Mi sono avvicinata a questo tema in seguito alla decisione dell’associazione El Fèlze, che riunisce gli artigiani della gondola, di valutare la possibilità di una candidatura UNESCO. Il primo appuntamento sul Ponte di San Sebastiano risale al 2 dicembre 2011. Quella giornata di inizio dicembre ha determinato un cambio sostanziale della mia relazione con Venezia, o almeno con una parte di essa: da residente dell’entroterra distante poche decine di km ma confinata a uno sguardo esterno di turista più o meno tollerata, all’assunzione di un ruolo privilegiato di chi ha accesso su invito a nicchie di intimità di uno dei luoghi geografici più frequentati al mondo e come tale uso per difesa a facciate di convenienza stereotipata, se non di ostilità esplicita.
Dopo quella investitura solo simbolica, il mio modo di frequentare Venezia è cambiato sentendomi un po’ parte di una realtà territorialmente vicina, ma da sempre percepita come un altrove accessibile solo nella cornice esterna della bellezza per lo più isolata da tracce di vita vissuta. Dopo quel primo passaggio con valore iniziatico, sono seguite numerose occasioni più o meno conviviali di incontro e confronto con gli artigiani soci di El Fèlze, ma non solo. Di questa relazione ormai decennale mi rimane la consapevolezza crescente di come difendere e promuovere il lavoro di qualità (in questo caso l’artigianato artistico) abbia un valore civico e propriamente etico, a garanzia di modelli di vita improntati all’insegna del rispetto e in connessione fertile e gioiosa con le comunità e il contesto di riferimento.
Cambiamenti violenti
La gondola continua a essere un’icona potente, simbolo senza incrinature di una unicità nel mondo. Come manufatto artistico invece soffre di una forte crisi di identità, in conseguenza dell’introduzione di nuovi materiali e tecnologie che ne stanno stravolgendo le modalità costruttive. Autenticità, qualità, bellezza, unicità sono alcuni dei parametri rivendicati e quindi messi in discussione da un mercato che fa sempre più pressione sull’artigianato.
In quanto mezzo di trasporto, la gondola è da sempre all’interno di una storia di modelli e tecniche in trasformazione che la mantengono funzionale rispetto alle diverse esigenze dei tempi. Ora sembra però vicino uno strappo troppo violento per essere riassorbito da una tradizione naturalmente in movimento. E la gondola pare destinata a trasformarsi in un simulacro svuotato di ogni pregio costruttivo e dei saperi condivisi nei secoli.
Nel corso del tempo su questa imbarcazione dalla linea caratteristica sbilanciata sono intervenute piccole e grandi trasformazioni, come si nota chiaramente guardando dipinti e foto storiche che mostrano per esempio una gondola quasi piatta. In effetti, la forte curvatura a mezzaluna è una moda recente e il grado di inarcamento dello scafo è scelto dal gondoliere. Roberto Tramontin, compianto proprietario dello storico squero veneziano omonimo di Dorsoduro, descriveva bene questa procedura e il gusto che ci sta dietro: “Quando si fa la fracada imbananatura della barca, la poppa e la prua vengono scaldate e schiacciate con delle punte dal soffitto, finché non si riesce ad arrivare ad avere la linea che il gondoliere richiede. C’è chi vuole una gondola imponente, te vedi sta barca che vien vanti, ‘se come ‘na dona formosa, ‘se na roba. Invece quelle basse sono anonime”. Inoltre, dalla gondola è sparito il “felze”, che come cupola di protezione per i passeggeri era inadatto all’uso turistico, oltre ad aumentare l’instabilità in un’epoca in cui il moto ondoso è un vero problema; e ancora l’acqua alta, molto più frequente oggi di altri tempi, ha portato alla scelta del “ferro” (riccio) di poppa incernierato e quindi piegabile da un lato per passare facilmente sotto i ponti. Ritornando indietro nei secoli, lo stesso colore nero, così caratteristico, è frutto di una svolta seicentesca per una imposizione di sobrietà da parte del Senato della Serenissima. Anche le tecniche costruttive si sono modificate, visto che sino alla fine dell’Ottocento lo scafo era impeciato dai calafati, mentre ora è verniciato e dell’importanza della pece permane solo il ricordo nelle caratteristiche espressioni: impegoeà, che pegoea…
I vecchi maestri d’ascia compravano i tronchi di rovere di didici metri, necessari per il lungo scafo, conservandoli per anni all’interno degli squeri fino al grado giusto di essiccazione. Oggi il processo di stagionatura avviene industrialmente e non più a Venezia. Si tratta di modifiche che confermano la vitalità della gondola e della comunità artigiana costantemente attiva in un processo di aggiornamento. Ora, però, la trasformazione in atto in alcuni cantieri non sembra rientrare nei limiti di un rinnovamento necessario e vivificante, ma invece rischia di fare tabula rasa di una storia gloriosa, mantenendone solo la facciata. Della gondola, celebrata quale vanto della tradizione della cantieristica veneziana, che condensa secoli di abilità finissime tramandate, rimane in sempre più casi solo la sagoma realizzata con competenze e investimenti minimi, a scapito delle maestranze storiche per le quali il mercato si sta restringendo. Il rischio, inoltre, è che il fermo turistico di questo periodo di pandemia e la crisi economica conseguente aggravino questa tendenza esasperata al ribasso di modelli e costi.
