RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Fondazione Benetton Studi Ricerche – «Musica antica in Casa Cozzi», quinta edizione, 2018 – Conversazione con Stefano Trevisi, direttore artistico del Festival, a cura di Diego Lorenzi

[Tempo di Lettura: 15 minuti]

«Musica antica in Casa Cozzi» — Quinta edizione
Treviso, chiesa di San Teonisto
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Conversazione con Stefano Trevisi, direttore artistico

 di Diego Lorenzi

Il 21 gennaio scorso si è aperta la quinta stagione del progetto «Musica antica in Casa Cozzi», una proposta che intende varcare i confini europei per esplorare “altre” musiche antiche, un’incursione artistica quanto mai innovativa ed efficace, ricordando il celebre aforisma di Verdi: «torniamo all’antico e sarà un progresso».
Da quale esigenza è nata e quali sono gli obiettivi artistici e culturali che si propone, oltre a quelli della verifica di un percorso di studio e di ricerca musicale?   

Il progetto «Musica antica in Casa Cozzi» avviato dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche in collaborazione con «almamusica433» (l’associazione che ho fondato insieme a 3 amici), fin dall’inizio non ha voluto declinarsi come un Festival. I festival dedicati alla musica antica in Italia sono numerosi, ma quello che desideravamo realizzare fin dall’inizio era un progetto dedicato alla musica antica.
Fin dai primi incontri con il Dott. Tamaro, Direttore della Fondazione, abbiamo focalizzato l’attenzione sulla necessità di sviluppare un percorso di recupero, riproposta e conoscenza della musica antica intesa come bene, patrimonio culturale. Questo, fin dalla prima edizione, ci ha permesso di declinare il progetto partendo dai corsi di formazione rivolti agli studenti dei Conservatori italiani e stranieri, ma anche alle scuole di ogni ordine e grado (dall’infanzia ai licei). Successivamente, è venuto del tutto naturale chiedere ai musicisti invitati a Casa Cozzi di potersi esibire in un recital, come faceva la «vecchia scuola» dei corsi di perfezionamento: concerto del docente prima e sua masterclass poi. È nato così il cartellone dei concerti di «Musica antica in Casa Cozzi», che è solo la punta di un iceberg di un progetto che ha più nature e sviluppi, la “punta” più pubblica, quella che vede crescere un pubblico affezionato che ci segue.

Da sinistra, Stefano Trevisi e Marco Tamaro

L’obiettivo artistico, per riassumere, era quello di poter pensare e realizzare un progetto musicale-artistico-didattico in cui i protagonisti erano al contempo i grandi interpreti della musica antica universalmente riconosciuti, coinvolti per creare un percorso aperto ai giovani, il secondo soggetto del nostro progetto. Il tutto è nato da una considerazione semplice: sono stato studente di una delle istituzioni musicali italiane più significative, il Conservatorio «B. Marcello» di Venezia, nella classe di una grande didatta e interprete come il M° Anna Colonna Romano, la quale si è spesa quotidianamente con i suoi allievi per trasmettere amore, conoscenza e cultura della musica, pianistica in particolar modo. Lei mi ha insegnato che cultura, didattica e studio costante sono tre valori a cui tendere per creare la trasmissione di un patrimonio e non cadere nel rischio di “fare Accademia”. Gli studi universitari di filologia medievale con Folena, Goldin, Renzi, Mengaldo e Cattin (per citarne alcuni) mi hanno dato gli strumenti più puri per un approccio “filologico” alla musica. La realtà è che poi questa fortuna che ho avuto, ho notato che negli anni, nelle istituzioni, è iniziata a venir meno.
E quindi «Musica antica in Casa Cozzi» è il concretizzarsi del desiderio di offrire un’opportunità di incontro tra studenti, giovani che si stanno formando, e i grandi interpreti riconosciuti: l’incontro scatena energia splendida, facilitato anche da Casa Cozzi stessa che, immersa nella campagna trevigiana, permette che docenti e discenti vivano insieme lungo i giorni dei corsi, condividendone la quotidianità.

