Introduzione
Le sorgenti inudibili del suono. La musica spettrale di Horaţiu Rădulescu è una piccola e pregevole pubblicazione dedicata al compositore rumeno-parigino Horaţiu Rădulescu (Bucarest 1942) scomparso prematuramente a Parigi nel 2008, apparso in Italia per aprire un primo squarcio nel panorama musicale italiano contemporaneo su una delle avventure nel suono più visionarie e suggestive ad opera del compositore e direttore d’orchestra Aldo Brizzi che qui pubblica quello che poi è il resoconto di un controverso studio di laurea presso il Dams di Bologna nel 1990. La pubblicazione, nella doppia versione italiana e inglese (traduzione di Chiara Calabrese) è curata dal musicologo Renzo Cresti che ben conosce i percorsi compositivi di Brizzi e dello stesso Rădulescu, e contiene anche una conversazione mirata del musicologo con l’autore che rende un unicum l’intera e agile pubblicazione. A seguito di due recenti presentazioni del volumetto a Napoli e Roma, riportiamo alcune parti della pubblicazione per gentile concessione dell’editore Doremidolare Strumenti per fare di Fiorenzo Bernasconi, Las Vegas NV. (NC)
Le sorgenti inudibili del suono
La musica spettrale di Horaţiu Rădulescu
La musica di Horaţiu Rădulescu (1942-2008) si pone agli occhi dei contemporanei come un fenomeno assolutamente originale.
Lo sviluppo della sua personalità lascia scorgere riferimenti palesi ad autori le cui creazioni ed innovazioni hanno attraversato l’intero secolo (per intenderci stiamo alludendo a Bartók, Messiaen, Stockhausen). Ma tali riferimenti vengono sommersi da una sorta di sacralità e ritualità istintiva che libera a poco a poco il linguaggio del giovane Horaţiu Rădulescu dai paradigmi delle avanguardie storiche.
Il senso del sacro che, come ha mostrato Eliade, non è un momento della storia della coscienza ma un elemento strutturale della coscienza stessa, nella musica di Horaţiu Rădulescu è libero da attinenze simboliche o descrittive. Infatti esclude qualsiasi relazione con frammenti appartenenti a linguaggi musicali preesistenti sia europei che extraeuropei. Semmai ritrova un attaccamento alla musica folklorica romena, non intesa come citazione, ma come riferimento ancestrale, come liberazione delle potenzialità che la sua struttura musicale e spirituale possiede. Questi procedimenti sono sempre sostenuti da un uso raffinatissimo delle tecniche più avanzate nel campo della fenomenologia acustica, intesa come principio naturale incontaminato dai linguaggi.
Già le prime composizioni, scritte negli anni d’apprendistato a Bucarest, sono presaghe della svolta futura. Ma quando il giovane Horaţiu Rădulescu si stabilisce in Francia, nel 1969, appare flagrante l’affermazione della sua singolare personalità musicale. I riferimenti ai fatti di punta delle avanguardie vengono rapidamente trasmutati in un mondo sonoro originale e lontanissimo dalle zone assillanti del dibattito contemporaneo. Perciò, affrontando un lavoro su Horaţiu Rădulescu, l’unico punto di riferimento costante rimane il corpus della sua opera. Il compositore stesso ritiene serenamente ma puntigliosamente superato l’impasse della dialettica e della micro-dialettica insinuatesi nel gesto e nella forma della Neue Musik. Egli è proiettato in una dimensione ed in una forma di pensiero dove la fusione tra ancestrale e futuro non lascia definire confini.
Si ripete con Horaţiu Rădulescu ciò che era accaduto con Varèse qualche decennio prima: l’impossibilità di correlarlo agli altri compositori di punta, di integrarlo in una lettura della storia o dell’estetica del movimento contemporaneo. Forse si vedrà in futuro Horaţiu Rădulescu come il profeta di molte realizzazioni degli anni a venire, ma al momento attuale possiamo solo concentrarci sull’integralità della sua produzione, soprattutto quella che riteniamo più interessante ovvero più lontana dalle realizzazioni degli altri contemporanei.
Al cuore del suono
di Renzo Cresti
Questa è la prima monografia mondiale dedicata a uno dei più importanti compositori che hanno agito nella seconda metà del novecento, protagonista della musica europea dagli anni Settanta fino alla morte, eseguito nelle più importanti manifestazioni con commissioni ricevute per prime esecuzioni assolute specialmente in Francia e in Germania, ma via via in tutti i paesi dell’Europa dell’Ovest e dell’Est. Nel 1974 si presentò in Italia con un seminario all’Accademia musicale Chigiana, qualche anno dopo tenne un altro seminario a Torino. Aldo Brizzi fu il suo amico/allievo prediletto. Mentre in Europa il nome di Horaţiu Rădulescu è rinomato, anche al di fuori della piccola nicchia delle rassegne di musica contemporanea, in Italia è colpevolmente misconosciuto.