Semplificare/impoverire
Prima dell’attuale decimazione dei flussi turistici causa Covid-19, la professione del gondoliere era florida e la richiesta di “giri in gondola” non vedeva flessioni. Allo stesso tempo, però, chiudevano o si trovavano in forte difficoltà alcuni laboratori dediti alle diverse fasi di costruzione della gondola e degli accessori di complemento. La crisi ormai decennale riguarda quegli artigiani che perpetuano procedure tradizionali incentrate sulla qualità, realizzando cioè pezzi unici, senza riproduzioni meccanizzate e impiegando materie prime di pregio. Sempre più gondolieri, infatti, preferiscono soluzioni costruttive semplificate e il risultato è una gondola o un suo simulacro che consente il taglio di due terzi del costo e delle tempistiche di produzione, oltre che degli impegni di cura.
Così, dal fasciame di legno massiccio con stagionature lunghe, si sta passando al più economico compensato marino che riduce gli interventi di manutenzione. Mentre sono sostituiti con produzioni seriali gli accessori tradizionalmente realizzati a mano e spesso su indicazioni personalizzate del gondoliere: le forcole sono riprodotte con macchine copiatrici; i cavallini rampanti di ottone a sostegno dei cordoni a fianco ai sedili (che richiedono continue sessioni di lucidatura) ora sono disponibili in plastica; i “ferri” di prua non più forgiati a mano e calibrati sulla singola gondola, possono essere stampati partendo da una lamiera di acciaio inox resistente alla salsedine. Inutile notare, come fa Ermanno Ervas, esperto fabbro e restauratore, che i ferri realizzati in questo modo siano alquanto tozzi, a differenza di quelli lavorati a forgia e tirati sottili fino a due millimetri.
Più in generale i cambiamenti o stravolgimenti riguardano tutta la piccola cantieristica della laguna veneziana, dove le barche sono ormai quasi esclusivamente in vetroresina o in compensato marino; materiali economici, stabili, molto semplici da usare e che di fatto rendono superflua quella sapienza, acquisita in lunghi praticantati necessaria, invece, per costruire imbarcazioni in fasciame. E il rinnovamento, giocato sul piano della economicità e praticità (ma non della sostenibilità ambientale, visto il problema di smaltimento di queste nuove tipologie di materiali), ha inevitabili risvolti formali con la perdita delle linee morbide, da sempre al centro della progettazione nautica e parametro di misura dell’abilità cantieristica valutata appunto sulla capacità di curvare il legno. Non serve più la ricerca di quel punto di arrivo mai perfettamente replicabile, frutto di sensibilità coltivate con infinita esperienza e in accordo tra artigiano e navigante. Si capisce allora come questa dismissione generalizzata di pratiche antiche assuma connotazioni emblematiche se riguarda la gondola, riconosciuta essere il più grande esempio della raffinatezza costruttiva della cantieristica veneziana. E si comprende allora anche come sembri legittimo chiedere un impegno d’altro tipo a suo favore, una deroga alla economicizzazione dei processi produttivi in considerazione del valore di patrimonio culturale che questo manufatto detiene.
Venezia che muore
L’impegno di salvaguardia della gondola realizzata ad arte ha d’altronde a che fare con la sopravvivenza di molto altro. Da una certa prospettiva la contrapposizione tra gondola simulacro e gondola manufatto di pregio riflette la divisione netta e alquanto sofferta tra la Venezia attraversata annualmente dal flusso di trenta milioni di turisti e la “città vera, viva e vivibile, animata da abitanti ed attività originali, inserita in una laguna sana e rispettata” (El Fèlze). Non è un caso che nel contesto cittadino la realtà degli squeri e delle botteghe artigiane storiche sia diventata simbolo di un presidio di difesa di quello che l’eccesso di turismo sta togliendo a Venezia. Un esempio di questa adesione è il grande successo della manifestazione “disnàr per la storica”, una cena organizzata per la prima volta ad agosto 2016, per iniziativa di El Fèlze e con il contributo di varie associazioni remiere e descritta come “una grande festa della venezianità”. Le tavolate allestite in vari punti di Venezia, le isole e San Giuliano hanno visto oltre duemila partecipanti (con numeri ancora maggiori nelle edizioni successive), entusiasti di prendere parte a un evento che vuole suggerire modi diversi di vivere la città e soprattutto sostenere la Regata storica, in quanto manifestazione simbolo della tradizione nautica veneziana.
