So di esordire con una provocazione, ma per quanto si possano amare i film d’essai più dei cosiddetti blockbuster, questi sono generalmente espressione più limpida delle culture nazionali da cui provengono di quanto non lo siano i film d’essai. Per nostra sfortuna il vincitore italiano dell’Orso d’Argento 2020, il criptico Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, non è indice degli orientamenti di massa quanto il cinepanettone, fonte di sconforto per molti dei lettori di questo articolo, o il genere squisitamente italiano del demenziale. I blockbuster seguono traiettorie formulari di criticità e redenzione, conflitto e vittoria, alla fine delle quali il buono, il bello e il romantico trionfano e ci mettono sulla via di casa con un finale edificante in tasca. Queste formule, per quanto stanche, sono la nostra finestra su ciò che è bene, ciò che male e ciò che è meglio evitare nell’ambito della cultura che le genera. Nel 1934 la Motion Picture Association of America (Organizzazione americana dei produttori cinematografici, MPAA) adottò il Motion Picture Production Code, conosciuto ai più come l’Hays Code, una serie di linee guida che definivano cosa fosse permesso o meno mostrare in un film, e quello che doveva essere manovrato con cautela. Il codice era espressione di una società sessista, razzista ed omofoba e delle sue priorità, come lo furono i film prodotti in quell’epoca. L’Hays Code diventa irrilevante nel corso degli anni Sessanta, ma mentre alcuni dei suoi tabù, come i “baci appassionati” o la “compassione per i criminali” sono storia antica, non si può dire lo stesso per altri. Hollywood è ancora a disagio di fronte agli amori interraziali o a quelli omosessuali. Se i primi sono sempre misteriosamente casti, i secondi finiscono invariabilmente in tragedia, abbandono o tristezza, come nel caso di Chiamami col tuo nome (2017), per citarne uno. O viceversa, i primi finiscono in tragedia e i secondi in castità. Eppure i tradizionalismi, razzismi e sessismi di Hollywood sono irritanti tanto quanto sono utili a capire la natura dei problemi con cui i cittadini americani (e non solo, dato l’impatto globale di questi film) si scontrano ogni giorno. Questo ragionamento si applica alla maggior parte dei generi, ma in modo particolare all’horror, percepito come vittima di formule ripetitive ed esauste. Ma mentre alcune di queste formule sono davvero universali – il buio, il silenzio, la morte – altre cambiano da nazione a nazione. Per scoprire le fobie di un paese, studiare la sua storia aiuta quanto guardare i suoi horror.
Non ho sempre amato l’horror. Mi vergognavo di quanto spesso dovessi cacciare la testa sotto una coperta, fissarmi i piedi o coprirmi la faccia con le mani lasciando uno spiraglio sull’angolo in alto a destra dello schermo. Poi mi resi conto della bellezza di gesti come questi, dell’essere vulnerabile di fronte al cinema. Mi emozionava il potere che l’horror aveva su di me, lasciavo che mi destabilizzasse e il risultato non era lontano dalla catarsi. Dopo ogni horror cresceva l’affetto per la prevedibilità delle mie giornate, per i rumori inoffensivi di casa mia e la mansuetudine dei suoi angoli bui. Di recente, dopo che la mia crescente sfiducia in Hollywood mi ha portata in terreni non anglofoni, mi ha colpito la vicinanza tra l’horror e i traumi di una nazione, gli spazi bui della sua storia, i crimini a cui non sempre sono seguite scuse, le coscienze sporche.