Questo libro copre una lacuna culturale e fornisce non solo un’eccellente documentazione sul percorso artistico del grande compositore rumeno, ma pure molti spunti di riflessione su ciò che sono state e sono oggi le difficoltà del comporre, un pensare e fare musica al di là di ogni metodo convenzionale e di ogni compiacenza narcisistica. Le riflessioni che si svolgono nelle pagine che seguono e l’interesse che questo volume attirerà in tutta Europa hanno consigliato un abstract in inglese, realizzato da un’esperta di traduzioni musicali come Chiara Calabrese.
Brizzi ha steso il suo saggio a stretto contatto di gomito con Horaţiu Rădulescu ossia ciò che ha scritto è stato discusso e approvato dal maestro. Questo fornisce un carattere di ufficialità alla trattazione. Le analisi dei brani sono molto puntuali e volte a sottolineare il carattere generale della musica di Horaţiu Rădulescu che, per molti aspetti, è davvero un unicum.
La stragrande maggioranza delle musiche che si sono ascoltate negli anni della Neue Musik scaturivano da un furor tecnologico ma i sistemi compositivi se garantivano il governo dei vari parametri, non davano altrettante garanzie dal punto di vista percettivo e la contra-posizione cageana aveva bisogno del polo positivo per deflagare. Il pensiero artistico è un filosofare oltre, un conoscere ulteriore, in quanto l’arte è un segno stra-ordinario che rinvia a una pluralità di dimensioni che creano un rapporto arte/mondo del tutto particolare; è una sorta di(f)atto che assomiglia molto a quello rituale della religio. Il musicista compie un’esperienza che lo trascende e lo responsabilizza. L’opera è frigida se non è fecondata dall’esperienza, se non si apre alla trascendenza del proprio testo, di un testo che sappia essere rivelativo.
Un fantasma si aggira fra le pagine del saggio di Brizzi ed è quello di Giacinto Scelsi, mai citato perché Brizzi impostò il lavoro come tesi di laurea, discussa al DAMS dell’università di Bologna nella sessione autunnale dell’anno accademico 1989-1990, con relatore Aldo Clementi il quale fu un acerrimo nemico della musica di Scelsi. Non fu il solo, anche l’ambiente della casa editrice Ricordi si dimostrò ostile alla musica scelsiana che venne così ostacolata nella sua diffusione. Scelsi è il vero punto di riferimento per inquadrare la musica di Horaţiu Rădulescu, più e meglio degli spettrali francesi i quali crearono una sorta di sistema compositivo basato sugli armonici, mentre Horaţiu Rădulescu, proprio come Scelsi, utilizzò le componenti del suono in maniera più libera, volta interamente a scandagliare, attraverso il suono, le vibrazioni interiori.
Più che musica, concetto troppo legato alle incrostazioni teoretiche, è più opportuno parlare di suono, elemento naturale che sta prima delle codificazioni culturali. Il linguaggio della musica è un linguaggio sui generis, una sorta di utopia del linguaggio vero e proprio; si presenta come possibilità autentica, come vocazione e destino, ma se è una vocazione o un destino deve allora compiersi in un contesto pre-compreso e questo contesto non può che essere il mondo dei suoni, il loro mondo. Il suono redime dalle colpe della cultura, in ogni caso troppo egoistica, massificata, mercificata, accettando solo la cultura antropologica in cui l’uomo ascolta l’altro uomo. La musica è una riduzione rispetto alla lingua delle parole (assertiva, concettuale, significativa in maniera concreta), ma proprio questa riduzione consente un’apertura ulteriore, verso l’indicibile a parole. La musica è così anche un’eccedenza rispetto al linguaggio verbale. Col suono avviene una cosa simile a quella che accade con il ‘linguaggio’ degli innamorati, quando un semplice “ti amo” vuol dire tutto. Queste due sole parole mostrano l’essenziale e inaugurano un tempo estatico, dove il linguaggio trascende il proprio testo e diventa rivelativo, un linguaggio che dice di più di quanto non dica testualmente. In tal senso il ‘linguaggio’ del suono è assai vicino alla ritualità religiosa. Questo sapeva bene Horaţiu Rădulescu.