Siete partiti con una proposta che riguardava le musiche ai tempi dell’Impero Ottomano del XVII secolo, per passare alle musiche in terra spagnola nel periodo del Rinascimento, il cosiddetto «Siglo de Oro» e far rotta poi in terra scandinava per incontrare le proposte musicali degli Zefiro Torna, un ensemble conosciuto e apprezzato a livello internazionale.
C’è un filo conduttore che lega e che tiene insieme proposte a prima vista così eterogenee e che provengono da aree geografiche così distanti tra di loro?

Non ci siamo arrivati per caso; non cercavamo una strada nuova per le indie e ci siamo imbattuti nelle americhe. I primi due anni hanno visto le proposte del nostro cartellone rivolgersi alla musica antica più “classica”, – concedimi il pasticcio linguistico, ma non troverei un termine più preciso per rendere più chiaro quanto voglio dire. I nomi fin dall’inizio sono stati significativi: la clavicembalista Paola Erdas, il liutista Rolf Lislevand, la cantante francese Anne Azéma, Lia Serafini, uno dei soprani più apprezzati per il repertorio cinquecentesco in Europa. Il secondo anno, però, abbiamo azzardato con un primo appuntamento extra moenia, il primo concerto fuori dall’auditorium di Palazzo Bomben: e furono i Carmina Burana medievali eseguiti dalla Boston Camerata, la famosissima formazione americana fondata da Johel Cohen e diretta ora da Anne Azéma. Sei grandissimi interpreti per un concerto memorabile, unica tappa italiana di un tour che li aveva visti sui palchi europei più importanti. Ricordo ancora la sensazione della presenza delle oltre seicento persone presenti al concerto. Eravamo stupiti: persone arrivate da Milano, Bologna, Slovenia che ci ringraziavano per aver portato a Treviso questa storica formazione.
Il terzo anno abbiamo accolto l’invito del professor Lionello Puppi, uno dei padri nobili della Fondazione Benetton, di poter realizzare un cartellone dedicato a El Greco, pittore a cui Puppi ha dedicato una vita di studi e curato la mostra trevigiana. A quel punto abbiamo deciso di tenere focalizzato lo zoom sui tasselli di un mosaico che significassero la parte per il tutto. L’anno successivo (2016-2017) abbiamo scelto di dedicarlo a Gioseffo Zarlino, musico divino, intitolando il progetto «Dal segno al suono» con conferenze e concerti a lui dedicati. Credo che il nostro progetto sia stato uno dei pochi a dedicare così ampia attenzione al padre della teoria musicale più importante. Era l’anno di Monteverdi, capisco sarebbe stato più semplice, ma la verità è che l’Italia non ha vissuto questi anniversari dedicati ai due grandi musicisti con l’importanza che meritavano e che avrebbe meritato la cultura italiana; almeno non con la stessa consapevolezza con cui la Francia festeggiò Rameau. In questa quinta edizione abbiamo allargato l’otturatore e ci siamo aperti alle altre musiche antiche. Il confine mentale ci porta a considerare la musica antica solo quella europea.

