Se Permunian fosse un compositore, ne sono sicuro, sarebbe un Rossini. I suoi personaggi hanno l’ironia grottesca di un Figaro, la forza caricaturale di un don Basilio (magari mentre canta «La calunnia è un venticello»). Il suo linguaggio, tragico e corrosivo, ha l’energia dell’ouverture di un Guglielmo Tell. I temi, come in Rossini, si ripetono e si affinano ogni volta, creano un habitat straordinario che è parodia della realtà, un verismo sull’orlo di un baratro onirico. Giorni di collera e di annientamento riconferma tutto questo. Una nota personale: nel corso della lettura sono stato raggiunto da un messaggio di Permunian che mi ha messo in guardia con queste parole: «Mi sa che tu, caro Romano, stia scivolando a tua insaputa dentro una strana palude fatta di sogni e di grandi risate liberatorie». E aveva ragione.
L’impianto è comunque rigoroso. Il romanzo, che narra la «deplorevole storia d’amore tra Don Fifì e la bella Funebrera», è diviso in tre parti. La prima, come spiega lo stesso Permunian nella postfazione, racconta il tentativo di Don Fifì – alias dottor Lunfardo – di affermarsi nella canzone italiana e nell’editoria milanese, posizione ambita la prima, pressoché occasionale la seconda. Nella seconda parte, attraverso il classico espediente del manoscritto ritrovato, si ricostruisce la «penosa educazione familiare e sentimentale» del provinciale Don Fifì (dove Don Fifì è nome d’arte suggerito dalla stessa trasposizione di Don Backy per Aldo Caponi). La terza parte è dedicata alla peste del Covid-19 e ai suoi sconvolgimenti. Ecco, l’utilizzo del termine «peste» è uno degli esempi del linguaggio diretto di Permunian, che chiama le cose per quello che sono. Non per nulla fu proprio durante la chiusura drastica del marzo 2020 che lo scrittore concepì e progettò quella che battezzò da subito la Piccola antologia della peste, raccolta di testi in prosa e versi di trentaquattro autori italiani, uscita poi per Ronzani Editore nell’ottobre successivo.
Temi ricorrenti, dicevo, anche in questo Giorni di collera. C’è il suo Polesine, benché qui non sia propriamente il Polesine dei campi di grano e dei papaveri al vento che affiora dalle pagine de Il rapido lembo del ridicolo (altro suo libro che ho molto amato, uscito nel febbraio scorso). È piuttosto un Polesine mitologico, popolato di anguane palustri, creature seducenti nella loro deformità, ora munite di proboscidi ora di teste irte di sonagli e serpenti. Ci sono poi i suoi ripetuti assalti all’arma bianca contro l’editoria contemporanea, responsabile dell’impoverimento culturale. Ci sono le invettive contro l’integralismo cattolico e contro la superstizione religiosa. C’è infine il miscuglio di evocazioni di personaggi reali e inventati. Primo fra tutti Manganelli, che già ne Il rapido lembo del ridicolo è chiamato familiarmente «il Manga». Un Manganelli che prende in prestito il martello di Antonin Artaud e, come un don Chisciotte da strapazzo, si avventa furente contro la moltitudine di aspiranti scrittori accusandoli «di aver distrutto le buone regole della retorica antica con i loro raccontini da Liala».
