MICHELE << Ho sognato un mondo più giusto da quando ero bambino, e non c’è stata cosa che abbia desiderato più di una pace duratura. E allora, perché è andato tutto così male? >>
Malapace è il nuovo romanzo di Francesca Veltri. Pubblicato nel 2022 con la casa editrice Miraggi, è stato segnalato per il Premio Strega 2023 ed insignito del Premio Muricello sempre nel 2023. Dopo il monumentale Edipo a Berlino, pubblicato per Divergenze nel 2019, anche stavolta l’autrice si confronta con una vicenda complessa e divisiva. E ci racconta, attraverso le vicende di un gruppo di amici, la grande storia che s’intreccia e coinvolge le vite di ognuno nella Francia tra la prima guerra mondiale e gli ultimi giorni del regime di Vichy. François, protagonista e voce narrante, ripercorre, dalla prigione alleata in cui è detenuto nel 1944 per aver scelto di collaborare con il Ministero della Propaganda di Vichy, due decenni di vita individuale e di storia collettiva. Immagini in flashback che riportano ad affetti e delusioni, illusioni e passioni di una generazione segnata dai lutti della Grande Guerre, di ragazzi che diventano uomini confrontandosi di nuovo con gli orrori della guerra vissuta da bambini, con gli ideali del socialismo, con il lacerante dilemma tra pacifismo a tutti i costi, anche collaborando con gli invasori, o resistenza armata contro tedeschi e fascisti. E così, con dolorosa lucidità, François ci racconta la ribellione infantile per la morte del padre nella prima guerra mondiale; la scoperta della diversità nell’incontro con Martine, figlia di un maestro ebreo socialista; il sogno del comunismo, lo stretto legame con Jean-Pierre, gli anni della comune militanza politica, le delusioni del socialismo reale sovietico. E ci racconta la consapevole, scellerata scelta del Male per perseguire il Bene. E lo specchio crudele del viso di Antoine, anche lui amico d’infanzia, miliziano di Vichy recluso per crimini di guerra, che gliela rimanda.
Incontro Francesca Veltri nel suo studio al sesto piano del Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Universita’ della Calabria per un caffè pomeridiano e qualche domanda proprio su questo suo ultimo lavoro.
Buonasera Francesca e grazie per aver accettato l’invito, dedicandomi uno spazio tra didattica ed esami. Malapace: una storia di lacerazioni, di perdite d’identità, di domande e di dilemmi senza risposta. Un campo di prigionia alleato nella Francia liberata alla fine della guerra. Due amici d’infanzia che si ritrovano in attesa di un processo per collaborazionismo: entrambi hanno avuto ruoli di rilievo nel regime di Vichy. Una serie di flashback che ripercorrono gli anni tra la Grande Guerre ed il 1944. E che disegnano trame di vita di un piccolo gruppo di amici nel grande affresco della Storia terribile e sanguinosa di quei decenni. Malapace dunque: come nasce e perché questo titolo?
FRANCESCA Buonasera, e innanzitutto grazie per quest’opportunità di parlare del mio romanzo. Più volte, in questi mesi, mi è stato chiesto da dove fosse venuta l’idea di intitolarlo ‘Malapace’: devo confessare che non l’ho avuta io. Quando nel 2020 lo inviai alla casa editrice con cui l’avrei pubblicato, la torinese Miraggi, avevo messo come titolo provvisorio ‘D’altra parte’. Il fatto è che, mentre lo scrivevo, mi veniva in mente di continuo quest’espressione: c’è sempre un’altra parte, un altro aspetto da considerare, in ogni questione che ci troviamo davanti; non si finisce mai di vederne tutte le sfaccettature, eppure è proprio in quest’incertezza che vengono prese le decisioni più gravi, come quelle affrontate dai personaggi. In più, ogni volta che si è parte di qualcosa, c’è sempre per forza di cose un’altra parte cui contrapporsi, con la quale entrare in conflitto, attraverso cui distinguere il “noi” dal “loro”. François, protagonista nonché voce narrante della storia, questo conflitto lo ha dentro di sé, sperimenta in modo lacerante il dissidio tra il bisogno di un’appartenenza e il rischio di perdere, in suo nome, la propria libertà di coscienza individuale.
I responsabili editoriali di Miraggi mi suggerirono invece un titolo diverso, Malapace, e io accettai perché mi sembrò più evocativo, più efficace nel mettere in evidenza quello che è il tema fondamentale del romanzo, e che in un certo senso racchiude tutti gli altri: Malapace perché la pace, da preteso valore assoluto, diventa oggetto di scontro e di dissidio, vista ora come speranza di evitare nuovi massacri, ora come resa alla schiavitù nemica; ora come obiettivo da difendere a qualsiasi costo, ora come compromesso da rifiutare senza esitazioni. Ma, più in generale, la ‘pace’ bramata da François è un’assenza di opposizione e dunque della necessità di prendere una posizione, che il protagonista vagheggia pur rendendosi conto di quanto impossibile sia. La sorte lo spinge, anzi, a una serie traumatica di scelte che allontanano da lui questa pace in modo irrevocabile. Una sorta di supplizio di Tantalo, bramare qualcosa che sembra tanto vicino, così ovvio e facile da ottenere, così naturale da desiderare, e che si rivela perennemente irraggiungibile.
