La regia e la recita più difficile e coraggiosa di Giuliano Scabia, morto il 21 maggio scorso, è stata quella che ha coinvolto alcuni amici legati anche alla moglie Cristina Giglioli, cardiologa, per offrirle a sorpresa un piccolo elegante volume dal titolo Chi è la cura?1, finito di stampare in aprile, in occasione della sua entrata in pensione. Per lei ha raccolto in gran segreto scritti vari, testimonianze, disegni, fotografie, immagini: la “combriccola di cospiratori” (medici, musicisti, grafici, fotografi, letterati, uomini di teatro, ingegneri idraulici, la figlia Aurora psicologa…) era tuttavia in gran parte ignara che fosse così imminente il congedo del “regista”, per via dei giri di bozze puntigliose accompagnate da osservazioni, brevi telefonate che raccomandavano il silenzio. Cristina ricevette – e fu vera sorpresa – l’omaggio del suo poeta vagante che pochi giorni dopo se ne andò. Giuliano aveva rimaneggiate a suo modo, facendone dei minuscoli irresistibili racconti, le note bio-bibliografiche richieste a ognuno.
Ne fece una anche per sé, la più breve, con un riferimento al Serpenton del Mare con cui si apre il volume:
«Io, si sa, faccio lo scrittore, e qui ho retto i fili della “cospirazione”. Credo in Serpenton del Mare e anche al Mose, a differenza di quasi tutti i miei amici» (p.19).
Il finale del Prologo, letto oggi, dà conto della lucidità e insieme della calma curiosità con cui sentiva avvicinare la fine, guidato dalla sapienza di Marco Cavallo:
«Marco Cavallo […] può forse aiutare a capire che la medicina non è onnipotente, che la morte fa parte della vita – anzi, che l’ultimo dono della vita è la morte – e che bisogna imparare ad accettarla» (p.11).
Alla Nota che gli avevo inviato, Giuliano aveva aggiunto di suo la mia amicizia e collaborazione col pittore Armando Pizzinato:
«altro caro amico e “compagno” dai tempi della grande Venezia anni Sessanta, anche lui curato da Cristina, avrebbe sicuramente fatto parte del gruppo dei “cospiratori”» (p.15).
Ecco allora che per Finnegans ho pensato di battere questo suo sentiero sulla pista di un amico comune, che poi significa parlare di Scabia “guardatore di quadri” e del suo senso della necessaria contemporaneità d’ogni forma dell’arte.
Scabia ha molto illustrato le sue opere con disegni e pastelli delicati, e pittori e artisti hanno accompagnato da sempre il suo cammino: basti pensare a Vittorio Basaglia, cugino dello psichiatra Franco, con il quale nel manicomio di Trieste mise in moto Marco Cavallo:
«una macchina desiderante e sognante, un cavallo azzurro, insieme ai matti, ai medici, al direttore Franco Basaglia, cugino di Vittorio – un cavallo azzurro che ancora vive».2
Per pittori, musicisti, artisti, artigiani Scabia ha generosamente scritto pagine preziose, spesso affidate a fogli volanti, a piccoli cataloghi o a brevi prose finite in esili plaquette numerate e donate agli amici, come i Canti di fine anno illustrati da Riccardo Fattori e recitati nella sua casa veneziana con l’accompagnamento alla pianola del compositore Claudio Ambrosini. Sono scritti accompagnati da una sua poesia, o addirittura si riducono a un’unica poesia, che sarebbe utile vagliare e raccogliere in un unico libro sull’arte perché parlano di un autore, sempre propenso ad animare le opere di cui parla al suo pubblico variegato con sapienti raccordi alla favolistica antica, al mito o al mondo cavalleresco. Tornando a Pizzinato, l’amicizia di Scabia con questo pittore è antica, ripresa insieme alla moglie Cristina, dopo un lungo intervallo. Forse il ritratto più completo è quello che scrive per il Catalogo Electa del ’96 curato da Marco Goldin per la mostra antologica di Villa Manin di Passariano, che raccoglie l’intera storia e le diverse stagioni di questo grande pittore.
Ho memoria di fervide discussioni sulla terrazza della casa veneziana di Pizzinato nei pressi della Basilica della Salute. Giuliano preparava il suo scritto e interrogava Armando che gli rispondeva divagando per conto suo; io tentavo di riportarlo a risposte precise, ma tendenzialmente mi ignoravano entrambi, contenti e appagati del loro dialogo per me un po’ misterioso. Ne uscì un pezzo davvero bello, forse quello che coglie meglio di altri la complessità, la forza e la poesia dello stile Pizzinato, la sua vicenda artistica e il confronto fruttuoso con i vari Morlotti, Viani, Turcato, Afro, Birolli, Guttuso, Santomaso, Mirko, o gli incontri con personalità come Pound o la frequentazione con Peggy Guggenheim, che abitavano nelle vicinanze. Ma soprattutto porta alla luce, filtrata da un sottile umorismo, la sua storia con Emilio Vedova, compagno durante la Resistenza in piena amicizia e sintonia fino allo scioglimento del Fronte Nuovo delle Arti nel 1950, quando le loro strade artistiche presero direzioni diverse.
