Palazzo Albrizzi – Cannaregio, 4118, 30121 Venezia
15 maggio – 5 giugno
A cura di Pier Paolo Scelsi
Testi in catalogo di Massimo Donà, Luigi Viola
AUTORI: Mario Sillani Dierrahjan, Pier Paolo Fassetta, Tobia Ravà, Mauro Sambo, Raffaella Toffolo, Luigi Viola.
Tramite il seguente link è possibile scaricare il flyer.
L’espressione paesaggi dell’esistenza indica un’idea del paesaggio inteso come esperienza di luoghi entro cui l’uomo contemporaneo agisce, costruendo e mettendo in forma una sperimentazione etica prima ancora che estetica, dunque un paesaggio che si può considerare, con Éric Dardel, manifestazione completa dell’esistenza. Poiché, come sostiene il filosofo Massimo Venturi Ferriolo, la contemplazione di un paesaggio è inseparabile dal vivere al suo interno. Nel nostro caso è l’artista che orientando lo sguardo tra visibile e invisibile, accede alla sfera del senso e alla trama dei significati possibili, ma ogni uomo in fondo può e deve compiere un simile esercizio. In tal modo il paesaggio esce dallo sfondo precostituito e diventa a tutti gli effetti una rinnovata occasione di canto e lode.
B’Teva significa letteralmente in natura, ebraicamente intesa come Creato, concetto definibile anche con l’espressione Olam (םלוע) o mondo di equivalente significato. La parola olam, oltre a significare mondo significa anche eterno e questo ci avverte circa una specifica caratteristica del creato, dove tempo e spazio convergono in un’unica esperienza.
La Natura intesa dai Greci come physis costituisce lo sfondo concettuale fondamentale, il luogo della relazione simbolica primaria da cui ha preso origine il logos che ha dominato la civiltà pagana del mondo antico riflettendo per millenni la propria gigantesca ombra culturale sul pensiero filosofico, artistico, scientifico, infine sull’idea moderna di paesaggio inteso come terreno preminente dell’esperienza estetica e come tentativo di composizione del dualismo tra natura ed artificio che ha dominato la storia dell’Occidente ellenizzato.
Ma nessuno dei termini riferibili alla natura che troviamo nella Scrittura ha un significato analogo a quello di physis, considerata come produttore di vita, entità attiva e creatrice ed è inoltre sempre presente in rapporto di dipendenza da Dio.
La mancata condivisione di una concezione sacrale della natura come entità creatrice autonoma e frutto di un determinismo causale che ha nella natura stessa le proprie ragioni è infatti la prima diretta conseguenza di una visione di Dio come entità trascendente e del mondo come creato e non pura natura.
Opposta è anche l’idea del logos, della razionalità. Pensiamo al logos spermatikos degli stoici, principio generativo dell’universo, mentre al contrario “l’ebreo vede il mondo muoversi per intervento di una volontà unica e suprema che lo indirizza verso un fine che egli non osa neppure indagare. Sente che la ragione lo pone di poco al di sotto della divinità, ma è convinto anche che questa stessa ragione è condizionata e donata da Dio” (G.Israel). Questo significa che la conoscenza ha una sorgente esterna alla natura e pertanto in essa “l’ebraismo biblico si limita ad ammirare la grandezza di un’opera già realizzata prima che egli la potesse contemplare. Sul suo capo si estende il Cielo con le sue schiere innumerevoli di astri, opera di una mano che non è la sua, animati da una voce che non giunge fino a lui. Invece nell’intimo della propria coscienza si apre un mondo altrettanto sconfinato nel quale l’uomo si sente non soltanto esistere realmente, ma si sente molto vicino a Dio; è qui che sa di essere di poco inferiore a Lui.
Anche quando tutto tace egli sente muoversi in se stesso un altro universo di cui riesce ad intuire l’incommensurabilità e le vie più nascoste. È l’Universo etico, il suo universo, quello che percorre insieme agli altri uomini e nel quale Dio non appare come una forma oscura che si limita a muovere le cose; ma soprattutto ed esclusivamente come intelligenza che regola l’armonia suprema nella convivenza degli uomini e che realizza la libertà e la perfetta uguaglianza delle coscienze”.
L’ebraismo introduce dunque la dimensione di un nuovo universo, corrispondente al mondo morale, che ha assoluta necessità di stabilire anzitutto la giusta distanza tra Dio e l’uomo, tra il Creatore e la natura.
La spaccatura con il mondo pagano sta precisamente in ciò, nell’introduzione della dimensione della trascendenza sconosciuta a quel mondo e in particolare al pensiero greco, come ha spiegato Gershom Sholem.
E’ questa bipolarità, questo abisso incolmabile tra Dio e l’uomo che fa sì che “il teatro non sia più la Natura, ma l’azione morale e religiosa dell’uomo e della comunità degli uomini la cui interazione dà luogo alla storia; in un certo senso questa è come lo scenario su cui si svolge il dramma della relazione dell’uomo con Dio”.
Possiamo quindi intendere cosa significhi dal punto di vista ebraico “vivere nella natura”, alla luce di una specifica consapevolezza del significato e del ruolo che uomo e natura hanno nel creato.
Inoltre credo che ciò ci permetta di capire come il paesaggio di cui sentiamo maggiormente l’urgenza e la necessità oggi sia quello che prende forma unicamente a partire dalla coscienza morale della nostra relazione con il Creato, oltre ogni idolatrico naturalismo, un creato illuminato dalla nostra partecipazione attiva al dialogo con la trascendenza e dal senso dell’esistenza al mondo e del mondo.
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