MICHELE La narrazione si inserisce nel contesto storico degli anni ’30 e primi ’40 in Francia. Un decennio – o poco più – di dibattiti aspri, di scissioni e di distinguo non marginali che porteranno tanta sinistra, sia comunisti che socialisti, a collaborare con il governo di Vichy. E tanti altri a scegliere il Maquis, la Resistenza armata. Un patto col diavolo che segnerà definitivamente il destino di François ed Antoine. Una scelta di speranza disperata che determinerà anch’essa vita e morte per Martine e Jean-Pierre. Scelte individuali che tu ben descrivi in un contesto assai più scivoloso e sottile di quel che si possa pensare. Chiedo allora alla storica: solo immaginario narrativo o riscontri specifici? Penso a Simone Weil ed ai suoi amici, al filosofo Alain…
FRANCESCA All’origine di questo romanzo ci sono in effetti i miei studi per la tesi di dottorato, in parte svolti a Parigi, grazie ai quali ho potuto imbattermi nella complessa questione del pacifismo francese. Già a partire dalla guerra civile spagnola, che vede Léon Blum, presidente socialista, rifiutare un intervento diretto del proprio governo in sostegno dei repubblicani, e poi con la successiva entrata dei tedeschi a Praga, il tema del pacifismo assoluto dilania la sinistra francese, divisa tra coloro che ritengono necessario difendere con le armi i paesi aggrediti dal nazi-fascismo e coloro che invece sostengono la necessità di accordi pacifici con Hitler, nella speranza di evitare un nuovo conflitto mondiale. Le tensioni tra queste posizioni esploderanno nel modo più lacerante dopo l’entrata in guerra della Francia a fianco della Polonia invasa dai nazisti, nel settembre del 1939. Sarà allora che un anarchico di cui oggi si è pressoché dimenticato il nome, Louis Lecoin, chiederà a molti intellettuali francesi di firmare un appello a deporre le armi, dal titolo “Paix immediate!”. Alain sarà tra quelli che vi apporranno il proprio nome, per poi ritirarlo poco dopo. Chiamato a chiarire la sua posizione, dirà di aver approvato una versione provvisoria del documento, in cui si denunciava la guerra e si chiedeva di fare tutto il possibile per preservare la pace, ma di non aver mai inteso con questo avallare l’invito alla diserzione e al sabotaggio, che nel testo sarebbe stato aggiunto in seguito. I suoi allievi, negli anni successivi, finiranno per porsi da un estremo all’altro di questa sua posizione tutto sommato ambigua: penso ad esempio a René Château e a Claude Jamet che diventeranno collaborazionisti, mentre dall’altro lato, quello della resistenza, uno dei nomi più celebri è appunto quello di Simone Weil.
Ancora pacifista assoluta al momento degli accordi di Monaco, la Weil cambierà radicalmente opinione nel 1939, al punto che, poco prima di morire, definirà in alcuni appunti il suo sostegno agli ambienti del pacifismo assoluto come «un errore criminale». Errore dovuto all’incapacità di riflettere adeguatamente sul problema, a causa dell’emicrania devastante di cui soffriva in quel periodo. Per questo motivo non avrebbe colto ‘l’inclinazione al tradimento’ dei propri compagni, quell’inclinazione che li avrebbe condotti fino a Vichy, dove in molti assumeranno ruoli di spicco a livello governativo. Epperò quei ‘compagni che tradiscono’ non ritengono di star sbagliando, ritengono anzi che siano gli altri a tradire gli antichi ideali. Proprio come accade a François, che dal Partito Comunista Francese passa a diventare funzionario del Ministero della Propaganda di Pétain, e si trova così contro Jean-Pierre e Martine, i suoi amici di una vita, che rappresentano la scelta della resistenza armata, a sua volta sofferta, non scontata, difesa tenacemente contro il compagno di un tempo, che li accusa di star aumentando inutilmente il numero dei morti, quando sarebbe così facile evitarli… l’abisso che li separa è enorme, incolmabile, e in quest’abisso si smarrisce ogni affetto pregresso, ogni calore d’amicizia, ogni legame reciproco, per quanto forte e profondo possa essere stato.