Da sinistra, Anne Azéma e Paola Erdas

Da qualche anno assistiamo ad una sempre maggior attenzione rivolta anche a repertori “altri” che sono significativi, proposti dopo un attento recupero da gruppi eccezionali. La «Geografia del Suono», il titolo di questa quinta stagione, è dedicata ad un viaggio ideale tra le musiche antiche provenienti da Paesi anche distanti nello spazio. Il filo d’oro che le lega è quella presente consapevolezza di una radice comune, quasi adamica. Il concerto d’apertura dedicato a W. Bobowski ha raccontato la storia di un uomo che, calvinista di formazione, finisce nel Serraglio del Sultano di Istambul e volente o nolente diventa lui stesso luogo di incontro di tradizioni diverse: l’occidentale, la calvinista, l’orientale e quella turca più specifica. Il concerto di Zefiro Torna presenterà un programma dedicato alle Piae Cantiones, raccolta di musica sacra proveniente da quell’area geografica che noi ora, semplificando, chiamiamo Scandinavia, ma che fino al XIX secolo era terra mobile nel gioco della geopolitica europea, e tutto questo già è testimoniato dalla raccolta della Piae Cantiones stessa già nel XVI secolo, non solo per la loro composizione in sé, ma anche per gli sviluppi successivi che indurrà nei repertori di popoli anche distanti, quali ad esempio l’Inghilterra.
L’ultimo concerto sarà dedicato ad un’idea ideale di geografia. La Carte du Tendre (La carta del Tenero) è una carta geografica dei sentimenti e dell’amore, nata in quel luogo fin dalle sue origini mitico che si chiama Reggia di Versailles. In quella cornice costruita non solo per stupire, ma anche per contenere una filosofia di vita, le arti si sviluppano seguendo una poetica difficile per noi da cogliere fino in fondo. Friedericke Heumann e Stylus Phantastycus ricreeranno sonoramente questa cartina dell’amore. Il filo dorato che tutto unisce è ben rappresentato dal romanzo di Bruce Chatwin The Songlines (Le vie dei canti), che ricordiamo proprio nel titolo della nostra stagione. The Songlines non è un libro dedicato alla musica legata alla geografia o allo spazio in senso stretto, ma è il libro che racconta al meglio la natura nomadica dell’uomo e del suo pensiero; questo continuo e ininterrotto andare avanti dell’ingegno e della creatività dell’essere umano nello spazio geografico che ha deciso di percorrere. Semplicemente emozionante.

Zefiro Torna

Venendo alla formazione che dirigi, i Kalicantus, ensemble attivo da parecchi anni e che vanta molti riconoscimenti, avrei due domande da porti, che si ritrovano e poi si congiungono sui temi dell’interpretazione e dell’esecuzione. La prima è relativa alla proposta che avete presentato a Treviso dedicata alla figure femminili della musica antica, ricerca molto affascinante e piuttosto rara, mentre la seconda – di carattere generale – riguarda la questione della lettura storico-filologica della musica antica, accusata di prestarsi poco alla creatività e alla libertà d’espressione affidata agli esecutori – non permettendo “distrazioni” interpretative –, tacciata di eccessiva rigidità e di esagerato dogmatismo, quando non di ossessione maniacale per l’autenticità (ad es. nei confronti dell’uso delle accordature originali, dello stile dell’epoca, ecc.).
Infine, l’idea che si debba seguire alla lettera le indicazioni del compositore.
So che i temi sono molto dibattuti, anche tra gli ascoltatori. Qual è la tua opinione?

Effettivamente la questione è piuttosto spinosa e andrebbe affrontata sotto più punti di vista. Innanzitutto, in riferimento al concerto proposto da Kalicantus e dedicato alle donne musiciste della musica antica, devo dire che la risposta del pubblico a questa ricerca ci ha molto sorpresi. Non solo la curiosità per un repertorio sconosciuto, ma anche l’apprezzarne la chiara e solida valenza musicale è quello che è emerso dai feedback (perdonami l’uso di un termine inglese che però rende subito l’idea) dei presenti. Personalmente, formatomi negli studi di Filologia medievale e umanistica dell’Università di Padova, conoscevo molto bene l’ambiente e l’opera di Ildegarda di Bingen (soprattutto nel suo aspetto più letterario e teologico di cui la musica è una manifestazione) e delle musiciste trovadoriche, ma confesso che mi ha letteralmente rapito la dedica della «Ghirlanda de madrigali» della Aleotti ad Ippolito Bentivoglio, in cui Giovan Battista Aleotti, padre di Vittoria, racconta la genesi della vocazione musicale di sua figlia. Questo mi ha spinto a trascrivere e ricercare le autrici donne del Cinque e Seicento.
Il panorama fa affiorare storie, prassi e “dietro le quinte” che mi hanno lasciato assolutamente incantato. Il progetto di crearne un vero e proprio spettacolo, non solo vocale ma anche strumentale, è già partito e credo che per settembre saremo pronti per presentarlo al pubblico.