I suoni di Horaţiu Rădulescu sporgono dal loro mondo, vengono chiamati dal musicista in fremente attesa. L’essere in attesa è la condizione di grazia, l’unica che consenta di accogliere le estroflessioni dei suoni. Il suono deve andare dal suo musicista che l’ha evocato come le foglie vanno al vento, in un incanto ritrovato. Il tempo dell’attesa è tempo che purifica: quando Francesco d’assisi bussò al suo convento, in una notte di pioggia e freddo, il padre guardiano gli rispose di aspettare fuori; solo trascorrendo la notte al gelo Francesco avrebbe conosciuto il silenzio profondo dell’attesa, ch’è disciplina di sorveglianza. Horaţiu Rădulescu, al di là dei fatti biografici, sembra aver metabolizzato gli abissi che l’attesa produce, da queste profondità nasce il suono e il musicista si fa vaso per accoglierlo.
RENZO CRESTI INTERVISTA ALDO BRIZZI
(estratto)
Credo che la svolta importante sia la tua frequentazione con Giacinto Scelsi. Ce ne parli?
Per me Scelsi è la versione novecentesca di Gesualdo da Venosa. È il Wagner del sinfonismo del secondo novecento, una musica senza concorrenti. E con la caratteristica di usare intervalli più piccoli del semitono non come elemento “moderno” ma arcaico. Mi spiego meglio: noi abbiamo costruito tutta la musica occidentale e la sua storia sulla riforma ambrosiana e gregoriana, dove sono stati eliminati intervalli cromatici o microtonali, tipici di tutte le musiche precedenti del bacino mediterraneo, perché considerati “troppo individualisti”. Mentre invece il suono, secondo i canoni che ci hanno portato a quella riforma, come sottolineava Sant’Agostino (forse senza considerarne le conseguenze), doveva essere “pura contemplazione di Dio” e spogliarsi quindi di quell’individualismo. Tutta la musica dal Romanticismo in avanti è stata una lotta titanica contro questo presupposto, per rimettere l’individuo al centro del mondo, ma attraverso esclusivamente i mezzi messi a disposizione da tale riforma. L’unico che lo aveva bypassato era stato proprio Gesualdo, il suo cromatismo sorprendente veniva appunto da intervalli eseguiti sull’arciliuto, che permette variabili microtonali (anche se poi annotati in partitura in forma solo cromatica). E se pensia mo alla musica di Gesualdo come potenzialmente microtonale, ci è più chiara la sua difficoltà nel collocarlo nella storia della musica “tonale”. Ora Scelsi, in silenzio, non bypassa, ma rimuove con un fare così silenzioso e così rivoluzionario, tutta la musica tonale per farci di nuovo vibrare quelle corde che ci rimandano direttamente, senza rendercene conto, al nostro archetipo, a quelle corde rimaste in silenzio dai tempi di quella riforma e che si pongono dinnanzi a chi ascolta in forma inquietante e allo stesso tempo naturale (proprio per far rivivere questa dimensione dimenticata dalla coscienza della nostra modernità).
Ho conosciuto Scelsi nel 1982, mi ricordo che ero arrivato a casa sua in modo rocambolesco, con un ritardo di circa tre ore sull’ora definita da chi aveva organizzato l’incontro. Era quasi mezzanotte, fu lui ad aprire la porta e ho ancora impresso il momento sospeso prima della sua risposta al mio “Buonasera, mi scusi”. Uno sguardo intenso come una folgorazione, probabilmente da me corrisposta, durato qualche secondo ma che mi è parso oltre il tempo fisico. Nel frattempo, la persona che aveva organizzato l’incontro, piccata, ha chiamato un taxi. La mia visita è durata non più di cinque minuti, dove lui si è occupato principalmente dell’amica che mi aveva accompagnato. E sulla stessa soglia della folgorazione del primo momento dell’incontro lui, di sua iniziativa, senza che io dicessi nulla: “Non si preoccupi, ci rivedremo tante altre volte”. E così è stato.
Ogni volta che passavo a trovarlo, o che ero suo ospite, si parlava di poesia, di filosofia orientale, di sue esperienze di vita, molte delle quali trascendentali, o di personaggi importanti che avevano attraversato quel secolo e che lui aveva conosciuto, si ascoltava la sua musica della quale lui non parlava mai. E soprattutto non diceva nulla su tecniche di composizioni, sul suo lavoro di scrittura. Nono stante questo, come un atto magico, ogni volta che uscivo dalla sua casa mi sentivo come trasformato, con la necessità di raggiungere altri orizzonti sulla coscienza del suono, incarnati in musiche di altre culture, come fosse una necessità per poter esprimere meglio la nostra. Ho iniziato la ricerca e la collezione di musiche tibetane, indiane, balinesi, giapponesi, africane, sudamericane. E ad approfondire la lettura di libri che già Carlo Cignetti mi aveva indicato, libri di filosofia e di culture lontane dalle nostre. A volte gli parlavo delle mie nuove scoperte e lui sottolineava il suo silenzio con uno sguardo sornione. Intanto mi stavo allontanando dalla fase di convivenza con le avanguardie e con la necessità dell’essere informato a tutti i costi su ogni produzione del momento.