Le istanze portate avanti per difendere il lavoro artigiano di qualità hanno trovato riscontro, dunque, nello spaesamento sofferto da chi sta vivendo in diretta la conversione di Venezia in parco a tema per turisti, con sempre meno residenti. Un luogo di tutti e di nessuno privo di ogni senso di appartenenza e identificazione, funzionale solo a esigenze pratiche, basilari e gestite dai grandi sistemi economici: spostarsi, mangiare, divertirsi, dormire…
I maestri d’ascia e di forgia e i loro colleghi, uniti dalla filiera produttiva di qualità della gondola, sono diventati in qualche modo portavoce di un sentire diffuso che si riconosce nella difesa di valori in pericolo: la maestria, la qualità del lavoro e dei materiali, l’unicità e la personalizzazione dei prodotti, l’etica professionale, il rispetto coltivato in lunghi scambi tra committenti e artigiani, la rarità delle tecniche, la tradizione che guarda alla storia, il senso di appartenenza a una corporazione radicata, il legame affettuoso con i luoghi e le relazioni umane durevoli. Sono aspetti celebrati pensando alla dimensione lavorativa, ma che funzionano anche per identificare un sistema di vita alternativo a quello imposto alla città in balìa di masse in movimento veloce, superficiale e offensivo in quanto insensibile al contesto e ai suoi abitanti. “A che ora chiude Venezia?”. È solo uno dei molti aneddoti che circolano tra i residenti e che sintetizzano efficacemente l’immaginario locale rispetto all’attitudine dei turisti verso Venezia-parco di divertimenti.
La gondola dal secondo dopoguerra ha perso progressivamente il legame originario con la città. Da mezzo di trasporto de casada, sorta di carrozza acquea delle famiglie facoltose, simbolo distintivo e di rappresentanza, è diventata ormai solo un gioco per turisti. Mentre le sedi del lavoro tradizionale risultano veri e propri catalizzatori di sentimenti di solidarietà e stima locale, luoghi ‘antropologici’ in cui si coltiva e vive il senso di appartenenza e di convivialità. Nel fare artigiano sembra trovarsi cioè una forza di contenuti condivisi che suscitano entusiasmo come simbolo di un bene superiore. Così il modello di lavoro artigianale si inserisce in un modello esistenziale connesso alla qualità della vita, con un riferimento esplicito e consapevole al testo di Richard Sennet L’uomo artigiano (2008), che sottolinea il valore civile del lavoro manuale ben fatto, garanzia di pluralismo e creatività oltre che promotore di relazioni sociali e comunitarie. E il discorso diventa inevitabilmente complesso integrando più dimensioni, fino a poter affermare che chi impara a lavorare bene diventerà anche un bravo cittadino in grado di riconoscere e mettere in atto le procedure di buon governo.
Il mestiere artigianale di qualità si trova dunque ad essere scomodo, quasi sovvertivo in un’epoca con tendenze all’accelerazione basata sulla standardizzazione e sul profitto senza responsabilità. Perpetuare queste procedure significa portare avanti quasi una forma di guerriglia in contrapposizione al fare seriale, veloce e omologante e al sistema che lo favorisce. In questo senso si può riconoscere il ruolo antagonista svolto dagli artigiani di El Fèlze, in contrasto con le dinamiche affermatesi a Venezia in balìa di un mercato globalizzato e basato sulla vendita di prodotti industriali di importazione e di bassa qualità, realizzati in forma più o meno esplicita di contraffazione e con grave impatto ambientale.
Efficaci al riguardo le parole di Saverio Pastor, remèr e presidente dell’associazione: “Con il nostro lavoro e la nostra storia siamo un modello tangibile di quella ‘altra economia’ così ricercata nell’attuale grave crisi economica. Il nostro lavoro non richiede infrastrutture devastanti e favorisce le piccole virtuose economie locali e diffuse”.
Venezia non sarà più quella di ‘una volta’, ma nel fluire inevitabile del tempo come dell’acqua meritano tutto il supporto possibile gli sforzi di chi cerca forme di sopravvivenza alla deriva del mito moderno (sempre più anacronistico) dello sviluppo infinito e delle pratiche deculturanti connesse.
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Foto di copertina
Tradizionale parecio in broccato e cavallini in ottone. Foto di Ugo Perissinotto
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Elisa Bellato ha conseguito un dottorato in antropologia culturale ed è appassionata di patrimonio nelle sue diverse declinazioni. Ha realizzato pubblicazioni dedicate alle tematiche museali e alle politiche di gestione dei beni culturali e progettato musei ed esposizioni di interesse etnografico. Ha insegnato Antropologia culturale e Antropologia dell’arte all’Università di Verona e Ca’ Foscari a Venezia e Museologia all’Università della Basilicata.
Attualmente sta studiando l’evoluzione in chiave “patrimoniale” delle Ville Venete e le trasformazioni della città di Venezia a causa dei flussi turistici.
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