Permunian è un vulcano di invenzioni anche nella scelta dei nomi e dei tratti psicofisici dei personaggi, mai banali, anzi: di un’originalità ai limiti dell’ilarità, quasi volesse evidenziare la bizzarria della fauna umana che popola la provincia. Dalla Maffi, al secolo Mafalda Noemito, bambolona bionda e balena fatta e disfatta, al signor Davecat, l’americano che convive con due bambole di celluloide a grandezza naturale (che hanno pure un nome: Sidore Kuroneko e Elena Vostrikova). Quindi Luigino Noemito detto Gigino, fratello della Maffi, il sagrestano Panfilio Ciapin, Adolfino Isaia Planeta, detto El Peque perché basso di statura e di lontane origini ispaniche, Pedalino Pucciasky, l’ultimo odontoiatra a utilizzare un trapano a pedale (da cui il soprannome), suo figlio Evelino detto Pucci la Pedalina, che si spara in bocca davanti al sagrato del duomo dove aveva appena terminato di dire messa don Stefano, le eccentriche Iolanda Salvioni Salvietti e Patrizia, madre e figlia, sorta di prostitute di alto bordo. Vanno citati anche altri personaggi dai nomi e dai tratti caratteriali spassosissimi: lo zio Antelmo, l’aspirante scrittrice Maria Ausilia Intronati, il poeta Guiscardo Guiscardelli di Amatrice, suo amante, mister Rubinetto, che dorme nei cessi della stazione dopo il fallimento della sua Premiata Rubinetteria della Valtrompia, il signor Piero, contagiato dal coronavirus, che trascorre la quarantena nella sua bottega di generi alimentari con una flebo appesa al gancio dei salumi. Ed è proprio il signor Piero ad avere la premonizione più visionaria dell’umanità contemporanea: un’armata di marionette che sbuca all’orizzonte e marcia compatta nel buio come una marea di appestati, una sterminata accozzaglia di individui contagiati dal coronavirus «dai quali si alza un lugubre e sordo mormorio dato che tutti, ma proprio tutti, quei cadaveri ambulanti non fanno che mugugnare e scalpitare per tornare nel mondo dei vivi implorando un’ultima chance. Un ultimo giro di giostra».
Ecco, la particolarità della scrittura di Permunian sta proprio nella capacità di far convivere la lettura drammatica di queste meschine esistenze di provincia con l’ironia sarcastica che permette di sopportarle. Abbiamo così la fascistissima Patrizia, la Funebrera, che si dipinge «la mona» di verde bianco e rosso. O il buon Gegè, padre del protagonista, che combatte qualsiasi malanno con una compressa di Alka Seltzer sciolta in un bicchiere di acqua benedetta. O ancora la divertente coppia don Stefano e Panfilio Ciapin che con un vecchio sidecar della Wehrmacht, donato alla parrocchia da Patrizia in limine mortis, scorrazza per il paese armata di pistola giocattolo distribuendo estreme unzioni a suon di spruzzi e schizzi di acqua santa.
A differenza di altri testi (e penso alla prosa poetica della prima parte de Il rapido lembo del ridicolo o alla drammaticità de La Casa del Sollievo Mentale), in Giorni di collera Permunian utilizza un registro altamente ironico, come se avesse maturato la capacità di osservare dall’esterno la «giostra» delle follie umane e proprio questo distacco gli permettesse di riderne e ridere di se stesso, consapevole della caricatura che è in ciascuno di noi.
Ma, come ho detto, è solo uno dei registri adottati dall’autore. Permunian è anche creatore di atmosfere magiche, basti pensare all’Arlecchino Notturno, il documentario biografico che ha ispirato nel 2016 Paolo Jamoletti. Una pellicola che non è un semplice documentario sulla vita dello scrittore, bensì una ricostruzione del suo mondo per sequenze di immagini e letture sceniche (con le straordinarie interpretazioni di Roberto Herlitzka, Luigi Mezzanotte, Maria Paiato, Fabio Alessandrini), un’evocazione dei personaggi che lo circondano, veri e finti, dei suoi fantasmi, dei suoi spazi fisici e mentali, dal Polesine al Garda, sino all’interiore «terra di mezzo».
https://vimeo.com/153696259/c61651cc17
Insomma, se posso dare un consiglio di lettura, da quel divoratore di libri che sono, leggete Permunian. Leggete questo Giorni di collera e di annientamento.
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Foto di copertina
Francesco Permunian, foto di Pino Mongiello
Nota
1. La foto proviene dall’Album Antonin Artaud uscito nel 2010 presso le Edizioni Il Ponte del Sale di Rovigo per le cure di Pasquale Di Palmo
Si ringraziano
Marina Lorusso e Pino Mongiello per l’uso delle immagini e
Paolo Jamoletti per il teaser/trailer di Arlecchino Notturno
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Romano Augusto Fiocchi, nato a Pavia nel 1961, vive tra Pavia e Milano. Giornalista pubblicista, ha pubblicato il romanzo veneziano Il tessitore del vento (2006, in riedizione presso Ronzani nel 2022), le raccolte di racconti Capricci pavesi (1986), PazzaPavia (1989), Dipinto a testa in giù (1994), Un mistero in via Cardano (2004), Racconti da un mondo offeso (2018). Il suo racconto Civico trentanove è stato inserito nella Piccola antologia della peste (2020). Sito web: www.romanofiocchi.it
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