Solo due volte mi consigliò qualcosa di equiparabile a consigli di composizione. La prima volta fu quando venne a Roma alla rappresentazione di una mia pièce di teatro musicale. Il giorno dopo mi disse: “Hai messo troppe cose, a volte basta un semplice flauto, una melodia di poche note per rivelare il mondo, come fanno i sufi” (e gli si inumidivano gli occhi). La seconda quando gli feci ascoltare, a casa sua, il mio brano Il libro dell’interrogazione poetica I eseguito da poco a Colonia. Eravamo soli ed ascoltammo in un silenzio tesissimo, io avevo l’impressione di scoprire cose mai udite prima in quel pezzo. Finito l’ascolto, un lunghissimo silenzio fu spezzato da sue frasi per me illuminanti che un giorno rivelerò. Fu veramente qualcosa di unico che disse (o predisse) come se si fosse trovato in stato di trance. Poi ritornò a parlare con tono normale, attese un poco e quasi sussurrando all’orecchio mi disse: “c’è una sola battuta che dovresti cambiare, quella dove metti troppi ritmi. Stai attento perché basta una sola nota di troppo per rovinare il tutto”.
Anche Horatiu Rădulescu ha avuto un ruolo determinante. Tu lo hai frequentato partecipando alle complesse esecuzioni delle sue musiche, ma anche per preparare la tesi di laurea sulla sua musica, tesi che hai preparato con Aldo Clementi. Rădulescu ti introdusse ai segreti dell’immaginario sonoro, visto attraverso la lente dei fenomeni acustici insiti nel suono stesso, attraverso il gesto rituale. Raccontaci un po’ com’era Rădulescu e cosa hai imparato dal lui.
Rădulescu l’ho conosciuto a Lisbona, nel 1982. Dopo una mia conferenza alla Fondazione Gulbenkian sulla “nuova modernità” dove con un taglio ormai tutto mio, mettevo a confronto le avanguardie in una strada senza uscita e i nuovi movimenti neo tonali come una uscita senza strada. Intervenne Harry Halbreich, presente alla mia conferenza, dicendo: “c’è una via che non conosci, si chiama Rădulescu, lui è qui e t’invito caldamente al suo incontro di domani”. Aveva ragione. Con Rădulescu ci siamo trattati da subito come amici e complici di una vita. Fummo pochi giorni dopo a fare del turismo in una località del Portogallo dove alcuni monaci avevano scavato nella roccia un luogo di meditazione. Lui in quel luogo, dall’eco naturale lunghissimo, senza nessun altro che noi due e una ragazza che ci accompagnava, ha iniziato a fare, con la voce, suoni lungi e gravi, e poi vi sovrapponeva il fischio che creava un terzo suono non generato direttamente. La risonanza e l’eco della grotta esaltavano questi fenomeni e lui quando ormai era stabilizzato un pedale esclusivamente indotto dai fenomeni fisici di quel luogo, cambiava nota e, avanti di questo passo, arrivando ad improvvisare una propria e vera composizione di circa 3040 minuti. E poi iniziò a spiegare come si deve agire nei fenomeni e istigarli. Ma per me era rimasto tutto così chiaro all’ascolto che non avevo bisogno di spiegazioni.
In seguito alla sua costante frequentazione, alla partecipazione, anche come esecutore, a diversi concerti di sue musiche, in tanti paesi d’Europa, venne l’idea di fissare su carta l’universo sonoro verso il quale mi sentivo ormai un iniziato, tramite la mia tesi di laurea. Rădulescu non perdeva occasione per parlare nei minimi dettagli della sua musica, dei fenomeni acustici che la abitano e del modo su come suscitare tali fenomeni, e allo stesso tempo parlava con fare cinico e distruttivo di quasi tutta la musica dei colleghi compositori, ma con un talento nel metterne allo scoperto i difetti quasi da chirurgo che è risultato alla fine imbarazzante, perché proprio questo aspetto “anti sociale” ne faceva quasi un caso autistico della musica contemporanea.