Negli Stati Uniti, gli stati del sud e le piccole città isolate non hanno mai smesso di terrorizzare il cinema, e non si esclude che la cosa abbia a che fare con la densità di sostenitori di Trump e le tendenze progressiste e democratiche di registi e scenografi. Anche il passato puritano ha generato horror notevoli, tra cui spicca The Witch, film di Robert Eggers del 2015, in cui una famiglia puritana è convinta che al suo interno ci sia una strega e si ingegna per capire chi. Il film, con La regina degli scacchi Anya Taylor-Joy, documenta con sfrenata accuratezza le vite interiori dei puritani e le loro giornate, fitte di terrore e di trascendenze. I dialoghi, nell’inglese del Seicento, sono tratti da diari, lettere e documenti dell’epoca. Nel contesto delle serie TV, in nove stagioni American Horror Story (2011) ha radunato i topoi più prolifici e significativi dell’horror americano, includendo una stagione sull’era Trump, una sul passato coloniale ed un’altra sul profondo sud. Nella serie tedesca Dark (2017-2020), l’orrore proviene da un portale tra presente e passato, aperto nei pressi di una centrale nucleare. In una sola mossa, la serie associa due incubi della società tedesca, entrambi fonte di inesauribile orrore e dibattito: il nucleare e la possibilità che il passato nazista torni a perseguitare il presente, interrompendo l’idillica quotidianità di passeggiate nei boschi e interni country. Nella produzione Netflix spagnola Voces (2020), una casa stregata era un tempo sede di un tribunale d’Inquisizione, ed ora soffre della malefica influenza di, guarda caso, una donna che parlava troppo. Ma questo è un punto a cui torneremo in seguito. Fantasmi, anime erranti e possessioni sono il cuore dell’horror orientale, espressione di culture in cui il mondo dei vivi e quello dei morti abitano le stesse stanze e cenano allo stesso tavolo, se glielo si lascia fare.
Nonostante la sua tradizione di gialli protofemministi e le eroine sanguinolente di Dario Argento, l’Italia non è un paese per horror. Pupi Avati parla del cinema italiano come ostaggio della commedia, vittima dell’eterno ritorno di una “riflessione divertita sul presente” e di infinite variazioni sulle stesse quattro cose: lui, lei, il suo amico, il sesso.1 Due horror recenti, tuttavia, hanno catturato la mia attenzione mentre tentavo di mettere assieme i pensieri per questo pezzo. Il Signor Diavolo di Pupi Avati (2019) e Il legame di Domenico Emanuele de Feudis (2020), entrambi costruiti attorno a terrori locali e universali. Avendo vissuto nel Veneto rurale, non sono estranea al fascino dei campi di notte, calati in una nebbia densa di presagi. A volte, percorrendo in macchina strade di campagna, si vedono le luci lontane di case sole, inghiottite da chilometri di buio. E ci si domanda quali solitudini nasconda quell’unica finestra illuminata, e quali timori ancestrali si dipanino nell’oscurità maestosa tutto attorno.
Il Signor Diavolo cattura e restituisce la pianura Padana come locus horridus. “Voglio tornare alle paure e alle cose che mi spaventavano quando ero ragazzino0,” spiega Avati, “voglio ritornare a quelle storie ‘di paura’ che si raccontano davanti al camino”. Il Signor Diavolo non è un film perfetto: la recitazione è a tratti sconfortante, il finale frettoloso e la storia prende le mosse dalla discutibile equazione tra disabilità e demoniaco. Ma il film evoca con successo terrori antichi, con l’aiuto dei paesaggi desolati di terre di confine dove il mare incontra l’inverno, la nebbia sale dai canali e un buio implacabile separa le cascine disperse. Per Avanti “la paura è universale, il buio è universale”. E mi trova d’accordo: non importa se il bambino seduto in una stanza buia sia francese, inglese o tedesco: avrà paura. Ma avrà paura di cose diverse, e i mostri che emergono dalle ombre avranno storie diverse. Le stanze buie non hanno passaporto, ma quello che si nasconde nel buio sì. Le geografie de Il Signor Diavolo, che Avati definisce “asfissianti”, sono locali quanto universali, ma il terrore che celano è squisitamente italiano quanto la chiesa cattolica. “Ho sempre avuto una relazione conflittuale con la chiesa”, dichiara il regista, e nel film le chiese di campagna, con i loro sotterranei e sacrestie inaccessibili sono una presenza soffocante. E il diavolo, goffamente incarnato in un giovane con una dentatura anomala che sembra abbia sbranato la sorella in fasce, è responsabile per la maggior parte degli spaventi con salto sul divano.
Se chiesa e paesaggio sono alla base dell’orrore in Il Signor Diavolo, Il legame teme le donne.2 Francesco (Riccardo Scamarcio), la fidanzata (Mía Maestro) e la figlia di questa (Giulia Patrignani) passano alcuni giorni nella dimora ancestrale della famiglia di lui, nelle campagne attorno a Bari, dove gli ulivi muoiono di uno strano morbo che ricorda le cicliche pestilenze tra gli ulivi del Salento.