Kalicantus ensemble

Proprio riferendomi a questi repertori direi che possiamo ben agganciarci alla tua spinosissima domanda legata alle interpretazioni della musica antica: libertà o rigida esecuzione di quanto scritto? Parto dalla mia formazione filologica letteraria: il mio grande Professore di Filologia Gianfranco Folena ricordava sempre a noi studenti laureandi che la Filologia è quella disciplina che permette di creare un’edizione critica che è la porta di accesso ad una nuova edizione critica. In un suo contributo purtroppo ora introvabile, intitolato «Volgarizzare e tradurre», metteva già in luce il problema che ora possiamo applicare alla musica. La filologia, come scienza-strumento umanistica, è una disciplina sostenuta da altre altrettanto tecniche, atte a dare gli strumenti al ricercatore per cercare di arrivare il più vicino possibile alla radice dell’originale. Ma come insegnavano i grandi padri della filologia, mancava sempre l’ultimo passo che va dal pensiero dell’autore alla sua annotazione scritta.

Per troppo tempo, nei primi anni, la prassi dello «storicamente informato» si è fondato su una prassi definita “filologica”, che già vent’anni fa faceva sorridere chi la filologia la faceva veramente. Perché è accaduto che questa “prassi filologica” ha creato persone che sapevano come si faceva la musica medievale o rinascimentale. Lo sapevano senza aver magari mai messo in relazione due segni musicali con una riga di Chrétien de Troyes. Accadeva frequentemente e negli ambienti universitari, dove la disciplina della filologia iniziava ad essere applicata alla musica, assistevamo a questa distorsione del codice filologico. Non voglio dire che tutto può essere fatto! Dobbiamo, però, riconoscere che l’applicazione filologica alla musica, agli inizi di questa che allora era divenuta una “moda”, è stata fatta in maniera arbitraria e da molti interpreti, impreparati, senza criteri scientifici. La musica antica, proprio per la sua distanza temporale dal nostro reale presente (siamo nel 2018) che riduce sempre di più la possibilità di poterla decifrare con le sue reale intenzioni, ci è stata consegnata dai suoi autori nel modo più preciso per l’epoca in cui è stata scritta, per essere riprodotta e ricreata. Il problema segno-suono proprio della filologia. Ora, molti sono gli aspetti che ci possono essere di aiuto: la notazione, l’articolazione, la scala e il movimento sono i più comuni.

Ballo alla Cour des Valois, Francese anonimo (Rennes, Museo delle Belle Arti, 1580 circa)

Ma uno degli aspetti più trascurati è lo spazio per cui era scritta, ad esempio. Oppure la danza. Possiamo renderci conto che la maggior parte degli esecutori di una Pavana non sono in grado di ballarla? Nemmeno una «giga», per non parlare di una «volta» o di una «gagliarda». Si parla di metronomo (pensandolo moderno) e non si conosce minimamente quello della musica antica dettato dalla danza. Quando molte volte lo ricordo nelle conferenze in cui sono invitato, mi guardano con gli occhi di chi sta ammirando un fedele di una religione new age invitato a partecipare al Conclave. La verità è che ben pochi sono gli interpreti che si sono presi la briga di leggere, almeno, se non studiare i trattati di danza. Questa ad esempio è la ragione per cui con Kalicantus abbiamo partecipato ai corsi di danza rinascimentale e medievale di Bepi Santuzzo, erede del grande John Guthrie. Questo problema affligge anche la musica del Novecento. In una conversazione con l’amico Carlo Boccadoro si ragionava proprio sul fatto che la musica di un Luigi Nono, di un Luciano Berio necessitano ora (nel 2018) di un approccio filologico pressoché simile a quello che applichiamo alla musica di Monteverdi, per esempio. Carlo mi raccontava le numerose prime assolute che lo hanno visto protagonista come esecutore delle musiche di questi due autori. Ed era sorpreso come loro tracciassero una linea di esecuzione di quelle pagine per i professori d’orchestra, ma mai nessuno che si segnasse quanto suggerito da Berio. Il problema è lo stesso, anche se per il Novecento storico ci viene in soccorso il supporto audio e video che ci aiuta a ricostruire i repertori insieme alle fonti musicali in sé.

Tornando alle questioni poste nella precedente domanda ed in particolare al sistema della «notazione», ti vorrei chiedere se come ensemble Kalicantus fate uso di abbellimenti, ornamenti, ecc. – talvolta, come sai, molto contestati –.

