoni senza distrazioni visuali, ma conferisce al processo dell’ascolto una dimensione rituale. Ed è esattamente questo che cercava anche Terterian: l‘alterazione dello stato psichico durante l’ascolto, la trasformazione della mente. Non a caso, uno dei migliori interpreti della sua musica, il direttore d’orchestra David Khandjian, durante le esecuzioni delle sinfonie di Terterian faceva spegnere le luci in sala. Proprio per favorire questo particolare stato di ascolto e rivolgere lo sguardo verso l’interiorità. Lo stesso Terterian preferiva ascoltare la sua musica al buio.
All’oscurità o alla luce, una cosa è chiara: le forme convenzionali del concerto, borghesemente inteso, non collimano con il contenuto spirituale della musica di Terterian. Questa musica richiede nuove modalità d’ascolto e nuove forme d’esecuzione. E questo ha a che fare direttamente con lo spazio, con il luogo, con la disposizione dei posti a sedere, con l’illuminazione, e perfino con l’abbigliamento degli esecutori. Ogni dettaglio deve contribuire ad intensificare l’esperienza immersiva, onniavvolgente, totalizzante di questa musica.
Verso fine della sua vita Terterian stava lavorando ad un mysterium musicale dedicato al martire armeno Vartan Mamikonyan. Il Mysterium avrebbe dovuto svolgersi all’aperto, a Sardarapat, il luogo della famosa battaglia contro i turchi. A causa della morte improvvisa del compositore l’11 dicembre 1994 questo progetto misterico-azionistico è rimasto incompiuto.
NOTA
Un lungo podcast radiofonico su Avet Terterian, con numerosi esempi sonori, può essere ascoltato sull’archivio sonoro del theatrum phonosophicum (in tre parti, sia in italiano che in tedesco):
https://soundcloud.com/theatrumphonosophicum/sets/portraits
E inoltre un’installazione sonora a lui dedicata:
https://soundcloud.com/theatrumphonosophicum/sets/akasha-klang-raum-terterian
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Immagine di copertina
Monastero di Hajravank sulle rive del lago Sevan in Armenia
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Shushan Hyusnunts (3 febbraio 1989). Al termine dei suoi studi musicologici e pianistici al Conservatorio della città natia Yerevan (Armenia) nel 2012 si trasferisce in Germania. Nel 2016 consegue la laurea (Master of Arts) all’Università di Colonia con una tesi sulla filosofia del suono nelle opere orchestrali di Giacinto Scelsi. Nella stessa università ha tenuto corsi sulla musica tradizionale armena, su Dmitri Shostakovich e Horatiu Radulescu. Sulla poetica musicale di quest’ultimo sta scrivendo la sua tesi di dottorato. Partecipazione a convegni internazionali. Negli ultimi anni opera principalmente con Leopoldo Siano all’ideazione e realizzazione del theatrum phonosophicum. Attualmente sta inoltre lavorando ad un libro-documentazione sulla memoria culturale del celebre villaggio dei compositori di Dilijan (Armenia).
Leopoldo Siano, 12 agosto 1982, è filosofo della musica e azionista del suono. Giovanissimo si trasferisce in Germania. Dal 2012 insegna allʼUniversità di Colonia (nello stesso Istituto Musicologico dove tra gli anni cinquanta e settanta insegnò Marius Schneider, suo grande ispiratore); qui è anche coorganizzatore della serie di concerti acusmatici Raum-Musik. È autore e curatore di diversi libri (su Karlheinz Stockhusen, Hermann Nitsch, François Bayle etc.). Il suo ultimo volume è stato pubblicato nel gennaio 2021 dall’editore Königshausen & Neumann di Würzburg: Musica Cosmogonica: von der Barockzeit bis heute (Musica cosmogonica: dall’epoca barocca ad oggi). Insieme a Shushan Hyusnunts è ideatore del theatrum phonosophicum.
* Le foto di Shushan Hyusnunts e di Leopoldo Siano sono di © Mane Hovhannisyan
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