Quando la bambina viene morsa da una tarantola, la famiglia si rende conto che una reazione allergica fuori dall’ordinario è in realtà una maledizione di uno spirito disperato. Come Il Signor Diavolo, il film si radica nel pensiero magico e nelle tradizioni primordiali della regione, come testimonia il ricorso al libro Sud e Magia di Ernesto de Martino nelle epigrafi e nelle foto conclusive che accompagnano i titoli di coda, foto di possessioni, tarantolate, oggetti incantati e una serie di donne magiche e maestose. Il paesaggio pugliese che si rivela nelle riprese a volo d’uccello è un luogo in cui l’anima si perde. Il male risiede nei tronchi degli ulivi infestati, dove mani sapienti hanno appeso talismani, e nelle grotte sotterranee in cui scompaiono i bambini. Ci furono effettivamente due fratelli di undici e tredici anni a Gravina di Puglia, che nel 2008 furono ritrovati due anni dopo la morte in un pozzo di una villa in rovina, non troppo diversa dalla villa in Il legame, dopo che un terzo bambino cadde nello stesso pozzo. Le circostanze attorno alla scomparsa e alla morte di Ciccio e Tore, per settimane nei TG nazionali, sono ancora avvolte dal mistero.3
C’è molto da imparare dai film dell’orrore riguardo alla loro cultura d’origine: anche cose a cui si preferirebbe non pensare durante una pacifica serata horror, mentre un amico ti racconta della vicina che parlava con i morti, e tu improvvisamente ti rendi conto che in Il legame non sono i poteri arcani delle donne a spaventare (il personaggio della madre, guaritrice di alberi ed anime, è positivo) ma i legami che creano tra loro. Donne che si radunano in stanze chiuse e sussurrano incantesimi di sangue e protezione, l’intesa tra madri che non necessita di parole, le amiche di una vita, le giovani donne e quelle anziane che le guidano, l’essere madre, figlia, sorella: è questo il cuore dell’orrore in Il legame. Inoltre, il film demonizza il dolore, letteralmente senza fine, di una donna rovinata, vittima di un goffo tentativo dell’uomo che amava di cambiarne il destino tramite poteri di cui non ha né conoscenza né esperienza, che causa la rovina del suo corpo, ma soprattutto della sua anima. Il patriarcato e i film che ne sono l’espressione vedono il mostro in una donna tradita, torturata ed abusata fisicamente e spiritualmente, non nell’uomo che ne ha disfatto corpo e anima. Ma torniamo brevemente al trascurabile Voces di Ángel Gómez Hernández, dove gli spiriti di streghe torturate dall’Inquisizione portano gli inquilini ad uccidere i propri cari e loro stessi. Il film estrae motivi horror dal passato criminale della chiesa spagnola, ma, secoli dopo, il nemico rimangono le streghe, non l’Inquisizione. L’horror mostra di cosa un paese ha paura, ma anche di cosa dovremmo aver paura noi trovandoci in quel paese. Nei patriarcati europei, ad esempio, le streghe bruciano ancora.
Note
1. “Con Pupi Avati | Il Signor Diavolo | ‘La paura è universale.’” Horror Italia 24. https://www.youtube.com/watch?v=ujfOYnLqKx0, 20 August 2019.
2. Da questo momento in poi, l’articolo contiene spoiler.
3. La copertura mediatica della storia in La Repubblica è disponibile qui: https://www.repubblica.it/2008/02/sezioni/cronaca/gravina-pozzo-bimbo/recupero-corpi/recupero-corpi.html.
Sono grata a Felice di Maida per avermi ricordato questa vicenda, e per le sue storie di fantasmi siciliani.
Foto di copertina: Una scena da Il Signor Diavolo, Pupi Avati, 2019
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Elena Furlanetto, nata a Treviso, vive a Essen, in Germania, dove insegna letteratura e cultura americana all’Universitá di Duisburg-Essen. È autrice di Towards Turkish American Literature, Narratives of Multiculturalism in Post-Imperial Turkey (2017) e di svariati articoli sulle letterature americane e postcoloniali; ha inoltre curato una raccolta di saggi dal titolo A Poetics of Neurosis (2018). Americanista di fatto e postcolonialista di formazione, apprezza soprattutto libri e film che parlino d’America, ma anche d’altro(ve). Il cinema le dà grande gioia, soprattutto l’horror. Le sue poesie in italiano ed inglese sono apparse in pubblicazioni italiane ed internazionali. Collabora con Finnegans in veste di traduttrice e critica cinematografica dal 2011.
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