Sì. È vero! Lo ammettiamo. Confesso che, a seconda dei contesti e dei programmi, ci concediamo talvolta delle licenze. Ma sempre nell’ambito della teoria prevista. Mi spiego: la prassi della diminuzione è non solo accettata, ma direi quasi obbligatoria per uno strumentista o un cantante solista. Non viene quasi mai praticata nell’ambito dell’ensemble vocale. Questo non me lo spiego. Credo rientri nel concesso/nonconcesso che la tradizione della prassi ha dettato negli ultimi anni codificando uno stile puro o purista a seconda dei punti di vista. Per significarti quanto stiamo camminando sulla lastra di ghiaccio sottile, ti riporto ad uno dei grandi must della musica vocale antica: in cui il «vibrato» è assolutamente vietato. Ma nessun teorico antico vieta di vibrare o suggerisce il suono fermo. Il primo trattato vero e proprio, che ci descrive cosa accadeva allora in Italia, è universalmente riconosciuto nelle Nuove Musiche di Caccini, e siamo solo nel 1602. Si capisce perché la questione quindi è spinosa, avendo oltre 400 anni di vuoto.

E il pubblico come risponde alle due diverse prassi esecutive, quelle legate in qualche modo alla “modernità”, che spesso esige fedeltà all’originale – parlo anche degli strumenti –, o quelle che invece si concedono il lusso di un’interpretazione meno vincolante, più licenziosa?

Il pubblico è curioso. Apprezza entrambi i mondi, mal tollerando gli estremismi di entrambe le prassi. Fortunatamente il pubblico si sta formando in gusto anche per la musica antica e riconosce e apprezza sia quanti la eseguono così come è scritta e quanti, da così come è scritta, la interpretano. La mia prima formazione è quella pianistica e filologica, non mi stancherò mai di ricordarmelo, e quella filologica mi ha insegnato che la situazione culturale in cui la musica è nata è molto più viva, vivace e complessa e quelle note che vado ad eseguire ne sono un riflesso.

Kalicantus ensemble

Restiamo nel campo dell’esegesi e della lettura primigenia di alcuni testi. Alcuni musicologi, come sai, tendono a racchiudere l’interpretazione della musica antica in alcuni recinti ben definiti, facendo riferimento, ad esempio, al contesto storico-politico o culturale nel quale era stata composta e divulgata. Va da sé che questo è quasi un richiamo all’interpretazione fedele all’originale. Ma non si rischia in questo modo di trascurare i canoni estetici fatti propri dalla modernità, dall’evoluzione del gusto e dalla raffinatezza di un nuovo “ascolto” musicale – tema che se avessimo tempo sarebbe interessante da affrontare.