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Immagine di copertina
Aldo Brizzi e Renzo Cresti (Archivio Renzo Cresti)
Horaţiu Rădulescu, nato a Bucarest il 7 gennaio 1942, studia privatamente violino con Nina Alexandrescu e armonia con Pascal Bentoiu. Nel 1969 ottiene il diploma di composizione con il massimo dei voti e la lode al Conservatorio di Bucarest sotto la guida di Tiberiu Olah (Composizione), Ştefan Niculescu (Analisi e Composizione) e Aurel Stroe (Orchestrazione e Formalizzazione musicale).
Nello stesso anno si stabilisce a Parigi e nel 1974 è naturalizzato francese cambiando la grafia del proprio nome, così come adottata nel nostro lavoro. Nel 1970 segue corsi di nuova musica a Colonia (con Mauricio Kagel e Luc Ferrari) e nel 1972 a Darmstadt (con John Cage, Iannis Xenakis, Karlheinz Stockhausen e György Ligeti). Inventore del sound icon, un pianoforte trasformato in un nuovo strumento di cui mette a punto la filosofia sonora e le tecniche esecutive, pubblica nel 1973 Sound PlasmaMusic of the future sign presso le edizioni Modern di Monaco. Si moltiplicano gli inviti e le commissioni dei maggiori festival di nuova musica, soprattutto francesi e tedeschi e nel 1974 è invitato a tenere un seminario all’Accademia Chigiana di Siena.
Pioniere della concezione spettrale del suono con alcune sue opere della fine degli anni sessanta, in seguito a vari stages di computer music psicoacustica all’IRCAM di Parigi dal 1979 al 1981, ottiene una commissione dalla Fondazione Scaler/Texas per l’IRCAM. Fondatore nel 1983 assieme al Quartetto Arditti e Pierre-Yves Artaud dell’Ensemble European Lucero, negli anni ‘80 tiene numerosi seminari e conferenze in tutta Europa, da La Sorbonne, Conservatoire National e IRCAM a Parigi, ai corsi estivi di Darmstadt e poi a Torino, Lisbona, Salisburgo, Colonia, Friburgo e nel 1988 è invitato dal Deutscher Aka demischer Austauschdienst (DAAD) a risiedere a Berlino. Nel 1989-90 ottiene la borsa di studio Villa Medicis hors les murs per risiedere prima negli U.S.A. (San Francisco) e poi a Roma. Stabilitosi in Svizzera a metà degli anni ’90, muore a Parigi il 25 settembre 2008.
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Aldo Brizzi, nato ad Alessandria, è compositore e direttore d’orchestra.
Dopo gli studi ai conservatori di Alessandria e Milano e la laurea con lode all’Università di Bologna, si è perfezionato con Leonard Bernstein, Sergiu Celibidache, Pierre Boulez.
Ha lavorato con Morricone e Scelsi. È direttore del Núcleo de Ópera de Bahia, Brasile. È stato direttore principale del “Ferienkurse Ensemble” di Darmstadt (1990-94).
Ha diretto l’Ensemble des Berliner Philharmoniker, l’Orchestra Nacional de Mexico, l’Orchestra Nacional de Oporto, l’Orchestra del Teatro Massimo di Palermo e registrato dischi con la Bamberger Symphoniker, l’Orchestra Filarmonica di Radio France, la Filarmonica di Torino, l’Orchestra Metropolitana de Lisbona, il Quartetto Arditti, etc. E come compositore, per il suo album Brizzi do Brasil ha riunito Caetano Veloso, Gilberto Gil, Teresa Salgueiro, Tom Zé, etc.
Ha scritto brani per orchestra eseguiti dall’Orchestra della Radio di Baden Baden, l’Orchestra della Radio Danese, l’Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia e per solisti quali Ezio Bosso, Alexander Balanescu, etc.
Ha diretto due CD di opere di Giacinto Scelsi, che hanno ricevuto il “Diapason d’oro” e il premio “Super Choc” di Le Monde la Musique.
Ha scritto opere come Mambo Mistico prodotta dal Théâtre National de Chaillot Paris (regia di Alfredo Arias), Gabriel et Gabriel (regia John Dew, Théâtre Du nois, Scène Watteau, Opéra de Tour, etc.), una nuova versione e orchestrazione di Treemonisha di Scott Joplin.
Attesa per il prossimo 2 dicembre l’esecuzione in prima assoluta a Radio France-Parigi dell’Opera in due atti Amor Azul con musica di Aldo Brizzi e Gilberto Gil, su libretto dello stesso Brizzi, la cui storia è tratta dal testo del XII secolo Gitagovinda del poeta mistico bengalese Jayadeva.
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