“Non comporre più con le note, ma con il suono.
[…] Noi siamo musicisti e il nostro modello è il suono e non la letteratura, il suono e non le matematiche, il suono e non il teatro, le arti plastiche, la fisica quantistica, la geologia, l’astrologia e l’agopuntura!”
(Gérard Grisey)
Che sia forse l’immagine della puntura, a mo’ di lapsus psicolinguistico, quella che meglio potrebbe rappresentare quel fenomeno ‘urticante’, ma anche i suoi effetti irritanti sul tessuto fortemente reattivo di un’avventura creativa nelle viscere del suono come quella definita spettrale – vale a dire i differenti strati armonici che costituiscono la materia sonora – che è stata la vicenda artistica di Gérard Grisey (Belfort 1946 – Parigi 1998) quando apparve sulla scena musicale nei primi anni Settanta?
Una sorta di effetto ‘urticante’ soprattutto negli anni di elaborazione e poi di prima proposta della sua musica nei primi anni settanta, quando ancora quella che nei due decenni successivi si sarebbe manifestata come la stagione cosiddetta spettrale o de l’Itineraire – che nel panorama musicale francese rappresentò quella sorta di Terza via al suono – risultava ideologicamente schiacciata da una parte dal retaggio postdarmstadtiano di Pierre Boulez, vero autarca dominante sulla scena francese per la creazione e guida del più importante centro di ricerca ed elaborazione del suono elettronico da lui creato e diretto, l’Ircam, per oltre un ventennio fino al 1992 – e dall’altro dalle utopiche, per quanto futuribili, connessioni stocastiche e probabilistiche del pensiero di Iannis Xenakis, calcato in un angolo dall’ingombro egoico del potere di veto bouleziano, in una Parigi di grande fermento in quei decenni.
(Su questo, per capirne appieno la portata, si leggano le preziose, per quanto lapidarie e schierate, espressioni di Harry Halbreich riportate nel testo di Pierre Albert Castanet in Finnegans / Ulisse). Un conflitto ideale, linguistico e ideologico fra i due titani-archetipi musicali francofoni, Boulez e Xenakis, che non lasciava certo alcuno scampo a quei giovani compositori quali Gérard Grisey, Tristan Murail e Michael Levinas, ospiti tra il 1972 e il 1974 in terra franca a Villa Medici a Roma, eredi di quello storico Prix de Rome assegnato dai francesi da quando il giovane Debussy ventiduenne vi soggiornò nel 1884, giovani compositori che pure, a cominciare dallo stesso Grisey a quelle due scuole, di Boulez e di Xenakis , ma anche di Messiaen, di Ligeti e Stockhausen, si erano abbeverate.
A quel fervido periodo romano i giovani compositori francesi devono il rassicurante incontro, per le loro nascenti poetiche interiori al suono, e le assidue frequentazioni con la musica di Giacinto Scelsi, allora del tutto oscurato nel mondo musicale, ma già collaudato sciamano che dagli anni cinquanta percorreva vie solitarie e inaudite nella nota sola, a cominciare dai celeberrimi – per quanto vituperati per vari decenni dalla cronaca didascalica del Belpaese – Quattro pezzi per orchestra (su una nota sola) del 1958. Un incontro maieutico quello con Scelsi per la musica di quelli che diventeranno i giovani spettralisti nella loro fase nascente, ma che poi portò loro, marcandone le distanze, su altre curvature ideologiche e poetiche lontane da ogni mistica come quelle scelsiane e più vicine, invece, all’oggettiva natura psicofisica dei fenomeni acustici.
”Roma 1973: data non definibile. Nel giardino di Villa Medici – scrive Grisey – Tristan Murail mi annuncia che al suo rientro a Parigi, intende fondare un collettivo musicale per eseguire e promuovere la musica della nostra generazione e di quelle successive”.
Della prima esecuzione di Pèriodes nel 1974, sempre a Villa Medici, Grisey scriverà ancora: “Scopro dei giovani interpreti sotto la direzione di Boris de Vinogradov. Questo gruppo si è trovato un nome: L’Itinéraire. Nella sala con le volte molto alte di Villa Medici, bisogna rallentare i tempi di circa un terzo. La mia musica già lenta si espande e sembra come arenarsi. Tuttavia, il pubblico comunque incuriosito, sembra contento… lo sono anch’io”. (Gérard Grisey)
Ed è proprio Pèriodes il brano giovanile, vero e proprio manifesto acustico del nascente indirizzo spettrale per ensemble tratto dagli Espaces Acoustiques II del 1974, ad essere stato eseguito con nitida perizia dall’Ensemble Orchestral Contemporain diretto da Daniel Kawka, con Roland Meillier al pianoforte, nel Portrait Gérard Grisey del 14 ottobre al Teatro alle Tese nell’ambito del 60° Festival di Musica Contemporanea de La Biennale, un omaggio all’opera di questo geniale compositore scomparso prematuramente a cinquantadue anni, arricchito di altre due composizioni manifesto del suo catalogo: Talea ou la machine et les herbes folles per flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte (1985-86) e Vortex Temporum I, II, III per pianoforte e 5 strumenti (1994-96).