La musica del passato suscita due atteggiamenti e due modi di pensare diversi: il primo la vorrebbe portata al presente, il secondo vorrebbe immaginare di ascoltarla con l’orecchio di ieri. Non mi riferisco solamente al nostro secolo, parlo anche di un Settecento classico che ha rimaneggiato opere barocche o rinascimentali. Nikolaus Harnoncourt in Musik als Klangrede rifletteva sul fatto che la musica antica sostituiva l’incapacità allora della musica contemporanea di riempire le sale da concerto. Era il 1982 e il grande direttore d’orchestra, affermando ciò, faceva notare la difficoltà dell’uomo contemporaneo di vivere nel tempo e per il tempo accogliendo con naturalezza le proposte degli autori contemporanei. Non accadeva così al pubblico viennese tardo settecentesco, sia in relazione ai suoi contemporanei sia alla musica antica riproposta da quelli autori a lui contemporanei. La nostra vita di «pubblico da concerto» si è formata e vive di rendita sul repertorio dell’Ottocento più classico. Per questo ritorno a dire che la musica antica richiede un’attenzione del tutto particolare, che prenda in considerazione tutte le direzioni che permettono la configurazione di una prassi che sia il più possibile attendibile (il più possibile, filologicamente parlando).
Recentemente ho ascoltato due incisioni molto vicine e molto distanti tra di loro: la prima Commedia! Commedia! dell’Accademia Strumentale Italiana guidata da Alberto Rasi e la seconda dal titolo Moresche ed altre invenzioni di Maria Pia De Vito. In entrambe il filo comune è ricondurre la musica cinquecentesca all’interno di un contesto non solo musicale: Rasi lo realizza con una esecuzione corretta riportando nel cuore della Commedia dell’arte più pura i repertori vocali. La De Vito immerge le Villanelle alla napoletana di Orlando di Lasso in un crogiolo di suono tra il popolare e l’etnico, pur eseguendo le note di Orlando di Lasso senza cambiarne una sola. Rasi ha alle spalle una affermata camerata di musicisti solidissimi, la De Vito oltre ai suoi bravissimi compagni di viaggio, grandi musicisti del jazz, mette in campo voci giovani non educate in senso stretto al repertorio antico. Senza voler arrivare a farne una gara (nemmeno per simpatia), le due incisioni hanno un punto di partenza comune e uno sviluppo, nelle modalità, diverso. Quando ascolto Rasi si dipana in testa un fiume con i suoi affluenti di collegamenti e colgo i sapori della raffinata arte della commedia. Quando riascolto le «moresche» della De Vito penso che forse proprio così doveva essere la Napoli che accolse Carlo V con il suo seguito (tra cui Orlando di Lasso).
Scegliere di far precedere una «villanella» da un passo di Ruzzante piuttosto che da uno scioglilingua di lavandaie è puramente arbitrario; anche eseguire la stessa «villanella» senza necessariamente farla precedere da nulla. Ma apprezzo entrambi i lavori. Forse quello della De Vito mi ha ricordato il De Andrè di Creuza de Mar che sente il bisogno di uscire dall’Accademia del suo stile dal lui stesso creato per meticciare e incontrare il reale. Filologicamente corretto? Le note sono tutte per tutti quelle scritte dagli autori, ripeto, e ormai abbiamo più di 30 anni di storia nell’interpretazione della musica antica. Trovo curioso, avendo citato Harnoncourt, che ad un certo punto lui stesso si stancò di questa diatriba tra «antico» e «filologia» proprio nel momento in cui si vendevano più dischi di barocco storicamente informato di quanto non se ne fossero mai venduti; e si mise ad approcciare filologicamente l’opera orchestrale dei tardo ottocenteschi.

Jordi Savall, © Toni Peñarroya

E veniamo per ultimo all’indiscusso Maestro della musica antica, Jordi Savall, che hai voluto nel cartellone, promosso, ricordiamolo, dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche. Un illustre musicista, violista di gamba, direttore d’orchestra, musicologo e ricercatore, interprete ed esecutore di centinaia di CD, soprattutto del repertorio barocco, le cui proposte costituiscono ponti e canali di congiunzione tra le varie tradizioni musicali del Mediterraneo orientale, attinti da manoscritti musicali di provenienza armena, turca, ebraica, latina e slava. Raccolte nel libro della Scienza della musica di Dimitrie Cantemir, un voivoda moldavo che fu fatto prigioniero e tenuto in ostaggio alla corte del Sultano tra il ‘600 e il ‘700.
Ce ne puoi parlare?

Sono felicissimo che Jordi Savall sia ospite della nostra stagione. Lo abbiamo avuto anche ospite a Padova il 9 febbraio scorso per uno dei concerti legati alla mostra “Galileo meraviglia” organizzata dall’Università di Padova, che ha chiesto appunto al progetto di musica antica di Fondazione Benetton Studi Ricerche di curare gli eventi musicali correlati alla mostra. Ho avuto l’onore di trascorrere del tempo con lui e si è confermato quanto da sempre ho sentito sul suo conto: una persona di una gentilezza rara e un uomo che ha a cuore gli uomini relazionandosi con loro attraverso la musica. A Treviso sarà con Hesperion XXI, proponendo un repertorio, come ricordavi, legato al libro della Scienza della musica di Dimitrie Cantemir. All’epoca Istanbul era del tutto paragonabile a quello che fu New York negli anni Ottanta: tutto girava nelle sue strade e anche le musiche confluivano e si incontravano contaminandosi. Purtroppo di questi tempi il termine «contaminazione» è stato maltrattato, tanto quanto il termine «trasversale», ma in questo appuntamento sarà possibile assistere al dialogo di tradizioni musicali diverse che si incontrano e si conoscono tra loro. Prima di tutto la conoscenza reciproca per poter creare una nuova terra di suono che possa essere condivisa e porti frutto. Un messaggio che Savall in questi anni sta portando avanti con caparbia tenacia anche in Festival che assumono una valenza simbolica come quello di Fontfroide (Abbazia francese nella regione di Narbona, n.d.r.).