MICHELE Ci siamo finora soffermati sul contesto esterno della vicenda. Cambiamo ora la nostra prospettiva per entrare più all’interno della narrazione. Mi piacerebbe approfondire con te la figura del protagonista. François è stato un bambino timido e introverso, segnato per sempre dalla morte del padre nella Guerre du quatorze dix-huit. Quella su cui un irridente Brassens ironizzerà anni dopo. Una inattesa ribellione al lutto gli costerà la sospensione dalla scuola. L’incontro adolescenziale con Martine, figlia di un maestro ebreo e socialista, gli aprirà una finestra sulla diversità. Il difficile rapporto con il nuovo marito della madre, lo porterà ad allontanarsi definitivamente dalla famiglia, dalle amicizie d’infanzia, dalle radici della sua educazione cattolica. François sembra smarrirsi alla ricerca di un’identità, in un costante bisogno di essere riconosciuto ed amato. Troverà conforto, forza e nuove radici nella adesione al Partito Comunista. Ma, ben presto l’immagine ritrovata svanirà tra delusioni sentimentali, dissensi politici e la consapevolmente scellerata adesione al regime di Vichy.
FRANCESCA L’approdo a Vichy è solo l’ultima delle lacerazioni che François conosce nella sua vita, segnata da strappi continui di cui si assume la responsabilità, ma che non per questo risultano meno dolorosi. François è – prima e al di là dei vari ruoli e appartenenze che si cuce addosso – un uomo che urla il suo bisogno di essere amato malgrado tutto. Il fil rouge del romanzo è forse proprio in questa sua richiesta, che egli sa irrealizzabile, e che pure non smette di fare alle persone che via via abbandona e tradisce: la sua famiglia possidente quando aderisce al comunismo; la sua profonda appartenenza cattolica quando fa suo il sogno sovietico; e, non ultimi, i suoi compagni comunisti, quando quel sogno mostrerà un volto opposto a quello che aveva lasciato sperare, e lo spingerà ad uscire dal partito.
Il romanzo si apre alla fine della guerra, in un campo di detenzione alleato, dove François attende la condanna per aver collaborato con il nemico, e per altre colpe che nessuno può imputargli tranne se stesso. Eppure, giorno per giorno, cerca di convincersi di aver almeno mantenuto un’innocenza di fondo, di non essere il fascista che gli altri vedono in lui, perché non si è mai sporcato le mani con il sangue degli altri, non ha mai voluto gli orrori di cui suo malgrado è stato testimone. Sarà Antoine, compagno d’infanzia prigioniero nello stesso campo, nazista convinto e non pentito, a costringerlo a fare i conti con il proprio passato. A gettargli in faccia la consapevolezza che lui, miliziano e torturatore, è solo uno dei tanti ingranaggi del complesso sistema di cui anche François ha fatto parte integrante, dando il proprio contributo per tenerlo in vita, a un prezzo di cui solo ora intuisce tutta l’atroce entità.
C’è una frase, nelle ultime pagine del romanzo, che per me riassume la tragedia di quest’uomo, una tragedia che come quelle greche non offre soluzioni, non presenta colpe esplicite e dichiarate, compiute ‘in piena coscienza e deliberato consenso’; eppure François, come un novello Edipo, non può non essere schiacciato dall’orrore che i propri atti rappresentano, per quanto nobili fossero le intenzioni da cui era guidato, per quanto il mondo in cui li ha compiuti fosse diverso rispetto a quello in cui ora si trova a vivere. La leggo spesso quella frase e mi piace rileggerla con te: << Cristo non ha forse chiamato “beati” coloro che avevano fame e sete di giustizia? Quelli che operavano per la pace? Ho sognato un mondo più giusto da quando ero bambino, e non c’è stata cosa che abbia desiderato più di una pace duratura.
E allora perché è andato tutto così male?>>.
MICHELE Già, Francesca. Perché è andato tutto così male? Eppure, gli ultimi giorni di François – le ultime ore, direi – sembrano aprire una prospettiva di speranza. Non più per il protagonista, ma per il lettore. È solo una mia suggestione?
FRANCESCA: C’è un personaggio che affiora proprio nelle ultime pagine, di sfuggita. Al punto che quasi non me ne sono accorta, mentre ne scrivevo, come fosse una pennellata in più che avrebbe potuto anche non esserci. Una neonata, un’ombra che non ha una voce propria, di cui si sente solo parlare per un istante. Eppure, un lettore mi ha fatto notare come proprio quella neonata permetta di chiudere il romanzo con una speranza nel cuore. L’ha paragonata, lui, alla Francia che dall’orrore e dalla morte stava nascendo a nuova vita, quella Francia di cui i protagonisti ignorano il destino; tuttavia, proprio per questo potranno sognare che sia felice, o almeno più felice di quanto non sia stato il loro…
MICHELE Siamo così arrivati al termine della narrazione. E gli impegni con i tuoi studenti ti richiamano in aula. Grazie Francesca per questa bella chiacchierata e per il tempo che mi ha voluto dedicare. A proposito, il caffè era ottimo: devo passare da te piu’ spesso…
Immagine di copertina: Solo.Nel conflitto la pace, HG Studios
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