Una sorta di indagine chirurgica dentro il suono quella condotta da Grisey, vieppiù guidata da quei processi di sintesi granulare e di soglia, sul modello della sabbia e delle dune, che sempre più i compositori di allora affidavano al fascino seduttivo della nascente informatica musicale mentre Grisey, testardamente, si applicava al suono prevalentemente acustico, con una parabola creativa non solo strettamente compositiva ma anche teorica, pienamente lucida e in gran parte compiuta nonostante la sua pur giovane maturità. Un cifratura che lo portò nel suo tempo di vita ristretto, a dissociarsi da quell’etichettatura ‘spettrale’ così significativa per l’elaborazione psicofisica dei fenomeni acustici della concezione musicale degli anni ottanta, caratterizzandosi soprattutto per il suo radicale abbandono alle processualità del suono, sganciate da ogni suggestione narrativa o soggettivamente poetica, diversamente dai suoi compagni di strada della prima ora come Tristan Murail e Michael Levinas, ma anche da quel fratello maggiore musicale che fu ed è Hugues Dufourt.
Così se Talea rappresenta nella sua idea botanica l’innesto nell’organico plantare, che nel processo sonoro si caratterizza per microsfasature timbriche, tra quarti e ottavi di tono, ma anche ritmiche nella composizione coloristica dei vari strumenti, in Pèriodes è la tensione-distensione dinamica degli eventi che si avvolge timbricamente su una sorta di ciclo respiratorio, tra inspirazione/espirazione/riposo. In Vortex Temporum I, II, III, il suo ciclo ad affresco più maturo, la metamorfosi timbrico-sonora volteggia sull’archetipo-principio dell’articolazione o dell’arpeggio dando consistenza alla complessa e ossessiva elaborazione del compositore sulle tematiche anatomiche del tempo che potremmo definire d’ispirazione leonardesca, tra tempo misurato e tempo psicologico, tra scheletro del tempo (le proporzioni e le suddivisioni razionali nelle varie serie, a cominciare da Fibonacci), la carne del tempo (il materiale sonoro utilizzato che incide fortemente sulle modalità di percezione degli stati di cambiamento temporali) e la pelle del tempo (quei fattori contingenti come l’acustica della sala, i tempi individuali degli interpreti ecc.). Senza dubbio, per quanto interrotta, quella di Grisey appare oggi, a quasi due decenni dalla sua scomparsa, una lucida sfida neoilluminista (più francese di così?) pienamente immersiva nei meandri del suono e dell’ascolto per le nuove dimensioni aurali della musica nel futuro.
“Con una nascita, una vita e una morte, il suono sembra animale: il tempo è contemporaneamente la sua atmosfera e il suo territorio. Trattare i suoni fuori dal tempo, al di fuori dell’aria in cui respirano, servirà a disseccare i cadaveri.
La musica che io compongo s’inscrive, fino ad oggi, in un tipo di tempo essenzialmente direzionale: il tempo irreversibile della biologia, della storia e del dramma. I loop, le periodicità ed altri istanti statici sono generalmente acquisiti per un percorso sonoro volutamente dinamico (nel senso del movimento da un punto A verso un punto B, ciò che segna la sua vitalità o meno o il senso di agitazione).
L’idea di processo transitorio e d’interpolazione tocca oggi un gran numero di compositori. La continuità che ho intravisto nel parlare delle soglie è senza dubbio una delle ragioni, le altre sono di ordine filosofico e cosmologico (penso alla teoria dell’espansione dell’universo e all’ecologia).
Andiamo oltre nella forma musicale.” (Gérard Grisey)
Molto spuria l’operazione di visual art tentata nella serata veneziana come innesto forzato sulla musica di Grisey con la proiezione per tutti e tre i brani su grande schermo di actions dell’artista australiano Andrew Quinn, il quale ha operato con il Sound Reactive Visuals, un sistema interattivo di elaborazione di immagini in tempo reale su algoritmi assunti dalla materia sonora stessa. L’invadenza e la seduzione voyeristica irresistibile del visivo, per quanto suggestiva nella sua forma autonoma soprattutto sul primo e sul terzo brano, Talea e Vortex Temporum, ha determinato invece nella pura associazione con il suono proprio una sorta di oscuramento aurale delle peculiarità acustiche, su microsoglie, della musica di Grisey e si è rivelato una sorta di contraddittorio a carte coperte, in cui l’effetto e la seduzione, ripetiamo voyeristica oltre che a tratti troppo didascalica, dell’immagine e della luce, soprattutto nel secondo corpus video dall’invadenza quasi disneyana, nuociono. Uno sbilanciamento psicopercettivo di totale dissociazione, il contrario delle intenzioni programmatiche della serata, che non poteva che ingoiare e inibire quel sottile gioco che invece richiama l’universo sonoro di Grisey, segnale che – se riportato al tempo aurale percepito dell’ascolto – viaggia a 300 m/s, quasi una carezza d’onda, ma se affiancato al fascio di luce a mo’ di laser che viaggia a circa 300.000 Km/s non lascia che bruciature, creando un vero e proprio buco nero aurale nell’orecchio interiore.
Nicola Cisternino
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