Pur abitando a pochi metri l’uno dall’altro nella stessa Calle dello Squero alla Salute, da quel momento si sono evitati e ignorati. Scabia, amico e ammiratore di entrambi, conoscitore delle tecniche e dei mondi di entrambi si interroga sul perché della persistenza di questa rottura. Se è innegabile che tra i due il più “fortunato”, nel senso di come la sua arte ha incontrato pubblico e critica, sia stato Vedova, la risposta che si dà esula da questo aspetto ed è, in filigrana, anche una sorta di autoritratto:
«nella biografia di entrambi s’incontra la continua battaglia che li fa così nemici e così vivi. Io, che sono un poeta camminante e un guardatore di quadri, amo il lavoro di tutti e due e a tutti e due voglio bene. Perciò qui li nomino insieme – non sapendo pensare questa calle se non con loro due. Perché? Perché sono due guerrieri» (Giuliano Scabia. Ascolto e racconto, p.90).
Lo scritto per il catalogo, poi confluito sia nella mia monografia su Scabia sia nell’Album per Pizzinato per i 90 anni del pittore, si intitola Pizzinato pittore, guerriero ed eremita e già in questo titolo è riassunto il profilo del vecchio amico.
Nelle sere veneziane, soprattutto invernali, dalle parti della Salute, poteva capitare di incontrare Giuliano, talvolta con in mano un libro: una di quelle sere, mentre gironzolavo insieme ad Armando verso la Punta della Dogana, si materializzò sul ponte dell’Umiltà con in mano La Passeggiata di Walser: non ci sembrò strano continuare a camminare un po’ con lui e ascoltarlo mentre ci raccontava il libro. Non sarà forse un caso che proprio una passeggiata notturna e ventosa verso la punta della Salute apra lo scritto su Pizzinato, in cui convoca e richiama in vita non solo le anime degli amici scomparsi, ma tutto un pezzo di storia artistica di una Venezia viva e fervente, in cui si innesta la domanda a cui non solo in questa sede cerca risposta:
«Chi è un pittore? Per me è uno che cerca continuamente di andare oltre la tela […] uno che quando lavora è un eremita. Pizzinato oggi è un eremita […] I pittori hanno la consistenza dei sassi e una sapienza da muratori e imbianchini».
Andrebbe riletto tutto questo scritto, per la ricchezza di spunti che offre, per la profondità della riflessione sull’arte che contiene, per il ritratto di un vero artista ancora oggi non abbastanza apprezzato: solo la sapienza e la poesia di chi lo traccia poteva, sequenza dopo sequenza, comporre un così limpido racconto di quadri e visioni, di senso dei colori e di prospettive artistiche.
Sottolineerei, inoltre, che quasi sempre il vento nella sua forza o nella dolcezza di un refolo accompagna gli scritti sparsi di Scabia, quasi un movimento necessario per oltrepassare i limiti, entrare in dialogo con i vivi e con i morti. Il dialogo con la pittura è un dialogo ininterrotto, che si lega alla musica, alla poesia, al racconto, al teatro, a tutti i fili che si tengono e si intrecciano e che non sono mai separabili.
I momenti di ascolto e racconto che riguardano Pizzinato sono diversi, alcuni occasionali, come in Vedo l’ala che si apre sulla spalla del poeta. Per un ritratto di Andrea Zanzotto, in cui il pittore è tramite e spunto per il ritratto del poeta:3
«Un giorno, forse cinque anni fa, sono andato a Pieve di Soligo con un anziano e grande pittore, Armando Pizzinato – e mentre eravamo là a parlare in casa di Andrea Zanzotto improvvisamente mi è sembrato entrare un rèfolo di vento bianco: devo aver detto qualcosa come: e se adesso fosse entrato un angelo?».