Sarà certamente un concerto emozionante, anche perché Savall, più di altri interpreti, riesce a trasmettere all’ascoltatore una forte carica emotiva. Ricordo quello che disse in un’intervista: «Oggi, nella composizione, prevale spesso un supremo tecnicismo, una ammirevole, a tratti furiosa, abilità artigianale, a scapito dell’aspetto comunicativo ed emozionale». Ho assistito nel passato a due suoi concerti e devo confermare la sua naturale e autentica capacità comunicativa, umana e artistica.

Concordo pienamente. Jordi Savall trascende la tecnica e l’articolazione della partitura e a quel punto non si parla più di viola da gamba, ma solamente di Musica. Questa dovrebbe essere la massima aspirazione per ognuno di noi.

Infine, vorrei chiederti se Treviso è una città che sa cogliere ed accogliere questo tipo di proposte, soprattutto a livello giovanile…

Domanda anche questa molto interessante ed importante. In questi cinque anni siamo cresciuti insieme al pubblico che iniziò a seguirci. È stato un percorso, e lo sarà sempre, condiviso; il pubblico si è allargato ad appassionati della musica antica da fuori provincia e Regione, e in questa quinta edizione assistiamo ad un ulteriore passaggio: l’arrivo di coloro che si stanno appassionando.
Ma il pubblico giovanile è ancora difficile da intercettare. Il progetto «Musica antica in Casa Cozzi» ogni anno incontra oltre 800 studenti in lezioni concerto, conferenze e incontri nelle scuole (elementari, medie e superiori) con progetti tesi ad avvicinare i giovani alla conoscenza dei repertori. Più di 800 in un anno e in media due progetti didattici fissi non sono poca cosa. La scuola è aperta a queste esperienze e i giovani sono sorprendenti perché sono in sé liberi, quindi pronti a ricevere quello che gli porti. Rimaniamo sempre commossi e felici di vedere che alla fine dei progetti i ragazzi ti manifestano il loro apprezzamento per un repertorio che non avevano mai approcciato prima. Stiamo ampliando l’offerta e soprattutto l’organizzazione di progetti stabili. Insomma, una bella storia, come dicono loro.

E allora, forti di questa ventata di contagioso ottimismo giovanile, mi perdonerai se chiudiamo questa interessante conversazione toccando invece un tema di stretta e dolorosa attualità che riguarda il mondo femminile, il tema cioè legato alla violenza oltraggiosa e all’esaltazione dei soprusi contenuti in alcuni testi di musica sacra e rinascimentale, o di canti profani (mi sembra anche in certuni Mottetti del Codice di Montpellier), che denigrano in modo pesante le donne.
So che molti ensemble escludono dai loro repertori questi ed altri canti, come anche alcuni che presentano testi antisemiti.

Argomento spinoso in sé. Purtroppo sono una testimonianza oggettiva del periodo in cui sono stati realizzati e scritti. Non credo sia un atteggiamento corretto nasconderli sotto il tappeto come la polvere che ci infastidisce. Un giusto approccio sarebbe quello di raccontarli e collocarli nel loro contesto. Dopotutto il Codex Montpellier conserva dei triplum divertenti in cui al termine Ecclesia corrisponde sempre un bel diabolus in musica. Chiaramente qui l’ambito è ben più serio: non possiamo cancellare capitoli della nostra storia di esseri umani, ma dobbiamo raccontarli con coraggio, ammettendone il limite e l’errore per non poterli ripetere. Perché il vero aspetto importante è che se non ci è data la possibilità di eliminarli, quello che possiamo fare come esseri umani è di non scriverne di nuovi. E questo si rende possibile quando sappiamo a cosa siamo tentati (sia nel bene che nel male) e siamo consapevoli che quelle strade sono state percorse e hanno portato solo Male. Per un futuro che conosca le sue radici antiche, bisogna continuamente fare esercizio di Memoria.

Foto di copertina: © Nicoletta Boraso

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