Mi piace chiudere con l’ultima raccolta di testi di Scabia, Una signora impressionante. Della poesia e del teatro il corpo (Casagrande 2019). È un libro che si può leggere anche come un compendio visionario dell’intera sua storia artistica, a volte ripresa, a volte accennata in alcune sue sfaccettature: con gli studenti del DAMS di Bologna (Il Gorilla quadrumano), con Franco Basaglia al Manicomio di Trieste (Marco Cavallo), con Luigi Nono (La fabbrica illuminata), con artisti e attori (le maschere di Sartori, l’arte di Soleri, l’attore come colui che attraversa il sipario per entrare in un altro mondo), e poi coi poeti muratori e contadini sapienti, abitanti dei paesi (Poeti di Marmoreto), o cantori incontrati per via e frequentati nel tempo, in un percorso che si snoda dalla neoavanguardia alla sperimentazione musicale e linguistica, al teatro vissuto fin nelle periferie delle città e nei boschi. Non potevano mancare i pittori: Vedo il pittore che in piedi davanti alla tela, come un sacerdote, come un combattente (pp. 113-118). Pizzinato qui chiude la rassegna della meditazione sulla pittura che Scabia attraversa con Claudio Olivieri, Emilio Scanavino, Nanni Valentini, Pino Spagnulo, Jan Koblasa, Vedova, Vittorio Basaglia… Li si ritrova, entrambi, vicini:
«Ecco, Pizzinato lo vedo, anche per come l’ho conosciuto, come un guerriero e sciamano così: testardo, intransigente, duro e tenero, furlano, comunista, scorbutico, innamorato del rosso, del giallo, del blu, del verde, del bianco – dei colori più belli – uno di quei pittori di sentinella sulla soglia: soglia della storia, del tempo, del futuro, del dolore, della catastrofe, della resistenza, del mare, dei gabbiani – intento a cercare la struttura di ciò che appare (l’essere?), per decifrarlo, e formarlo.
Di questa straordinaria schola veneziana – lui, Vedova, Tancredi, Santomaso, Gianquinto, Basaglia e alcuni altri – si potrebbe dire che ha cercato per vie diverse, qualche volta dialogando con le mitiche lotte operaie – di dare forma all’essere della storia – di cercarne il senso. Per prove e errori.
Con Armando, ritrovato dopo tanto tempo, abbiamo molto dialogato (anche per merito di Cristina Giglioli, sua dottoressa) fino alla gran partenza. Di pittura, di politica, di poesia (un giorno all’Ateneo veneto abbiamo provato a rileggere Majakovskij – com’era curioso di tutto, fino alle ultime ore, attento al mutamento, mai immemore, come quando seguiva Paolo Dorigo in carcere e poi agli arresti domiciliari – per affetto e resistenza.
Una mattina Armando mi ha raccontato un sogno.
Ho sognato che ero morto, mi ha detto. C’era uno spazio immenso e volavo lì su e giù, e intorno c’erano tanti che volavano, su e giù. Su e giù.
Era andato oltre la soglia, il comunista sciamano?».
Note
1. Chi è la cura? Per Cristina Giglioli, cardiologa. Scritti, disegni, fotografie, partiture raccolti da Giuliano Scabia, San Miniato (Pisa), La conchiglia di Santiago 2021: « Questo libro è nato in segreto. È un dono alla mia sposa, Cristina Giglioli, cardiologa, nei giorni in cui lascia il rapporto con l’istituzione ed entra in pensione – senza cessare di essere curatrice, credo. E vuol essere un dono anche per tutti quei medici, infermieri, portantini, operatori che ho visto al lavoro nei luoghi dove sono stato curato» (p. 9). Il libro è aperto da due inediti: O serpenton del Mare, chi è la cura? e Prologo.
2. Mi permetto di rimandare al mio ormai lontano Giuliano Scabia Ascolto e racconto. Con antologia di testi inediti e rari, Roma, Bulzoni, 1997, p. 95, che dedica a Vittorio Basaglia il secondo dei tre scritti sull’arte ivi raccolti, il Discorso sulle Metamorfosi. Il primo e il terzo sono rispettivamente: Pizzinato pittore, guerriero ed eremita (da cui trarrò alcune citazioni) apparso nel libro-catalogo Electa curato da Marco Goldin in occasione della mostra antologica del pittore a Villa Manin di Passariano giugno-agosto 1996 (pp.225-227), e Dialogo fra pittura e scrittura a proposito del paesaggio, in occasione della mostra veneziana di Daniele Bianchi nel 1994 e apparso nel catalogo della mostra Studio d’arte Barnabò nel 1994. Scabia sceglie questo pezzo anche per l’Album per Pizzinato, Venezia, Centro Internazionale della Grafica, 2000, pp.50-51, a cura di chi scrive e in occasione dei 90 anni del pittore.
3. Giuliano Scabia, Il tremito. Che cos’è la poesia?, Bellinzona, edizioni Casagrande,2006
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Silvana Tamiozzo ha insegnato letteratura italiana contemporanea a Ca’ Foscari come professoressa associata fino al primo ottobre 2020, anno in cui è andata in pensione col titolo di Senior Researcher. Dal 2006 è Responsabile degli Archivi delle “Carte del Contemporaneo” al Centro Interuniversitario di Studi veneti (CISVe). Si è occupata di Rovani (Edizione dei “Cento anni” e “Lo scapigliato in archivio”) e di altri narratori dell’Ottocento, di autori contemporanei (Celati, Vassalli e soprattutto Scabia, a partire dalla monografia “Giuliano Scabia. Ascolto e racconto”). Ha studiato e continua a studiare la poesia contemporanea da Caproni e Zanzotto fino a Krumm, Pusterla, Tarozzi e Valduga. È membro della giuria del Premio di poesia San Vito al Tagliamento presieduto da Elvio Guagnini.
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